sabato 27 giugno 2009

Cosa è la conoscenza, e la lezione di Humberto Maturana

Nel testo che penso sarà intitolato Devanarse los sesos (in spagnolo devanar è 'dipanare'. Seso, è 'cervello'; possiamo anche dire 'rete neurale'), parto da una definizione di conoscenza che dobbiamo ad Humberto Maturana.
La conoscenza, ci dice Maturana, “non è la rappresentazione di una realtà data a priori, non è un procedimento di calcolo basato sulle condizioni del mondo esterno. Quando un animale o un essere umano si comporta in modo adeguato e coerente con le circostanze specifiche, o quando un osservatore arriva alla conclusione che sta percependo una condotta adeguata in una situazione da lui osservata, allora questo osservatore dice che questo animale o questa persona conosce; dice che ha conoscenza. Dunque la conoscenza è la condotta considerata adeguata da un osservatore in un determinato dominio”.
Per la fonte, e per leggere qualcosa di più, potete andare qui.

venerdì 26 giugno 2009

Brani di discorso notturno a me stesso

In Scrivere con la voce spiego come è stato scritto uno dei testi che fanno parte dell'opera alla quale sto lavorando. Per rendere l'idea di quale testo emerga dallo 'scrivere con la voce', pubblico qui qualche brano.
(Rileggendolo ora, questo piccolo frammento mi sembra anche una buona approssimazione ad alcuni degli argomenti chiave attorno ai quali sto ragionando).


La conoscenza è frammentaria, caotica, scomposta: l'informatica infantile decide che questo caos è ingestibile, perciò sceglie di non vedere la natura complessa della conoscenza, e la sostituisce con una rappresentazione.
L'informatica infantile, nel solco della tradizione libresca, legittimata da questa, sceglie di considerare gestibile solo l'informazione strutturata, chiusa in una forma, ordinata, organizzata. L'assenza di struttura è vista come inferno, perché comporta l'indominabilità, e l'allontanamento, la distanza dall'ordine.
Da qui l'idea che la ridondanza è il peccato. Il dato vale se univoco. L'idea che il libro racchiude -e quindi rende gestibile- la conoscenza, arriva al suo estremo nell'idea che il dato accettabile è solo il dato univoco. Solo questo dato l'informatica infantile concepisce, solo a partire questo dato l'informatica infantile è in grado di costruire informazione. Ma è una informazione deupauperata in partenza. La conoscenza come polifonia, come molteplicità, come ricca diversità è negata a priori.
Torniamo ancora alla metafora del libro: solo il libro, solo quel libro contiene la verità. Per esprimere quel concetto può essere usata solo quella parola. La varianza è accettata solo come scostamento dalla norma. Il miglioramento progressivo della qualità consiste nell'eliminare le varianze, che sono intese come errori, perché c'è, nel cielo di questa informatica, l'idea di ottimizzazione. Un dato è esatto, valido, gli altri sono da scartare, sono puro rumore. La codifica separa la verità dall'errore. (...)
Si può fare qui una connessione con l'utopia di Ulrich, nell'Uomo senza qualità: il tentativo di perseguire un obiettivo complesso, tenere insieme l'esattezza e l'anima. Un'utopia, perché la massima organizzazione moderna, che Ulrich ha sotto gli occhi, la burocrazia austroungarico, funziona di per sé e alla fin fine contro se stessa, senza lasciare spazio all'anima. Così l'informatica ci si mostra come matematica intesa non come misterioso ordine che può essere portato alla luce, ma invece come ordine già esplicitato e imposto dall'alto, imposto alla conoscenza facendolo scendere dall'alto, facendolo scendere dal cielo, facendolo discendere dall'idea.
Eccoci così alla manifestazione massima dell'informatica strutturata, organizzata fino al punto da divenire un'organizzazione sociale. Fino al punto che il software diventa lo strumento di governo e di controllo sociale. Questa è l'informatica degli anni sessanta.
Una informatica ancora comunque mitigata dal pragmatismo americano, che continuava a garantire una certa libertà: attraverso il Cobol descrivo, rappresento la mia organizzazione, fino ad irrigidirla in modello di controllo – ma è sempre la mia organizzazione, non privata delle sue caratteristiche distintive: si dà per scontato che ogni azienda è diversa dall'altra. (...)

Dunque il dato inteso come unità elementare, mattone buono per costruire edifici, cattedrali di dati perfettamente ordinati, sistemi lontani da ogni ridondanza, privati di ogni ricchezza che non sia previamente allocata, legata ad una funzione.
Si può fare anche un ragionamento estetico, c'è anche una estetica delle architetture informative, ma qui non è in gioco il confronto tra diversi stili: tra art nouveau e razionalismo o tra gotico e romanico e barocco. questi sono culture organizzative di una di queste barocco il gotico romanico che ce che si manifesta ma qui è in gioco qualcosa di più profondo e perché sia il il barocco che il gotico che il romanico se andiamo a guardare solo frutto di contaminazioni con l'ambiente, sono adattamento, non sono modelli di imposti dall'esterno: un esempio è il riuso di colonne, di pezzi di templi romani nel romanico, un altro esempio nelle eccesso barocco di orpelli e che non hanno una giustificazione tecnica, ma invece simbolica: manifestare ricchezza, disponibilità al gioco, accettazione del mistero.
Nell'informatica infantile invece non c'è niente di barocco, e se c'è, appunto, la ridondanza è intesa come peccato, come errore. L'informatica infantile cosa fa: porta all'estremo il modello che sta alla base della transazione: bene versus denaro: lettera data, e quindi lettera che vale solo perché è stata data in quel preciso; negazione dell'esistenza di ogni dato che non sia passato al vaglio delle le regole previste a priori. La transazione è imporre alle informazioni, alla conoscenza, il passaggio attraverso queste forche caudine.
L'idea è che l'informazione buona, l'informazione utile può essere costruita solo eliminando la ridondanza.
Eppure di per sé il magma di conoscenza destrutturata che è l'insieme informe di queste unità elementari, di questi atomi, di questi quanti che possiamo chiamare dati, questo insieme è ridondante. (...)

Ma l'informatica tradizionale si è data come fondamento l'impossibilità di gestire più informazioni riguardanti lo stesso argomento. E quindi ha costruito strumenti che sono i database: la conquista, il momento di maggiore maturità dell'informatica infantile, negli anni 60. I database ci appaiono come contenitori costruiti per funzionare sulla base di transazioni. Il dato che può entrare, il dato che può essere accolto è solo il dato che corrisponde a regole che prevedono, avendolo definito a priori, che in quel luogo possa esser conservata solo quella determinata porzione di conoscenza: solo quelle informazioni, quegli insiemi di dati. E questi insiemi di dati possono essere forniti solo da un determinato fornitore.
Quindi, invece di avere sotto lo sguardo -sia pure con tutto il suo mistero, e con la consapevolezza di non poterla completamente dominare- invece di avere sotto gli occhi, in mano, questa ricchezza che è l'informazione, ho -come accade con il libro, in un modo che porta all'estremo i limiti del libro- solo una informazione puntuale, una informazione che tiene conto solo del punto di vista dell'esperto legittimato. E quindi non c'è conoscenza che cresce attraverso la fertilizzazione incrociata, attraverso la pluralità dei punti di vista. C'è solo conoscenza morta. Non c'è arricchimento, perché non c'è confronto, non c'è dialogo, non c'è adattamento, non c'è evoluzione. E' conoscenza morta, così come è conoscenza morta la conoscenza del libro. La conoscenza che c'è nelle procedure aziendali è conoscenza morta – oppure potremmo dire: conoscenza uccisa.

Qui possiamo vedere emergere il modello opposto al modello del database. Il database prevede a priori un'architettura che definisce, pro-grammandola, scrivendo prima, quali dati andranno conservati, a quali verifiche di accettabilità devono essere sottoposti, in quale luogo devono essere conservati, quale dev'essere la fonte di quei dati. E' un modello che si vanta della sua povertà, dell'avere eliminato tutti i dati che sono una potenziale ricchezza, ma che confondono la semplicità di questo quadro, come se fosse impossibile fare altrimenti, come se l'uomo al lavoro non fosse in grado di dominare la complessità, di giocarci, di vivervi immerso.
L'informatica matura ci propone un passaggio che a questo punto possiamo anche vedere nella sua manifestazione in fondo semplice. (...) Semplice perché il concetto di base è che l'idea dell'informazione strutturata è solo il frutto di un bisogno di rassicurazione del gestore dell'informazione. E' solo un portare all'estremo il modello del libro, con la sua struttura intesa come necessaria. Ma di per sé e l'informazione non è strutturata. L'informazione è in continua ristrutturazione. L'informazione è il manifestarsi -a fronte di domande determinate, di volta in volta diverse- di insiemi di conoscenza, di accorpamenti di volta in volta differenti di conoscenze emergenti dal magma sottostante. (...)

Qui si manifesta la fallacia dell'approccio “garbage in, garbage out”: l'idea che la colpa della cattiva informazione sta nelle cattive domande che l'utente fa a chi si occupa di costruire questi database, questi sistemi informativi, queste procedure. In fondo è il modo di costruirsi l'alibi di chi si occupa di informatica.
Con l'occhio dell'informatica adulta, il processo significativo non è questo processo di ordinamento, di assoggettamento a una struttura previa -che di per sé invece, stiamo dicendo, è proprio un abbassamento del senso, una rinuncia ad un senso più pieno- il processo significativo è invece la continua estrazione, a fronte di diverse esigenze, da questa massa di dati, di provvisorie strutturazioni funzionali a esigenze conoscitive, a aspettative di gioco, a volontà, a casi, a bisogni.
E quindi il modello che si oppone al modello del database è un modello che metacodifica il dato. Al dato è aggiunta una etichetta, un metadato che descrive fonte, contenuto. E anche le caratteristiche semantiche: il ruolo che può assumere quel dato, quell'unità minima, all'interno della costruzione di un discorso, di un percorso di senso.
Di quel singolo dato aziendale m'interessa non solo la versione proposta dell'ente che è deputato ufficialmente a gestire quelle informazioni; a me interessa il dato di chi vive nel sottoscala dell'azienda, il dato di chi li fa dirigente, mi interessa il dato di chi si occupa di un'altra funzione aziendale. Facciamo un esempio: le politiche retributive: non interessa solo conservare l'informazione di quanto il direttore del personale decide di pagare una tal persona, interessa anche conservare l'informazione di quanto quella persona vorrebbe essere pagata, di quanto ognuno degli altri dipendenti di quell'azienda, ognuno dei clienti e ognuno dei fornitori pensano che quella persona debba essere pagata.
Come si fa a conservare queste informazioni? Si aggiunge all'informazione una metainformazione che dice: 'questa è l'opinione, è la versione del dato della persona Pippo o della persona Pluto'. Dopo, si potrà decidere che se si deve fare una chiusura contabile si tiene conto solo dell'informazione del Direttore del Personale o del responsabile di Finanza e Controllo. Ma questo non significa che gli altri dati non siano significativi, e che non possono essere usati per comprendere qual è il clima aziendale, la cultura aziendale, il come si sta producendo valore, o per fare strategie, perché il lavorare e portare a fattor comune, portare a valore, il contributo di tutti coloro che lavorano.
Rispetto questo obiettivo -descrivere la conoscenza portata alla luce dal lavoro- l'informatica tradizionale, sceglie di restare infantilmente legata al bisogno di regole esterne, e si offre come strumento di controllo. Rispetto alla costruzione sociale di ricchezza, alla creazione di valore, questa informatica gioca contro.
All'opposto, il diverso paradigma di una informatica che coglie l'emergenza: la conoscenza è colta nel suo prendere forma. A fronte di una domanda, di quella query che posso fare con il motore di ricerca, dicendo: tirami su queste informazioni insieme a quest'altra, la conoscenza prende forma. Una forma transeunte, una forma subottimale, la forma assunta in un certo momento, che è valida (solo) per permettermi di rendere fruibile l'informazione in quel momento, in cui contesto.
Quindi non si nega l'esigenza di una struttura come condizione necessaria per rendere fruibile l'informazione, ma quella struttura sarà la struttura che m'aiuta in quel momento lì, per rendere fruibile un insieme di informazioni. Esisteranno enne altre strutture potenziali.
Mentre la conoscenza nella sua forma di dato, di unità elementare, di insieme magmatico, vive senza bisogno di struttura.

mercoledì 24 giugno 2009

Il rumore come ricchezza

Il rumore di un aeroplano è puro inquinamento acustico. Tanto che si investono considerevoli risorse per azzerare non tanto l'esistenza del rumore, ma la sua percezione da parte dell'orecchio umano (in particolare per gli aereombili più rumorosi, che sono quelli dotati di motori a turboelica). Approfonditi studi hanno dimostrato infatti che rilevando con acconci apparati il rumore, e producendo via software un rumore uguale e contrario, la qualità della vita del viaggiatore migliora notevolmente.
Il rumore di fondo disturba l'ascolto della musica. Tanto che ogni impianto hi fi è dotato di filtri destinati ad abbattere il rumore, migliorando così la qualità dell'ascolto.
Il rumore, nella percezione comune e diffusa, è forse il più evidente segnale dell'assurdità del vivere 'moderno'. Le metropoli si differenziano dai piccoli centri e dalla campagna innanzitutto per il rumore. Il suono delle campane è –appunto– un suono; mentre il rumore del traffico è –appunto– un rumore. Era così già nel secolo scorso: la Londra di Dickens era dirty, colma di fraastuono, inquinata. Le cose non sono di certo migliorate.
Il rumore ci appare come il nemico da combattere. Intendiamo il rumore come spreco di risorse. Ciò appare particolarmente evidente nel campo della gestione della conoscenza. Luogo comune vuole che il principale indicatore del valore di una base dati sia costituito dalla bassa incidenza del rumore. Eppure proprio in questo contesto il ragionamento ci si presenta rovesciato.
Ciò che ci appare rumore, in realtà, è energia, è conoscenza che non sappiamo utilizzare. E' risorsa che ci appare sprecata perché non disponiamo di strumenti che ci permettano di utilizzarla.
Ogni riflessione sulle organizzazioni, così come ogni ragionamento relativo ai sistemi informativi si preoccupa infatti innanzitutto di separare i dati 'buoni' da quelli 'cattivi'. Separare così i dati accettati come informazione, utile fonte di conoscenza, dai dati scartati come inutile, parassitaria occupazione di memoria.
Ma in base a quale criterio si distingue il dato buono da quello cattivo, l'informazione dal rumore? A ben guardare, la distinzione si fonda su un unico, criticabile criterio: la nostra conoscenza del codice.
Secondo la legge nota come "effetto Tomatis" riusciamo ad ascoltare solo i suoni che siamo in grado di pronunciare. I restanti suoni sono per noi -appunto- nient'altro che rumore.
Allo stesso modo di come consideriamo immondizia i materiali dei quali non sappiamo sfruttare la (residua, ma sempre presente) ricchezza, scartiamo come rumore l'informazione che non sappiamo, o vogliamo leggere.
Così ci abituiamo al rumore di fondo del televisore acceso; e percepiamo come rumore la voce di chi non vogliamo ascoltare. Così l'inquinamento cresce perché non siamo in grado di produrre beni utili senza produrre materiali di scarto.
E così, implementano di sistemi informativi aziendali, non siamo in grado di produrre informazioni 'pulite' senza produrre rumore: ad ogni dato allocato sull'host o sul server corrisponde una proliferazione di copie minimamente variate conservate dagli utenti sui propri personal computer; ad ogni tabella che incrocia i dati in un modo, si accompagnano enne altre tabelle che incrociano i dati in un diverso modo. Più il modello dei dati è rigido, tendente ad escludere dati 'spurii', più i dati spurii si accumulano lì dove si trova uno spazio che può essere occupato; lì dove il controllo è più basso. Così -caso esemplare- se nel modello dei dati di un Data Base lì si accumuleranno materiali eterocliti, imprecisi, sporchi – ma forse per questo, diciamolo, ricchissimi.
Non a caso spurio, parola etrusca, sta per 'barbaro'. Il barbaro è visto come tale da chi non sa leggere il presente che come prosecuzione del passato.
A ben guardare la distinzione tra dato 'buono' e rumore, infatti, rimanda a una immagine semplificata e difensiva, dove la realtà è letta attraverso le procedure, e gli indicatori degli andamenti appaiono come auto-conferme di rassicuranti interpretazioni già date.
Imparare a cogliere conoscenza lì dove oggi riusciamo a percepire solo rumore appare così la via per conoscere veramente le organizzazioni.
All'interno di ogni organizzazione possiamo osservare comportamenti 'sotterranei' che non conosciamo - azioni 'spontanee' di fornitori e clienti, tecnici impiegati e operai che è facile considerare inesistenti solo perché si allontanano dalle procedure - ma che invece esistono, e contribuiscono all'equilibrio generale del sistema. Leggere il rumore significa lavorare per comprendere in cosa consista questo contributo. Significa cavalcare le dinamiche del sistema anziché tentare di controllarlo con regole e principi.
Significa accettare come fonte ogni porzione di codice. Significa accettare che in linea di principio il rumore non esiste e che la conoscenza è di fatto costituita dalla sovrapposizione di codici, frammenti e spezzoni di linguaggio non correlati tra loro. Significa lasciare che codici, frammenti e spezzoni di linguaggio cozzino l'uno contro l'altro. Significa saper vedere i significati e le risonanze prodotti da questo caos.
Perché si sa che nel caos si nasconde un ordine - ma un ordine che risponde a leggi proprie, un ordine che potremmo conoscere, e che però che tendiamo a rifiutare, perché è a propri sconosciuto e soggettivamente incontrollabile.

lunedì 22 giugno 2009

Tecniche di scrittura. Ovvero come sto scrivendo in questo momento

Breve viaggio nella storia
In un museo, accanto all'opera esposta, sulla targhetta che esplicita autore, titolo e data, leggo anche la descrizione della tecnica usata. E' considerato utile, forse indispensabile esplicitare se si tratta di un olio su tela, o su tavola, o di una tempera. Non altrettanto per quanto riguarda le opere realizzate tramite scrittura.
Eppure, così come esistono diversissime tecniche per dipingere e per scolpire, esistono tecniche di scrittura, diversissime tra di loro.
Nell'area mesopotamica per contare -e raccontare- si usavano gettoni d'argilla di forma diversa. Dopo migliaia di anni gli amministratori dei magazzini sumeri, per non disperdere i gettoni cominciarono ad inserirli in una palla cava di argilla (bulla), sulla quale in seguito si cominciò a disegnare i gettoni che conteneva. Poi i gettoni vennero soppressi e le palle cave vennero sostituite da una tavoletta piana d'argilla sulla quale venivano incise le forme dei gettoni. Eccoci così all'idea –incidere, graffiare un supporto- alla quale rimanda l'etimo delle parole che oggi usiamo per esprimere il concetto di scrittura.
Intorno al tremila avanti Cristo vengono introdotti segni usati non più per rappresentare l'oggetto, ma piuttosto il suono nome.
Incidere l'argilla con una punta provocava slabbramenti e distacco di frammenti d'argilla. Questo rendeva necessarie continue operazioni di ripulitura dei segni mentre venivano incisi sulle tavolette. Per evitare questo inconveniente, si passò ad imprimere dei tratti rettilinei. Lo strumento per scrive non è più un generico oggetto appuntito: è uno strumento specializzato, uno stilo. E nasce così la scrittura cuineiforme.
L'origine della scrittura geroglifica è probabilmente contemporanea a quella cuneiforme. Mantiene però una rappresentazione pittorica dei simboli, perché gli egizi non usavano argilla come supporto, ma papiro, legno e pareti di roccia levigata. A differenza della scrittura sumerica, per lungo tempo impiegata soltanto per rendere conto di calcoli, quella egizia venne usata molto presto per raccontare storie.
La conoscenza è sempre anche narrativa. La narrazione è conservata nella memoria fisica dell'uomo, fin quando la tecnologia non offre strumenti per 'scrivere storie'. Ma le tecnologie di scrittura restano diversissime tra di loro. La tecnologia di scrittura condiziona la narrazione.
Conta il diverso alfabeto, conta se è scrittura geroglifica o ideografica. E' diverso se scrivo su papiro, su pergamena. su carta.
Si può illustrare la storia che si ha in mente con immagini e con parole, come sulla la pagina di un codice miniato. Si può scrivere in corsivo, con tratteggiamento celere, unendo e inclinando le aste.
E' diverso se scrivo cono stilo, con un penna dotata di pennino, intingendo quando serve nel calamaio dell'inchiostro. Oppure se scrivo con una penna stilografica, con una biro, con una matita.
Diverse le possibilità di fare correzioni. Con la scrittura sequenziale su carta, o su simile supporto, le possibilità di tornare sul già scritto sono limitate: scarso è lo spazio fisico per introdurre su margini e tra le righe correzioni - ricordiamo Proust e le sue paperolles, strisce di carta incollate al bordo della pagina, lunghe anche due metri, poi ripiegate a soffietto.
Diverse e limitate anche le possibilità di cancellare: cancellare con una gomma lo scritto a matita, cancellare con un raschietto o con una gomma abrasiva lo scritto a penna, sciogliere con un solvente l'inchiostro sulla pagina.
Il testo nasce da un confronto con i limiti dettati dal supporto -la nostra stessa memoria nella 'scrittura orale', il supporto fisico sul quale tracciamo segni.
Come Proust si può scrivere su carta, prendendo appunti su quaderni, e poi copiando su serie di quaderni che accolgono stesure successive, via via più vicine ai quaderni che costituiscono in 'manoscritto' finale, destinato ad essere copiato dal linotipista.
Si può scrivere a mano e poi copiare con la macchina per scrivere. Oppure scrivere direttamente con una macchina per scrivere – e allora siamo portati forse ad una scrittura più veloce, tesa a produrre immediatamente una versione finale – e forse, liberati almeno in parte dal condizionamento della lenta scrittura con pennino o penna, ci si riavvicina al flusso orale che sgorga dalla mente.
Infine, nell'epoca in cui scrivo, il computer. Scrivo utilizzando un programma che mi fornisce gli strumenti per scrivere. Materialmente, scrivo schiacciando con i polpastrelli i tasti di una tavola che contiene tutti i segni alfabetici, la chiamiamo tastiera. Mi muovo dentro il testo con uno strumento che mi permette di puntare un luogo qualsiasi del testo, il mouse. Sullo schermo che ho di fronte agli occhi si presenta una immagine labile e cangiante del testo, una immagine priva di ancoraggio, compresa dentro una finestra sul cui bordo, di solito in altro sono descritti gli strumenti: per scegliere lo stile grafico, per cancellare, per spostare, per incollare blocchi di testo, per cercare all'interno del testo, per impaginare.
Posso usare il computer come macchina per scrivere, copiano ciò che avevo scritto a penna su un supporto cartaceo. Posso usare il computer, e il suo programma di scrittura, per liberarmi dai vincoli con cui combatteva Proust: ho di fronte, dominabile e aperto, l'intero tessuto del mio testo. Il confine tra il 'giù scritto' e 'quello che sto scrivendo ora' è scomparso.
Posso scrivere copiando, e inserendo nel mio testo, testi altrui già digitalizzati, testi già presenti sul mio computer o accessibili via Rete.
Posso scrivere copiando, e inserendo nel mio testo, testi altrui stampati su carta: senza 'ri-copiare', posso leggerli con uno scanner, e disporrò così di quel testo in versione digitale.
Posso dettare la mia voce a un registratore digitale e delegare ad un software la digitalizzazione di quel testo.
Insomma, si può scrivere in modi diversissimi. Esistono tecniche di scrittura diversissime. Il testo non può non essere condizionato dalla tecnica usata.

Analogia: pittura e scultura
Riprendo l'analogia con la pittura. Poiché la tecnica influisce, il critico d'arte ne tiene conto. Ed è invitato a tenerne conto il visitatore di un museo. Diversa la tecnica dell'encausto dalla tecnica dell'affresco. Diversa la pittura ad olio, diverso l'acquerello. Affresco: gli schizzi preparatori su carta, la preparazione del muro, il disegno la sinopia, il rapido lavoro di pittura.
Diversi gli strumenti: colori, pennelli, spatole, tavolozze.
Ugualmente importanti, nella loro diversità, le tecniche nelle arti plastiche. Diversa la scultura del legno, del marmo, la creazione di sculture di bronzo.
Per scolpire il legno si usano trapani, scalpelli, lesine, asce, seghe, scuri. Diversi gli arnesi per scolpire il marmo: scalpelli, mazze e mazzuoli, trapani, lime, pomice, smeriglio.
Le crete, invece, si modellano direttamente con le dita, oppure con spatole di legno e metallo, con stecche o con scalpelli.
Diversa, si sa, la tecnica per scolpire il bronzo: cera lavorata a mano, cera persa, fusione.
Scalpelli e pennelli e penne hanno una stretta parentela. Utensili per incidere un supporto, per coprirlo di segni.
E' diverso fare un affresco dal dipingere ad olio, è diverso scolpire legno, o creta, o marmo, o bronzo. C'è un rapporto tra il soggetto rappresentato dall'artista e la tecnica adottata. La tecnica influenza il risultato. A seconda di ciò che voglio dire, scelgo la tecnica.

Esplicazione: come sto scrivendo in questo momento
A partire dall'invenzione della stampa, l'unicità della tecnologia ha giustificato l'assenza di esplicitazione del processo di scrittura: il testo è considerato maturo, è considerato esistente, solo se stampato. Come se il testo fosse il libro e il libro nascesse per magia, dal nulla.
Del lavoro che c'è dietro, nulla l'autore dice. Si dà per scontato che egli usi gli strumenti tecnologici che l'epoca gli mette a disposizione. L'autore scrive e -nei tempi precedenti alla stampa- passa il testo allo scriba, all'amanuense. Poi l'autore scrive e passa il testo allo stampatore.
Eppure esistono differenze enormi, sottaciute. Non sempre, in tutte le epoche, l'autore scrive in prima persona, accade che detti il testo. E il dettare è ben diverso dallo scrivere – dove la mente non è libera di viaggiare, e l'emergere del testo è condizionato dal rapporto personale, manuale, fisico con il supporto.
Si lascia al lavoro del filologo l'andare semmai a 'guardare dietro'. Ma nessun libro porta indicazione di quella che è la tecnica di scrittura. Questo accade, appunto, perché la stampa rende i libri tutti uguali, e questa 'uniformità' viene arbitrariamente attribuita a ritroso anche al processo di creazione del testo.
L'editore, mediatore necessario, esplicita dove e quando e come ha stampato. Ma il come, il dove e il quando l'autore ha scritto resta occulto. Dire 'libro stampato' è come dire 'scultura in bronzo'.
Ma dietro la stampa, a monte della stampa, se si guarda alla scrittura, è sempre stato il processo importante: come dal pensiero si è passati alla codifica in segni, come dalla mente è emersa la narrazione.
Si è insomma confusa la produzione del testo con la stampa. La produzione del testo è rimasta nascosta dietro la stampa.
Ora, di fronte alle tecnologie di cui si dispone nel momento in cui sto scrivendo, la stampa perde valore simbolico e pratico. Chiunque può stampare. Nessun passaggio significativo nella natura del testo è legato alla stampa: il testo sullo schermo e il testo stampato tramite una stampante e il testo stampato da uno stampatore resta quello che è.
E' a questo punto che appare opportuno andare a guardare dietro: come il testo è stato creato.
Perché le modalità di creazione del testo ci appaiono, finalmente, nella loro enorme diversità. Testo scritto a mano; testo scritto di getto senza consultare fonti; testo scritto in biblioteca, compulsando fonti e dizionari ed enciclopedie; testo scritto con la macchina da scrivere; testo scritto utilizzando computer e programma di scrittura; testo scritto dettando a una persona; testo scritto dettando ad un registratore digitale. Sono possibilità diversissime in mano a chi scrive.
Perciò ritengo utile, forse necessario, per permettere a chi legge di cogliere il senso di quello ceh vado scrivendo, esplicitare la tecnica usata. Lo ritengo utile in generale. Lo ritengo utile in maniera speciale in questi testi – che parlano appunto di come si scrive.
Perciò in questo mio lavoro penso di aggiungere in nota, a corredo di ogni testo, l'esplicitazione della tecnica. Perciò in questo mio lavoro penso di aggiungere in nota, a corredo di ogni testo, una notizia relativa alla tecnica usata.
Il testo che sto scrivendo in questo istante, per esempio, è scritto su un iMac, processore 2.66 Ghz Intel Core 2 Duo; sistema operativo, OS X 10.5.7, 278,8 GB, di cui 256,6 liberi; tastiera e mouse Apple Wireless; programma di scrittura NeoOffice 2.2.5 patch 11.
Nel tempo, in oltre venticinque anni, ho scritto tramite hardware e software diversi: le differenze si riflettevano sulla scrittura. E prima, e sempre più raramente ora, scrivevo a penna, scrivevo con la macchina da scrivere: anche qui differenze. Non c'è un meglio e un peggio. Ma le differenze non sono trascurabili.
Ho scritto questo testo con macchina connessa ad Internet, ma seguendo un pensiero che ho in mente. Ho consultato fonti Web solo episodicamente per conferme puntuali, per esempio: quali gli strumenti per scolpire il legno oltre allo scalpello?

lunedì 8 giugno 2009

Romanzo come base dati destrutturata, o baule. Dick, Nabokov, Córtazar

Questo testo è apparso, in diverse varianti in blog, su Bloom! , sulla rivista Persone & Conoscenze. Su Bloom! trovate note che qui ometto.

I romanzi sono piacevoli avvicinamenti alla conoscenza. Ma sono interessanti per noi anche in quanto sistemi che connettono, reti. Ragionando attorno ai romanzi, per esempio, costruiamo esperienza utile per implementare, in azienda, sistemi di Knowledge Management.
Non riflettiamo abbastanza, forse, su come siamo condizionati, nei nostri processi di organizzazione della conoscenza, dalla forma-libro: una organizzazione sequenziale, un sistema chiuso.
Il bello è che la stessa letteratura che giunge a noi chiusa nella forma-libro, ci mostra un altro mondo, un'altra possibilità.

Alti castelli e fuochi pallidi
Ci sono romanzi che si offrono a noi come cucina aperta, stanza dei giochi, scatola di montaggio. Questi romanzi sono venuti a noi nella forma tradizionale: il libro, un insieme di pagine rilegate in una sequenza univoca. Ma traggono vantaggio dall’essere letti, o ri–letti, attraverso una ‘macchina per leggere’, un computer. E possiamo anche pensare che se l’autore, nello scrivere avesse avuto a disposizione una ‘macchina per scrivere’ meno banale della tradizionale macchina per scrivere, e cioè avesse avuto a disposizione un computer, avrebbe sviluppato in modo più ricco ed articolato la forma di ‘testo aperto’ – forma che è comunque potentemente presente.
Come lavora l’autore scrivendo la sua opera, se coglie l’essenza di questo momento? Il romanzo è una rappresentazione del mondo. Ma non di un mondo inteso come sistema totalitario, incombente. E’ un coacervo di difficoltà e di contraddizioni, ma non è un incubo che sovrasta il soggetto. Il soggetto, in quanto autore e in quanto protagonista dell’opera può, sia pure a prezzo di sforzi e rischi, determinare il corso degli eventi. Può, infine, giocare con i mondi, intendendoli come mondi possibili. Mondi consapevolmente costruiti, decostruiti e ricostruiti dall’autore, mondi dominati da un personaggio-uomo capace di dominare la scena.
Ma qualche autore va oltre. Mette in mostra, dentro il romanzo stesso, la macchina per costruire mondi. E coinvolge nel gioco il lettore. E’ un gioco, appunto, ma un gioco che non vuole nascondere né sminuire la propria portata etica e politica. I mondi, viene detto possono essere creati, in virtù di scelte e di progetti e di un acconcio uso della tecnologia. Spostando lievemente l’ottica, potremmo anche dire: i mondi sono osservati nel momento del loro farsi, nella loro genesi. Uscita dalla crisi; caos primigenio.
Pensiamo a Philip Dick, che mentre scrive The Man in the High Castle non sa nulla del libro che sta scrivendo, non vuole saperlo, e si lascia guidare, in totale abbandono, manipolando quarantanove steli di millefoglie, o lanciano tre monete. L’I Ching, se può dare senso al mondo, a maggior motivo potrà dare senso a un romanzo. L’oracolo si appropria della mente dell’autore, il senso dell’opera emerge durante il suo farsi, meravigliando lo stesso autore e restando a lui in larga misura oscura, bisognosa di esegesi. (Dick passerà anni a scrivere commenti delle opere che aveva scritto come in transe, come vittima di una possessione).
Pensiamo a Nabokov, quando scrive Pale Fire. Due testi che si sostengono e si rimandano l’un l’altro: una ermetica opera poetica, in apparenza insensata, una opera che possiamo immaginare chiusa al suo stesso autore; e uno sterminato e divagante commento. E l’opera cresce nel rimbalzo tra questi due testi, la chiusura della lirica spinge all’interpretazione, e allo stesso tempo giustifica qualsiasi interpretazione
Pensiamo a Pérec, che nella Vie, mode d’emploi, monta (o lascia crescere) il romanzo attorno a due metafore. La casa, un condominio esplicitato in ogni dettaglio architettonico, il luogo narrativo che stimola a pensare personaggi - gli abitatori di queste stanze. E il puzzle, il quadro narrativo che può essere immaginato come totalità, e poi costruito via via a partire da frammenti. E il romanzo si fa lentamente, nel corso degli anni, in virtù di un lavoro minuzioso di visitazione di ogni stanza del condominio, ma avrebbe anche potuto restare senza perdite incompleto: il suo valore sta nel progetto, nel modello costruttivo. Il puzzle, scoperto, intravisto il disegno sotteso, può essere lasciato a metà, o consapevolmente distrutto (come accade nel romanzo).
The Man in the High Castle, Pale Fire, Vie, mode d’emploi: possiamo dunque fissare qualche punto fermo.
L’autore mette in scena la cucina, o meglio la stanza dei giochi. La strategia che presiede alla costruzione dell’opera è esplicitata. I personaggi, gli snodi narrativi, gli sfondi, insomma la scatola degli attrezzi usata per costruire il romanzo è resa disponibile al lettore.
L’autore mostra come si svolge il suo lavoro (si mostra a noi in azione). Infatti, in ognuno dei romanzi vediamo in azione, tra i personaggi, uno o più scrittori. Il costruttore delle storie è interno al testo, è uno dei ruoli messi in scena. Ci viene mostrato l’autore al lavoro. Abbiamo in mano un romanzo, ma anche, se vogliamo, un manuale, non a caso ‘istruzioni per l’uso’: come usare gli attrezzi della scatola, come costruire storie.
L’autore ci stimola a tentare il suo stesso gioco. Il romanzo gira su se stesso, non ha un inizio e una fine. Il romanzo, per esistere, richiede il nostro contributo. Il romanzo non è dato. E’ solo prospettato. E’ una rete di possibili, infiniti percorsi. Sarà, per ogni lettore ed in ogni diversa occasione, solo uno degli enne romanzi possibili.
Non sembri peregrino un parallelo: questi romanzi sono ‘ipertesti’, e prefigurano e preparano l’avvento del computer game. Leggendo The Man in the High Castle, Pale Fire, Vie, mode d’emploi, come interagendo con un computer game, contribuiamo a definire il contesto, a forgiare il carattere dei personaggi. E poi muoviamo i personaggi. Concatenando gli eventi. Costruendo percorsi. Misurandoci con livelli diversi, sempre più alti di difficoltà.
Ora, seguiamo un passo più in là la metafora del computer game. I migliori computer game sono ‘sistemi esperti’, scatole che se adeguatamene usate generano nuovi attrezzi, portando la costruzione del mondo ben oltre quel mondo che l’autore aveva saputo o voluto immaginare.
Il computer game è veramente buono se permette di costruire mondi che sfuggono totalmente al controllo del progettista.

E finalmente Cortázar e la sua Rayeula
Possiamo dunque immaginare come viene a noi Rayuela, il romanzo dello scrittore argentino Julio Cortázar. Il romanzo che, meglio di ogni altro, mi sembra rispondere al modello emergente di romanzo–ipertesto, iper-romanzo: il romanzo che guadagna ad essere scritto (o riscritto) con un computer, il romanzo che guadagna ad essere letto (o riletto) con un computer.
Cortázar, definita una prima traccia di personaggi (Oliveira, Traveler, la Maga, Talita, i membri del Club de la Serpiente) e di trama (il lado de acá, il lado de allá, l'otro lado), scrive liberamente senza costrizioni sequenziali. Procedendo per associazioni libere, ‘per accumulazione’, per appunti sparsi. Con la consapevolezza che per vie più o meno evidenti il frutto della scrittura ha un senso nella costruzione del romanzo.

Cortázar si trova di fronte, in ordine causale, ciò che è potenzialmente, ciò che sarà Rayuela. A partire da questo materiale sin armar deve dare forma al romanzo. Ora l’autore ha a disposizione, immaginiamo, una massa di appunti. L’ordine apparente, il fatto che gli appunti siano scritti in sequenza in un quaderno, un brogliaccio, deve essere vissuto come insignificante, o anzi fuorviante. Il contenuto c’è, ma è una galassia senza forma, senza confini, senza inizio e senza fine. Ora, in qualche modo, deve essere distribuito, organizzato, strutturato.

Cortázar copia a macchina gli appunti. Il testo,a questo punto, si manifesta come un insieme di ‘capitoli’ -storie, scene o riflessioni- dotati di una loro coerenza interna, ognuno occupante un certo numero di pagine.

Cortázar sa che la disposizione degli elementi è relativa, opinabile, non necessaria. Ma sta scrivendo un libro, e cioè lavorando alla produzione di un oggetto costituito da pagine disposte in sequenza. Si pone allora il problema di accorpare i capitoli in nuclei omogenei.

Cortázar, avendo di fronte, e in mente, queste piccole pile di fogli che sono la manifestazione fisica dei ‘capitoli’, procede per tentativi, per prove, guidato dal caso e dall’intuito e dai pensieri del momento. Come mescolando e rimescolando un mazzo di carte. Senza trovare una soluzione soddisfacente, perché i criteri attorno ai quali organizzare l’ordinamento sono molti, contradditori tra di loro, e nessuno è risolutivo. In ogni caso, la forma, la sequenza di pagine rilegate, che avrà il libro al termine del suo ciclo di produzione è solo una delle enne possibili. (Ci ricorda Ortega: “Ogni inizio di capitolo è pieno di numeri, cancellature, note”).

Cortázar, allora, elimina il vincolo. Smette di pensare alla forma libro. Perciò ora, avendo di fronte le pile sparse di fogli che sono i capitoli, può ordinarli lasciandosi più liberamente guidare dal caso, e dall’intuito e dai pensieri del momento.

Il migliore degli autori possibili, in questa accezione, è l’autore che rinuncia ad essere tale. Che non si preoccupa di prefigurare e di chiudere, di vincolare a percorsi di lettura. E se la gioca invece nell’aprire piste, nel creare possibilità, nell’accettare che nessun testo potrà mai essere concluso.
La stanza dei giochi sarà veramente attraente se vi si potranno giocare giochi che il genitore considera indebiti o pericolosi.
Diciamo dunque grazie a Cortázar per aver lasciato aperta, consapevolmente o no non importa, anche questa pista di lettura.

Il nuovo romanzo: costruito come una base dati destrutturata, o più modestamente un baule, contenente materiali giudicati dall'autore omogenei, tutti funzionali a produrre un ‘effetto estetico’, un fascio di emozioni. Il romanzo come galassia senza forma.

martedì 2 giugno 2009

Il SAP, o il software come filosofia

Qualche anno all'Avana, per strane vicende, mi trovai a tenere una lezione alla facoltà di Economia. Credevo di dovermi recare nella vecchia austera sede dell'Università. Scoprii con sorpresa che invece le aule erano ubicate in un luogo di traffici e di passeggio, dietro l'angolo della Rampa, a due passi dall'Hotel Habana Libre, proprio di fronte alla Heladería Coppelia. Un luogo mitico per chi come me ha conosciuto l'Avana attraverso le pagine delle Tre tristi tigri di Cabrera Infante.
Un vecchio edificio dai muri scrostati. Si entra nell'atrio anonimo e angusto. Sulle pareti, mi pare di ricordare, murales un po' stinti, segnati dal tempo. Le aule sono al quinto o al sesto piano. Mi aspettano cinquanta o sessanta persone, conosco solo qualche professore.
Dovrei parlare di e-Business, ma il discorso, sull'onda di domande, si allarga all'informatica. Con fatica cerco di indirizzare il discorso verso contenuti che mi sembrano adeguati: Linux, open source, wiki. Ma non c'è verso. Non interessa l'informatica come potrebbe essere, interessa ciò che non si può avere, ciò di cui è vietato sapere - e che appare quindi come invidiatissimo segno di modernità occidentale. Interessa sapere tutto, tutto quello che sono in grado di raccontare, di Sap. Non riscuote nessuna attenzione nemmeno il mio tentativo di inquadrare Sap come prodotto leader di una classe, i software ERP.
Interessa Sap come simbolo, feticcio, ma anche come idea di software perfetto, onnisciente, in grado di gestire ogni aspetto dell'impresa.
L'immagine che colgo dietro alle domade dei miei amici cubani è esagerata dalla distanza e dalla carenza, ma è del tutto condivisibile. Del resto altrove avevo già scritto che Sap -e come Sap, nelle intenzioni, ogni ERP- è un software hegeliano. E' dato un modello di organizzazione perfetta, si tratta di adattare la prassi meschina dell'uomo alla perfezione dell'Idea. Non a caso Sap è il frutto del pensiero di cinque tecnici dell'IBM, ma tedeschi. Non a caso l'IBM non seppe comprendere il pensiero dei cinque tecnici, che furono costretti a mettersi in proprio.
Il vero senso dell'ERP non si spiega con le reingegnerizzazioni degli anni novanta. Si spiega, prima, con la crisi della totalità, con la consapevolezza che i Grandi Sistemi Ottimizzati non reggevano alla spinta della disgregazione, del meticciamento. Mentre crollava il dominio del pensiero unico IBM, e si affermavano modelli fondati sull'accettazione della complessità, della ridondanza e del caos -dalle reti client server a Internet- Sap, e in genere l'ERP rappresentano l'ultima frontiera di chi crede nel controllo, nell'ordine, nell'ottimizzazione.
Dunque, più che un nuovo modello organizzativo 'emergente', un vecchio modello duro a morire. Un modello nostalgico.
E' vero che se se migliaia di aziende straniere e un quarto di quelle italiane hanno adottato un sistema gestionale ERP, un buon motivo ci dovrà pur essere. Ma tenderei a cercare questo motivo guardando i dati statistici con attenzione: gli ERP per loro natura appaiono coerenti alla grande impresa, alla necessità di 'tenere insieme' i pezzi di un'azienda sparsa in countries diverse e lacerata dalle aspettative di autonomia delle Unità di Business. Guardando oggi alla storia, col senno di poi, e riferendoci in particolare al nostro paese, dovremmo chiederci quante delle imprese che avrebbero tratto giovamento da un ERP l'hanno adottato. E quante invece, subendo una astratta Ragione, ma senza una concreta ragione legata al reale business e al visibile mercato, hanno adotttato un ERP per pura e deleteria spinta imitativa.
Perciò mi appare arduo sostenere, in senso generale, che l’ERP mantiene le promesse e le aziende migliorano la produttività, risparmiano, e sono al passo con i concorrenti. E, ancora, mi appare fallace affermare che si possa adottare un ERP senza dover troppo cambiare le strategie deliberate. Perché se è vero che l'ERP è efficace nella misura in cui impone vincoli, mi pare evidente che i vincoli posti da un buon ERP sono, propriamente, vincoli strategici. L'ERP non a caso si è affermato pienamente negli anni novanta, quando le società di consulenza che prima vendevano modelli strategici si sono trovate con niente da dire, e hanno assunto come proprie le strategie implicite negli ERP. Un modello di impresa normalizzata, mediamente adeguata al mercato globale, ma depontenziata negli aspetti distintivi e nella flessibilità.
Ogni software, in fondo, è strategia codificata: pensiero pensato a priori, e proposto (anzi: imposto) agli utenti come routine ineludibile. Di questo principio generale l'ERP è il caso esemplare, l'esempio più evidente. Ogni ERP è figlio legittimo dell'idea dei cinque tecnici tedeschi che pensarono Sap: esiste nel cielo del management il modello perfetto, a noi non compete altro che inverarlo.
Mi risulta quindi difficile pensare all'ERP come strumento che libera la Direzione del Personale, da routine gestionali. Lungi dal liberare la Direzione del Personale, l'ERP -come ben sa chiunque abbia avuto a che fare con il modulo Risorse Umane di Sap- impone vincoli a chi si occupa di persone.
I vincoli possono essere virtuosi, certo. Ma lo sono come sostituto di una strategia. L'ERP è d'aiuto a chi non è in grado di inventare la propria strategia. E' indispensabile a chi non sa farne a meno.

En cierta manera... por lo tanto y parodojalmente, a lo mejor: Francisco Varela

Francisco Varela, in special modo nei sui ultimi anni di vita (muore a Parigi il 28 maggio 2001), ragiona attorno al manifestarsi della conoscenza. Come scienziato, ma innanzitutto come uomo, pone al centro l'esperienza.
Dice: poniamoci in una situazione di laboratorio. L'esperimento coinvolge una persona: gli si mostra l'immagine di un volto. Gli si dice che gli verranno mostrate immagini. Gli si dice che se riconosce in una immagine il volto dovrà schiacciare un bottone, se non la riconosce dovrà schiacciare un altro bottone. L'esperimento inizia, la persona schiaccia bottoni.
Si è fatto un gran lavoro per capire cosa accade alla persona in quegli istanti. Per capire come si formano le immagini cerebrali, per capire cosa accade nella rete neurale. Tutto questo va benissimo, è un lavoro 'scientifico' - utile e importante. Ma tutto questo - ciò che riesce a comprendere lo scienziato cognitivo, con il suo metodo e i suoi protocolli, ci ricorda Varela, non è che una parte del fenomeno.
Questo agire scientifico -lo stesso agire del professionista dell'informatica che lavora sui dati puri, granulari, privi di ridondanza-, questo agire scientifico elude la domanda: 'quale è il fenomeno?', 'quale è tutto il fenomeno?'. Parte del fenomeno, infatti, sta nell'esperienza vissuta dalla persona che partecipa all'esperimento. La sua esperienza non sta solo nello schiacciare il bottone. Cosa succede alla persona, quale esperienza vive la persona nel momento in cui vede quel volto?
Per questo, ci ricorda Varela, è importante la lezione dalla fenomenologia. Ci pone sotto gli occhi quella parte del fenomeno -come sta sta vivendo la situazione quella persona, la sua esperienza-, quella parte che la scienza non è propensa a guardare.
La scienza oggi, è sfidata a tener conto anche dell'esperienza della persona. Varela ci parla dunque di una scienza disposta ad allargare il proprio sguardo, una scienza che mutando suoi radicati presupposti sappia tener conto, mostrando uguale rispetto, per le due fonti del fenomeno. Una fonte: la tradizionale maniera di guardare in terza persona, con lo sguardo 'neutro' dello scienziato legato alla griglia definita a priori, rispettoso del protocollo. L'altra fonte: la conoscenza alla quale solo io -e come me, ogni altra persona- ha accesso.
Così possiamo dire anche per l'informatica, oggi sfidata a tener conto non solo dei dati strutturati, rispondenti a un modello, e secondo il modello classificati, ma anche delle conoscenze non strutturate, non previamente imbrigliate in schemi, soggettive e ridondanti.
Ogni persona è meritevole che le venga data una chance: la possibilità di narrare della propria esperienza. Ma -aggiunge Varela- narrare la propria esperienza non è facile: non è certo una capacità che possiamo dare per scontata. Se vogliamo costruire una conoscenza non parziale, non potremo dunque limitarci a delegare agli esperti: scienziati e professori e professionisti dell'informatica. Dovremo, per quanto possibile, allenarci a narrare la nostra esperienza. E' questa, credo di poter dire, l''alfabetizzazione' che serve oggi. Nel parlare di questa literacy, nel descrivere questo “futuro culturale” Varela va oltre il riferimento, pure importante, alle competenze del poeta e del filosofo. Si avvicina con timore e cautela a dire quello che trova giusto e saggio dire.
Sto ascoltando la sua voce: in questo emergere del pensiero, pochi mesi prima della morte, il parlare, così diverso dallo scrivere, e il parlare in spagnolo, lingua natale, giocano un ruolo che non può essere trascurato. Si tratta di tornare, ci dice Varela, a comprendere le radici di quello che ognuno è come essere umano, si tratta di riscoprire il nostro modo di 'fare esperienza'. En cierta manera... por lo tanto y parodojalmente, a lo mejor -l'inciampo e la sospensione del discorrere, in questo punto, e la ricerca di eufemismi, trasmettono già di per sé il senso- il “futuro cultural”, continua Varela, passa per un reincantamiento, una coraggiosa accettazione della la vita spirituale. “La vida espiritual entendida como constante revalorización de lo que uno vive momento a momento, porque allí está la fuente de la vida”.
Ora, appropriandomi di tutti gli eufemismi di Varela potrei dire che forse, in fondo, in un certo qual modo, la macchina per pensare che ci accompagna quotidianamente è un veicolo per ritrovare l'incantamento, un utensile conviviale che ci permette di vivere intensamente l'esperienza, un attivatore della mente che ci permette di vivere come eccezionale, straordinario ogni istante che ci è dato da vivere.