martedì 14 dicembre 2010

Il diritto d'autore ed il diritto di copia

Mi ricapita sotto gli occhi per caso questo testo scritto nel 2007. Mi pare pertinente ai temi che tratto in questo blog.

Un equivoco inquina le riflessioni sulla proprietà intellettuale.
Chiamiamo 'diritto d'autore' la stratificazione di due diversi diritti: diritto d'autore in senso stretto e diritto di copia. (La dizione italiana sottolinea un aspetto, la dizione inglese –copyright- sottolinea l’altro, cosicché l’equivoco risulta ingigantito).
Il diritto d’autore è un diritto morale. La persona ha il diritto di fare, della propria opera, ciò che vuole. Può diffonderla gratuitamente, può venderla sul mercato. Ritengo questo diritto inalienabile. Ma per difenderlo, in fondo, non c'è bisogno né di norme, né di editori.
Cervantes, di fronte ad un autore che approfitta del successo del Don Quijote e ne pubblica una seconda parte, si rimbocca le maniche e scrive -all’inizio di malavoglia- la sua seconda parte. Dimostrando di essere più bravo difende al contempo la sua opera e la sua immagine.
Accanto a Cervantes, i Grateful Dead. Il gruppo rock californiano, già negli anni degli hippy, permetteva che durante i concerti venissero registrati bootleg. La circolazione di incisioni 'private' accresce la notorietà, e quindi la partecipazione ai concerti futuri. E forse non danneggia nemmeno la vendita dei dischi portati sul mercato dalla casa discografica (che comunque resta libera di proporre al gruppo il contratto che ritiene più equo).
Trovo affermato qui un principio: l'autore sa che la valorizzazione dell'opera non passa solo e necessariamente attraverso l'editore.
Il diritto di copia è tutt'altra cosa. L'editore, avendo sopportato i costi della riproduzione e della diffusione, chiede regole che garantiscano il ritorno dell’investimento. La protezione legale, dunque, riguarda la difesa del diritto di un editore -colui che ha sottoscritto un accordo con l'autore- rispetto ad altri editori. L'autore è innocente, e non c'entra per nulla.
Negli ultimi decenni, però, le cose sono cambiate radicalmente. Riprodurre non è più così costoso, la mediazione di tecnici specialisti non è più indispensabile, l'autore può raggiungere i lettori in molti modi diversi. Ma sopratutto, oggi l'editore non può garantire il controllo: non è in grado di impedire che vengano fatte fotocopie, o che il testo sia diffuso via Web.
In questo scenario, che vede l'autore disporre di un vasto ventaglio di possibilità, il futuro mi pare stia in un patto diverso. Non più cessione di diritti, ma partnership tra il creatore dell’opera e editore, dove l'autore mette in gioco l'opera e l'editore la conoscenza di un canale, di un mercato, e il suo marchio, che aggiunge valore.

Altre riflesssioni su questi temi, che mi vengono ora, in mente si trovano su Bloom, qui, qui e qui.

lunedì 1 novembre 2010

L’iPad e il nuovo modo di scrivere

Ho detto in due diversi post, qui e qui, di come l’iPad sia criticabile: perché riduce la novità del personal computer, depotenziandone e svalorizzandone caratteristiche chiave. L’iPad, così, offre il destro a restauratori e nostalgici del tempo perduto – il cui ruolo sociale tende a scomparire nel mondo svelato dal personal computer, e dalla Rete.
Detto questo, possiamo invece guardare ai meriti di questa macchinetta, e cioè agli aspetti per i quali l’iPad appare significativo passo avanti nella linea evolutiva alla quale il personal computer appartiene.
I meriti risiedono non tanto nel nuovo modo di leggere, la funzione sulla quale sembra fondarsi la fama dell’iPad. All’opposto, credo che i meriti si fondino su come l’iPad ci mostra, meglio di qualsiasi altro device, un nuovo modo di scrivere.
Lo scrivere è, in origine, un gesto violento. L’etimo sia di scrivere che di write rimanda in modo preciso ed inequivocabile al graffiare un supporto, all’incidere una superficie. Il supporto cambia nel tempo: pietra, pergamena, cera, carta. Con le lastre da stampa si torna addirittura indietro, alla pura incisione. Si evolvono gli utensili: una selce appuntita, un bastone di legno, uno scalpello, uno stilo, un pennino. Ma resta in tutti i casi il gesto violento.
E se nel tempo si aggiunge un senso a quello dell’incidere e del graffiare, si tratta di un gesto che implica ancora forza, violenza: il pressare, l’imprimere. Così in francese imprimer, presse. In spagnolo imprimir, prensa. In inglese print, press.
Possiamo leggere in questo modo di intendere la scrittura tradisce il timore dell’impermanenza, della vacuità. Il timore che non resti traccia. La ricerca dell’indelebilità. La lotta contro il tempo fondata su una forzatura, appunto, potrei dire, sul ferire il supporto.
Molti intellettuali ignoranti, od in malafede si chiedono: cosa ne sarà della parola scritta se affidata a supporti digitali? Qual’è la certezza che la parola digitalizzata permanga nel tempo?
Sono in malafede, attribuiscono ogni pericolo ed ogni limite alla tecnologia che non si sforzano di conoscere. Possiamo comprenderli solo ricordando che il loro atteggiamento è in origine, quale che sia la tecnologia, fondato sul timore di perdere la parola scritta. Sanno bene dei limiti della parola incisa sul supporto: i manoscritti ed i libri stampati si deteriorano con il passare degli anni e dei secoli; i manoscritti e i libri e le intere biblioteche possono andar persi e possono essere irrimediabilmente bruciati.
La scrittura come gesto violento è legata intrinsecamente al timore di perdere la parola scritta.
E infatti, altri intellettuali più intelligenti e acuti -ne cito due: George Steiner e Ivan Illich- parlano della paura di perdere il libro, del timore di un mondo senza libri scritti nel consueto modo. E Illich in particolare si sofferma sulla caratteristica che più ci pare necessaria e più ci rassicura: l’ancoraggio del testo alla pagina.
Come si può intendere un testo mobile e mutevole, in apparenza privo di luogo, un testo che compare e scompare su uno schermo. Come si può costruire con simili testi un sapere, una conoscenza dotata di sapore e di valore? Come emerge da questi testi in apparenza così labili una letteratura?
Non ho una risposta. Della letteratura avvenire possiamo vedere solo pochi indizi, pochi incerti passi. Ma posso vedere con chiarezza come il punto di partenza -il momento in cui si genera il testo: il gesto di chi scrive- presenta aspetti di novità. E posso notare come di questa novità l’iPad è testimone esemplare.
Ritorniamo alla violenza implicita nell’uso della penna e del foglio, violenza replicata in toto nella stampa. Ritorniamo al gesto violento rappresentato dal colpo inferto al foglio dal carattere della macchina da scrivere. Ritorniamo al gesto violento ancora implicito nel battere, nello schiacciare i tasti di una tastiera.
Ricordiamo ancora che una generazione di palmari, anche avendo a disposizione la funzione touch screen, presupponeva una simulazione del gesto della scrittura su carta: si usava uno stilo, esercitando con questo una adeguata pressione sullo schermo.
Un’altra famiglia di palmari tutt’ora in auge, caso esemplare il Blackberry, presuppone l’uso di una tastiera.
Poniamo attenzione alla fondamentale differenza.
Lontani dal paradigma che presuppone il graffiare, l’incidere, lo schiacciare, molti passi avanti nel nuovo terreno aperto dal mouse -che ci chiede gesti leggeri- con l’iPad, così come già con l’iPhone si scrive senza la mediazione di nessun utensile, con un gesto lontanissimo dal graffiare, dall’incidere, dal pressare, dallo schiacciare.
Si scrive con le mani, con le dita, con i polpastrelli. Si scrive sfiorando la superficie con un gesto lieve. Sfiorare: ‘toccare impercettibilmente la superficie’, cercando con essa un’intima sintonia. Così si interagisce con l’iPhone e con l’iPad.
Un gesto che ha intimamente a che fare con la sintonia, con il sentire. Interessante, per cogliere la differenza dalla tradizionale scrittura, il senso dell’inglese feel. La radice indoeuropea pol-/pal- sta per ‘toccare leggermente con la mano’, ‘accarezzare’. Di qui anche il greco psallein: ‘suonare l’arpa, toccandone lievemente le corde’. E nella nostra lingua, attraverso il latino, palpare e palpitare.
Le carezze, il tocco leggero delle dita sull’arpa, il palpitare del cuore. Se scrivere è, come è, esternalizzare la conoscenza che abbiamo in mente, darle forma, questa assenza di ogni forzatura, questa vicinanza tra mente e corpo e supporto, aprono un nuovo orizzonte.
Possiamo veramente pensare che una scrittura così priva di violenza, una scrittura che si manifesti con questa leggerezza, con questa ritmica misura, possa generare testi diversi.

Arbitrary Restriction of Goods Is the Future

Un amico mi dice che le apps per iPad hanno un loro senso. Le apps, applicazioni, programmi che girano solo su iPad si giustificano con la novità del device. L’iPad, utensile diverso da ogni altro, con una sua specifica proposta di interazione uomo-macchina, giustifica e anzi motiva programmi ad hoc. Altrimenti, si dice, non si sfrutterebbero le potenzialità della macchina. Insomma, come vuole la Apple, dovremmo plaudere a questo modo di combinare “the power of the Internet with the simplicity of Multi-Touch technology”.
E naturalmente, la strada aperta da Apple è subito seguita. Alle applicazioni create per iPod Touch, iPhone, iPad è subito percorsa da altri: si è lieti di far sapere che, pur ancora lontani dal numero di app reperibili presso Apple Store, esistono ormai oltre centomila applicazioni per Android, il sistema operativo per dispositivi mobili di Google.
Così, dietro l’ipocrita finzione di una semplificazione tesa a migliorare la vita all’utente, si nasconde il solito trucco: obbligare di nuovo a sottostare al comando di un intermediario che usa la tecnologia per limitare l’accesso alla conoscenza.
Sembreranno parole troppo grosse. Ma il punto è che non solo il fine, ma anche il percorso è sempre il solito: diseducare la persona tramite ogni forma di pubblicità, fare appello alla sua pigrizia e alle aspettative più superficiali, trattare ognuno da stupido rendendolo passivo consumatore.
E questo anche quando, tramite l’uso del personal computer, le persone hanno dato prove di non essere pigre, di saper scegliere da soli quello che gli serve. E quando tutti hanno provato come si vive meglio senza una pubblicità passivizzante e invasiva.
Un computer ha un costo sempre più basso. Nonostante le funeree previsioni di esperti che temevano troppo difficile l’uso, qualunque bambino, o qualunque persona non scolarizzata, chiunque impara da solo facilmente a interagire con la macchina e a fare ciò che gli pare e gli serve: giocare, scrivere, leggere.
I protocolli che presiedono al funzionamento di Internet e del World Wide Web sono trasparenti. Chiunque li può usare. Il Browser, sia Explorer di Microsoft o sia Firefox o sia Safari della Apple, rende accessibile la conoscenza ‘che c’è in Rete’ in modo trasparente, senza gerarchie e senza giudizi di valore e senza distinguere tra ciò che costa e ciò che è gratuito. Google, a fronte di una nostra domanda, mostra le fonti in una gerarchia che è conseguenza all’abilità di chi ha caricato le conoscenze, e al contempo è conseguenza della nostra capacità di cercare ciò che ci serve con acume e precisione.
Insomma, con i personal computer connessi in Rete il mondo è cambiato: produrre conoscenze, scambiarle, accedere a conoscenze non è mai stato così facile. Sempre più conoscenze sono prodotte senza l’intervento di professionisti della comunicazione: siamo tutti, sempre più, produttori e consumatori di conoscenze. Le conoscenze a tutti disponibili, senza intermediari, in gran misura gratuite, hanno cambiato il mondo. Così è smentita nei fatti l’ipocrita pretesa di chi vuole far credere che il costo sia una garanzia di qualità. Abbiamo sotto gli occhi la dimostrazione che il processo sociale di creazione di conoscenza funziona a prescindere da pubblicità, censure, controlli. In una parola, senza senza gatekeeper.
Così è smentita l’ipocrita pretesa di chi voleva far credere che troppe informazioni sono dannose, pericolose, ingestibili, fonte di paura. La situazione della persona che prima non aveva accesso a conoscenze, se non a fatica, se non pagando. Aveva a disposizione poco prima, ha molto adesso. Impara, senza paura, per tentativi ed errori a fruirne.
Gli unici che hanno paura, credo, sono i sacerdoti della mediazione. Loro, più di ogni altro, erano abituati a sistemi organizzati, gerarchici, stabili, controllati. La galassia informe e sconfinata capisco che possa sconcertarli.
Gravissimi problemi oggi per loro. Loro che hanno vissuto imponendo il loro ordine e il loro controllo, la loro mediazione. Loro che fondano il proprio ruolo sullo spiegare agli altri come accedere alla conoscenza. Loro che vivono traducendo per gli altri conoscenze appositamente espresse in modi incomprensibili ai più. Un gran mazzo di figure professionali è coinvolto in questo gioco, oggi sempre più difficile da giocare. Non me ne voglia nessuno se faccio qualche esempio: professori e giornalisti e editori e censori di professione. Dietro i professionisti, naturalmente, un’industria.
E’ l’industria che un tempo si chiamava dell’editoria e oggi qualcuno chiama, pensando di essere più moderno, del content. La parola è interessante, perché svela l’inganno: non interessa la produzione e la circolazione della conoscenza in sé. Si vuole che sia visibile ed accessibile solo la conoscenza ridotta a contenuto. La conoscenza chiusa in contenitori assoggettati al controllo dai mediatori.
Dunque: professionisti della comunicazione ed intellettuali di professione si sostengono nel resistere al cambiamento culturale che il personal computer, Internet ed il World Wide Web hanno reso possibile. Avrebbero potuto darsi da fare per ripensare il proprio ruolo alla luce del nuovo paradigma. Ma molto più facile appare loro tentare con ogni mezzo di ripristinare la situazione precedente.
Con una differenza non trascurabile. Il libro, il giornale, il Broadcasting radiofonico e televisivo: mezzi che si fondavano su una tecnologia che impediva di fare altrimenti. L’unico modo per diffondere conoscenza attraverso la stampa era passare attraverso un passaggio: la trasformazione del manoscritto in libro stampato. Operazione che poteva svolgersi solo tramite intermediari specializzati. E così anche la diffusione ‘via etere’. Mentre oggi ciascuno può editare. Ciascuno può ‘mettere in onda’. Come far ritornare il mondo indietro? Come tornare a quel tempo in cui -a tutto vantaggio dei mediatori di professione, e con loro, dei censori- la mediazione era tecnicamente necessaria?
Sembrava una guerra persa. Ma ecco dove vengono buone le app. La conoscenza accessibile via browser non è assoggettabile al controllo. Mentre invece è controllabile la conoscenza ridotta ad applicazione, o il cui accesso è subordinato all’uso di una specifica applicazione proprietaria. Ecco così che, dietro l’apparente facilitazione dell’accesso, si controlla l’accesso, fino a negarlo.
Ecco così che, persa la battaglia del personal computer, si lavora in ogni modo per non perdere la battaglia dei device più limitati e limitanti, più stupidi e instupidenti: i telefoni cellulari, i palmari, i lettori di eBook.
Di questa tendenza l’iPhone è il più glorioso esempio. E l’iPad è l’ultima incarnazione. Invece di proporre al mercato un personal computer più piccolo, dotato di tutti i vantaggi del personal computer, ecco un telefono cellulare più grosso, dotato di tutte le limitazioni del telefono cellulare.
Ai vantaggi sostanziali del personal computer, si contrappongono la facilità d’uso dell’iPad, il suo aspetto glamorous. I suoi limiti per quanto riguarda la produzione di conoscenza e l’accesso alla conoscenza sono nascosti dietro l’apparenza, dietro la “simplicity of Multi-Touch technology”.
Ho ridetto così, seguendo un percorso parallelo e convergente, quello che avevo detto in un precedente post: Steve Jobs è un Gattopardo, creando giocattoli per adulti come l’iPad lavora perché tutto cambi in apparenza, ma nulla nella sostanza. L’iPad è un inestimabile servizio offerto agli editori più retrogradi, agli intellettuali seduti sui loro vani allori.
A me piace dirla così. Altri, con buone ragioni, la dicono in in modo più brutale. Damiano Ceccarelli mi segnala un articolo apparso su Cracked.com. Con quel misto di satira e di estrema serietà che caratterizza il sito, si dice che “Arbitrary Restriction of Goods Is the Future”.
Arbitraria restrizione, sì: nel libro la restrizione -il passaggio attraverso i cancelli dell’editore- è legata all’impossibilità di fare altrimenti. Qui, dove esistono e sappiamo usare il personal computer, Internet ed il World Wide Web- la restrizione è più grave, perché puro arbitrio nascosto dietro pubblicità ingannevole.
Damiano Ceccarelli commenta, sintetizzando ulteriormente: con vari aggeggi e vari inghippi “è stato trovato il modo per rendere a pagamento quello che sul web è gratuito”.

lunedì 18 ottobre 2010

Knowledge Management 2010-2011

Questo è il corso che tengo nel primo semestre dell'anno accademico 2010-2011 all'Università di Pisa.
Se da un lato si può riflettere sugli aspetti 'filosofici' della conoscenza, e dei supporti informatici che oggi permettono di portarla alla luce e condividerla, non si può trascurare di guardare, dall'altro lato, ai concreti progetti attraverso i quali le imprese tentano faticosamente di far sì che le conoscenze siano realmente visibili e condivisibili.

Titolo: Knowledge Management
Corso di studi: Informatica Umanistica (laurea magistrale)
Docente: Francesco Varanini

Argomento:
Il corso propone un avvicinamento al tema a partire da due diversi punti di vista. Da un lato il 'management', inteso come 'scienza della direzione aziendale'. Dall'altro la 'conoscenza', intesa come 'asset intangibile', ricchezza individuale e sociale.
Il management, irrigidito in modelli stereotipati, appare lontano dall'utilizzare al meglio le conoscenze delle persone che lavorano in azienda, e le conoscenze che sono accessibili via Rete.
Eppure le imprese del Ventunesimo secolo, in particolare le imprese italiane, vedono il loro successo legato ad un efficace uso delle conoscenze.
L'immaterialità delle conoscenze rende fondamentale l'uso dell'informatica. Ma il trattamento delle conoscenze esige un uso degli strumenti che si discosta dall'uso adeguato al trattamento dei dati e delle informazioni.
Il corso si baserà sopratutto sull'esame di casi aziendali, legandosi così alla situazione reale delle imprese, in questi anni in gran misura impegnate, in modi diversi, in progetti di Knowledge Management.

Testi d'esame:
• Peter Drucker, Management Challenges for the 21st Century, Butterworth-Heinemann, 1999; trad. it. Le sfide del management del XXI secolo, Franco Angeli, 2009.
• Palvinderjit Kaur, Knowledge Management: A Framework for building Knowledge Sharing Culture, UCTI, April 2007. http://www.scribd.com/doc/22455726/Knowledge-Management
• Luciano Paccagnella, Open Access. Conoscenza aperta e società dell'informazione, Il Mulino, 2010.
• Enzo Rullani, Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, Carocci, 2004.
• Francesco Varanini, Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di una costruzione comune, Guerini e Associati, 2010.

Testi per approfondimento:
• Peter L. Berger and Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, New York: Anchor Books, 1966; trad. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1997.
• Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolution, Chicago, University of Chicago, 1962; tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969.
• Ikujiro Nonaka, Hirotaka Takeuchi, The Knowledge-Creating Company: How Japanese Companies Create the Dynamics of Innovation, Oxford: 1995; trad. it. The Knowledge-Creating Company. Creare le dinamiche dell’innovazione, Milano Guerini e Associati, 1997.

Indicazioni per non frequentanti:
Gli studenti possono rivolgersi al docente, durante l'orario di ricevimento o via mail (fvaranini@gmail.com), per avere suggerimenti in merito a come integrare la lettura dei testi d'esame, in particolare per quanto riguarda l'avvicinamento a concreti casi aziendali di Knowledge Management e alla scelta conseguente degli strumenti informatici più adeguati.

sabato 28 agosto 2010

Hjelmslev e il prendere forma della conoscenza

Il modello di Hjelmslev ha un suo segreto fascino. Per la sua pulizia formale, e naturalmente sopratutto per il suo aspetto enantiomorfo. (Enantiomorfismo: 'Rapporto di uguaglianza inversa tra due enti che pertanto risultano simmetrici rispetto a un piano, in modo che l’uno dei due enti possa considerarsi come l’immagine speculare dell’altro').
Anche oggi, completamente tramontata la moda dalla semiotica, mi sembra che il modello continui a parlarci.
E questo nonostante il modello si fondi sull'opposizione complementare 'espressione' vs. 'contenuto', un'opposizione che appare malposta. Contenuto, o content, mi appare concetto fuorviante: il contenuto presuppone l'esistenza di un contenitore. Ma la conoscenza esiste a prescindere da un contenitore. Propendo quindi per l'opposizione 'espressione' vs. 'conoscenza'.
Una brevissima presentazione dell'Hjelmslev's Sign Model, e una provvisoria, ma indicativa, riflessione sul tema -orientata a legare semiotica e Knowledge Management- sta in questo mio breve testo.

martedì 3 agosto 2010

Coartata scientia iucunda non est. Ovvero: Nulla è superfluo nel costruire conoscenza

Mi è tornata in mente la frase di Ugo da San Vittore, filosofo e teologo vissuto attorno al 1100, dal mio punto di vista soprattutto maestro di quella disciplina che oggi chiamiamo ‘Knowledge Management’.
Rivolgendosi ai suoi studenti, scriveva Ugo nel suo Didascalcon: "sed dicis: ‘multa invenio in historiis, quae nullius videntur esse utilitatis, quare in huiusmodi occupabor?’ bene dicis. multa siquidem sunt in scripturis, quae in se considerata nihil expetendum habere videntur, quae tamen si aliis quibus cohaerent comparaveris, et in toto suo trutinare coeperis, necessaria pariter et competentia esse videbis. alia propter se scienda sunt, alia autem, quamvis propter se non videantur nostro labore digna, quia tamen sine ipsis illa enucleate sciri non possunt, nullatenus debent negligenter praeteriri. omnia disce, videbis postea nihil esse superfluum. coartata scientia iucunda non est."
Spero che abbiate provato a capire, guidati magari dal ricordo di studi lontani, e comunque dalla curiosità e dal fiuto. È proprio quello che Ugo si aspetta da noi. Comunque ora vi propongo una traduzione: “Qualcuno potrebbe dire: ‘Trovo molte cose nella storia sacra che non sembrano essere di alcuna utilità; perché dovrei occuparmene?’. Rispondo dicendo che vi sono effettivamente nella Bibbia molte informazioni che considerate in se stesse non sembrano avere interesse particolare, eppure se le si mette in relazione con altre con le quali sono strettamente connesse e si prende attentamente in esame tutto il complesso, ci si accorge che anch’esse erano convenienti e necessarie. Alcune cose devono essere conosciute in se stesse, altre, sebbene non sembrino meritare le nostre fatiche, non devono affatto essere trascurate per negligenza, poiché senza di esse nemmeno le prime possono venire conosciute profondamente. Impara tutto, ti renderai conto dopo che nulla è superfluo. Una conoscenza limitata non dà piacere.”
Ciò che per Ugo riassumeva la historia, era la Bibbia, il libro dove tutto è scritto. Noi, allo stesso modo, ci affacciamo sul Word Wide Web, questa immensa galassia che tutto potenzialmente contiene. Molte informazioni ci appaiono prive di qualsiasi utilità. Eppure se le poniamo in relazione con altre, e prendiamo consapevolezza della rete che ne emerge, ci accorgiamo che è così che si costruisce conoscenza. La capacità sta nel dar valore ai segnali deboli, alle circostanze apparentemente casuali che ci spingono a tentare nuove connessioni. Del resto, è così che funziona la nostra mente.
Ugo ammoniva i suoi studenti, e anche noi: “Prendi in considerazione tutto, vedrai che poi nulla è superfluo”.

(Il Didascalicon lo trovate qui.
Devo il mio interesse per il Didascalicon a Ivan Illich (In the Vineyard of the Text. A Commentary to Hugh’s Didascalicon, Les Editions du Cerf, Paris, 1991; trad it. Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Milano, Raffaello Cortina Editore 1994).

lunedì 2 agosto 2010

L'iPad è un vecchio libro e Steve Jobs un Gattopardo

In questa stagione di crisi, non può essere negato il plauso a chi -quasi fosse dotato di una bacchetta magica- trova ancora una volta una killer application. E quindi muove le acque, apre spazi di mercato.
Dunque onore a Steve Jobs e all’iPad. Ma che tristezza vedere intelligenti e curiosi e creativi tecnici e imprenditori muoversi pedestremente nella scia di Steve. E che tristezza nel cogliere il sospiro di sollievo che aleggia nelle case editrici -in particolare le più retrograde, abbarbicate al tradizionale modo di fare libri e periodici.
Steve Jobs, con l’iPad, offre la comoda via d’uscita dall’impasse in cui colpevolmente le case editrici si sono impantanate. L’iPad sembra cancellare l’arretratezza. L’iPad permette di illudersi: permette di credersi adeguati ai tempi – pur non avendo fatto nulla per capire e per cambiare.
Non critico l’orientamento a trarre profitto dalla situazione. Critico l’incapacità di guardare oltre la punta del proprio naso. Critico la pigrizia – da cui possono nascere solo business di poco respiro. Palliativi. Brodini caldi per tirare avanti qualche anno.
Chi produce conoscenza organizzata in testi -romanzi, poesie, saggi, articoli- si è trovato nelle condizioni di definire il proprio ruolo, il proprio modo di agire. Dico ‘chi produce’ sapendo di mettere in un mazzo figure diverse: autori, editor e redattori, editori, interpreti di varia natura: recensori e professori e via dicendo.
Il testo che ha sotto gli occhi l’autore mentre lo produce sul proprio computer è ben lontano dal testo ‘manoscritto’, a penna o con una macchina per scrivere. E’ un testo disancorato dal supporto, plastico, mutevole, sempre in fieri. Il testo riacquista la sua natura di tessuto, rete.
Mi limito qui a questi accenni. Ma è chiaro che da questa diversa natura del testo emerge un cambiamento nel ruolo dell’autore, così come, di seguito, del ruolo di editor e redattori, editori, interpreti di varia natura.
Non voglio considerare semplice il passaggio. Cambiare paradigma non è facile. Ciò è tanto vero che per descrivere il testo così come ci è messo a disposizione dal computer si è stati costretti ad inventare un nuovo temine ipertesto. C’è dell’ironia in questo: la parola testo dice già tutto, ci parla di rete e di connessioni potenzialmente infinite. Ma per noi testo è sinonimo di libro. Non riuscendo a concepire un testo disancorato da un supporto -anche se così è, appunto, disancorato dal supporto, il testo che abbiamo sotto gli occhi- identifichiamo il testo con il libro.
Non a caso si parla di content, o contenuto. Il contenitore, il libro, prevale sul contenuto, il testo. Così si continua a ‘vedere’ il testo come inevitabilmente ingabbiato in una forma data a priori, il libro. Obbligati dalla incombente presenza della forma libro si continua a pensare il testo come se fosse sequenziale, con un inizio ed una fine predefiniti. Si continua a pensare il testo come oggetto chiuso, non guardando alla realtà che vede il testo come oggetto di interazione, di lavoro collaborativo, tra soggetti diversi. I ruoli dell’autore, dell’editor, dell’editore, dell’interprete non riguardano né la letteratura né il testo: discendono dal dominio della forma-libro.
La resistenza a cambiare, lo capisco, è grande. A ciò contribuisce l’ignoranza, la scarsa curiosità tecnologica, e direi sopratutto la speranza di tutti ‘gli operatori del settore’ di riuscire a difendere rendite di posizione che il vecchio contesto tecnologico garantiva.
Ed ecco che arriva Steve Jobs con il suo iPad. Rendiamo merito a chi sa fare la mossa efficace nel momento meno sbagliato. (Certo il momento in cui si è mosso Jobs è meno sbagliato del momento in cui si è mosso Jeff Bezos. Eppure trovo in Kindle più meriti che nell’iPad).
Ma in cosa sta il gioco di Jobs. L’avvento dell’iPad mette comodi tutti gli attori del processo - autori, editor, editori, interpreti. Tranquilli, tutto è come prima. Una sola banale, scontata, già da tempo annunciata differenza. Gli stabilimenti di stampa e confezione sono morti. Per il resto, tutto uguale. Il testo chiuso in redazione è pubblicato anziché su carta, secondo la tecnologia nota dai tempi di Gutenberg, tramite una nuova modalità. Resta però un codice chiuso. Che rende indispensabile la mediazione dell’editore. Che garantisce la permanenza come prima dei ruoli degli editor e degli interpreti. Che risolve il complesso tema del ‘diritto d’autore’ nel vecchio modo: attraverso la mediazione dell’editore.
Con l’iPad, si perpetua l’equivoco tra libro e testo. Il testo digitale, liberatorio frutto del computing, ci appariva nativamente disancorato dal supporto, plastico, mutevole, sempre in fieri, tessuto, rete. Eppure non viveva la vita che la sua natura gli permetteva, perché era poi stampato, chiuso nella forma libro.
Oggi, con l’iPad -strumento che appare come meraviglia tecnologica, manifestazione di quello stesso computing che aveva liberato il testo dalla forma-libro- tutto resta come prima, o finisce per essere peggio di prima: il testo è chiuso nella forma proposta all’universo mondo da Steve Jobs.
Gli editori di tutto il mondo pendono oggi dalle labbra di Steve Jobs. E si fanno per il futuro schiavi o ancelle del business di Steve Jobs.
La letteratura resa possibile dalla codifica digitale dei testi sta comunque nascendo. Ma soccorsi da Jobs tutti coloro che non volevano vedere possono continuare a non vedere.

mercoledì 14 luglio 2010

I colpi al cuore di J. D. Ballard. O i ricordi liberati dalla forma.

Dagli studenti c'è sempra da imparare. E l'apparentemente innocuo riferimento ad una parola -in superficie una espressione tecnica, record- apre terreno ad una riflessione che mi allarga l'orizzonte.
Uno studente che, come dovrebbe sempre essere, lavora da tempo a una tesi centrata su un tema di personale interesse: i romanzi di J. D. Ballard intesi come testi, intesi a prescindere dalla forma-libro, mi scrive.
"Il mio obiettivo è la laurea", ma "non mi interessa una grande votazione". Mi dispiace "da un punto di vista personale passare per arrogante o cose del genere, perché so che ho un modo di esprimere con forza dei giudizi magari superficiali dettati dall'entusiasmo del momento". Con riferimento alle tante fonti prese in considerazione nota che "alcuni approfondimenti mi sembravano indispensabili (Freud e McLuhan sono citati dallo stesso Ballard)". "Poi mi rendo conto che per seguire un percorso di ampio respiro sulle cose che mi appassionano mi ci sarebbero voluti anni".
Quindi -ricordo che si tratta di una laurea in Informatica Umanistica- parla di come procedere. "Dal punto di vista tecnico potrei cominciare col formattare una porzione di testo per inserirla in un database. Più che come narrativa non sequenziale il romanzo in questione potremmo vederlo come un insieme di record di incidenti, non so se è azzardata..."
Gli rispondo.
No, l'idea di considerare il romanzo come un insieme di oggetti di conoscenza che parlano di incidenti non è azzardata. Anzi, è del tutto pertinente.
Ti propongo però una riflessione sul senso profondo di quello che scrivi, che è anche una riflessione sul 'metodo informatico', un discorso che in parte abbiamo già fatto a voce.
Mi pare fuorviante pensare a un data base come supporto alternativo al libro, perché in realtà tra forma-data base e forma-libro non c'è differenza. C'è a fondamento in entrambi i casi un modello definito a priori, un modello nel quale è chiuso il testo, ridotto a 'contenuto'; 'contenuto', appunto, dipendente dal 'contenitore'.
Insomma, guardando ai supporti, o forme della conoscenza, l'Informatica 'normale' fa riferimento alla forma-data base, in realtà è una forma recentissima, apparsa sulla scena negli anni Sessanta del secolo scorso. Una forma che comunque non apporta niente di nuovo, figlia come è dello stesso paradigma che ha generato la forma-libro.
Perciò, d'accordo, per tutti i romanzi di Ballard, e Crash in maniera esemplare, si può dire che si tratta di un "insieme di record di incidenti". Ma quello che dici con questa affermazione va ben oltre quello che appare. Perché non c'è motivo di fermarsi al senso stretto che il termine record ha in Informatica.
Record in Informatica, o meglio in Computer Science è "a group of data or piece of information preserved as a unit in machine-readable form", e quindi, con più precissione "a data structure designed to allow the handling of groups of related pieces of information as though the group was a single entity". Ecco quindi che l'informatica presuppone che per conservare un ricordo si debba accettare una struttura, un modello dei dati definito a priori.
Ma il processo di costruzione della conoscenza del poeta e del romanziere, così come il processo di costruzione di conoscenza dell'imprenditore e in genere di chiunque lavora - per non andare lontano il processo di costruzione della conoscenza di Ballard - non è questo. La struttura data a priori non è necessaria, e tantomeno è indispensabile.
Perciò se metti il testo su un data base lo chiudi in una gabbia - una gabbia differente da quella del libro, ma sempre una gabbia.
Il tuo intento mi pare diverso. Dunque ti serve un paradigma informatico diverso. Penso al Web Semantico. Forse anche qui dovremmo scavare dietro alle parole. Non a caso i francesi traducono 'la Toile', ma può andar bene anche 'la Rete'. Il testo è una rete. Ogni testo 'd'autore' è una una porzione dell'infinita rete testuale -possiamo chiamarla 'letteratura', Juri Lotman paarlava di 'semiosfera', ma secondo me a ben guardare non siamo lontani da quell'entità che Marx nei Grundrisse chiamava General Intellect.
Così ti consiglio di codificare il testo secondo lo standard TEI. Al di là della cavillosa e talvolta difensiva maniera unoiversitaria di intendere la 'codfica digitale dei testi'. Il testo marcato con metatag è un testo libero da forme date a priori, sia del tipo libro, sia del tipo data base. Le marcature, i 'metatag', permettono di muoversi all'interno del testo e nel suo intorno. 'Intorno': il 'testo' può essere osservato a partire da un qualsiasi nodo della rete; ogni testo non è appunto che il modo peculiare di connettere tra di loro nodi della rete. I metatag appunto descrivono (esplicitano) queste peculiarità.
Così riacquista senso il record. Purché si faccia caso a dove cade l'accento. In inglese è accettata sia la pronuncia 'récord' che 'recórd'. Pronunciandolo con l'accento sulla e, come facciamo comunemente noi italiani, ci allontaniamo dall'italiano ricordo - perdendoci in un astratto linguaggio tecnico.
Italiano ricordo, inglese record: è il latino recordari: 'rammemorare', 'richiamare alla mente'," da re- 'movimento all'incontrario', 'restaurare'; inglese restore, e cordis, 'cuore'. La metafora lega il cuore alla mente: senza emozione, senza soprassalto del cuore non c'è memoria, ricordo. Vedi in inglese learn by heart, to get by heart.
Così, mi pare, si torna a Ballard. Ogni crash è un colpo al cuore - più il mondo insano ci rende impermeabili agli accadimenti, impermeabili alle emozioni, duri di cuore, più abbiamo bisogno di nuovi record, esperienze-limite, oltre i confini del già vissuto. E ogni incidente, ogni accadimento, ogni circostanza è un ricordo, o record che dir si voglia.

sabato 12 giugno 2010

Computer: storia di una parola

Il verbo latino putare -pensare, giudicare, credere, stimare, supporre, immaginare- risale ad una originaria idea di 'tagliare'.
Da qui si passa, cercando la precisione, al 'calcolare', 'conteggiare', 'determinare un valore numerico'. Lo si fa attraverso due verbi: computare e supputare. Il cum, 'con', rimanda all'idea di insieme, di classe. Supputare (sub putare) allude con più precisione al campo della matematica: sub, 'sotto', descrive tempo e ambito, territorio logico all'interno del quale il calcolo può essere ritenuto valido.
Il calcolo di una posizione astrale, il calcolo di un arco temporale all'interno di un calendario, la stima del valore di un bene: tecnicamente si tratta di supputatio. Ma i due verbi, e i sostantivi supputatio e computatio, e supputator e computator, si sovrappongono. Computatio, forse proprio perché espressione meno tecnica, più vicina al senso comune, finisce per prevalere. Così in latino, così in italiano, in spagnolo, in francese e -attraverso il francese- in inglese. (Qui, su questo stesso blog, è messa in luce la significativa distinzione tra computatio e supputatio).
L'Oxford Dictionary data al 1610 computator, e -con pressoché identico significato- data al 1646 computer: “one who computes, a calculator, reckoner, a person employed to make calculations in an observatory, in surveying, etc.”.
Charles Babbage, nella prima metà del 1880, chiama la sue macchine engines, ma verso la fine del diciottesimo secolo si intendeva ormai per computer non solo una persona, ma anche una macchina. La nuova accezione del termine, però, sfugge ai pur occhiuti redattori dell'Oxford English Dictionary. Non appare nell'edizione del 1928 alla lettera C. E non potevamo aspettarcelo, perché il fascicolo era stato stampato nel 1893. Computer, però, non appare nemmeno nel Supplement del 1933 – eppure in quegli anni, al MIT e altrove, le macchine per computare esistevano, e si chiamavano con quel nome. La lacuna è colmata nel nuovo Supplement del 1987. Lì troviamo computer nel senso di “A calculating machine; especially an automatic electronic device for performing mathematical or logical operations”.
Per datare la parola si deve tornare a sfogliare vecchie riviste. Si risale così fino al 22 gennaio 1897: su Engineering, si può leggere: “This was (...) a computer made by Mr. W. Cox. He described it as of the nature of a circular slide rule.”. E' ancora 'mechanical calculating machine'.
Di “electronic machine”, “programmable digital electronic computer”, si inizia a parlare nel 1937. Il termine è ancora nuovo, ma ormai di uso comune in ambiente scientifico e militare, quando nel 1946 inizia a funzionare l'ENIAC: Electronic Numerical Integrator And Computer.

(Questa scheda etimologica nasce nell'ambito del complessivo lavoro che narro in questo blog. Nella sua concisa forma qui presentata, 2.500 battute, è pubblicata ne libro Nuove parole del manager. 113 voci per capire l’azienda, Guerini e Associati, 2011.

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sabato 1 maggio 2010

Alla ricerca di un libro futuro

Come affermo qui a lato, nelle parole di presentazione di questo blog, sto scrivendo un testo che si propone di gettare qualche cono di luce su un tema che mi è sempre stato a cuore: come si creano e si condividono conoscenze. Di questo testo, in questo blog, non trovate che tracce, frammenti.
Sto scrivendo un 'testo', non un 'libro'. Testo ancora ingarbugliato, da dipanare. Scrivere un testo pensando già ad un libro, e scrivere invece accettando la complessità del testo, sono operazioni ben diverse. Scelgo la seconda via: scrivendo con un word processor, come sto facendo ora, posso accumulare, fidandomi dell'ordine interno che il testo via via assume. Così come -tramite un motore di ricerca- ci si muove nel Web, senza pretendere che la gran massa di conoscenze sia ssoggettato ad un previo ordine, posso ben muovermi nel testo che io stesso scrivo.
Posso pensare che una persona diversa da me, un 'lettore, possa accedere a questo testo muovendosi anche lui tramite un motore di ricerca. Posso pensare che il testo possa essere percorso e segmentato in modi diversi. In questo senso, si può dire che un testo può generare enne libri.
"Probabilmente il testo sarà pubblicato anche sotto forma di libro", aggiungevo, sempre nel testo che trovare qui a lato. E infatti, d'accordo con un editore di libri cui sono affezionato, mi sono trovato a pensare ad un possibile libro. Perciò ho scritto una scheda editoriale.
Ho mandato la scheda al mio editor. Qualche giorno fa ho ricevuto risposta: "ho parlato della tua proposta in riunione editoriale. A tutti noi è sembrato che l'argomento sia interessante ma così come l'hai esposto tu nella scheda troppo difficile, ci sembra più da corso universitario, molto tecnico e difficile per un pubblico più vasto".
Ho risposto: "So che devo ancora dipanare un po' ilgarbuglio, ma sono convinto di poter parlare di questi temi, o di parte di questi temi, in modo veramente semplice e scorrevole. Sono convinto di poter scrivere su questi argomenti un testo leggibile come
un romanzo".
Credo che si possa lavorare al contempo in due direzioni: da un lato si accumula materiale; dall'altro si preparano estrazioni più o meno organizzate, in funzioni di un uditorio. Non a caso coì lavora qualsiasi narratore.
Così, pensando ad un libro di duecento pagine, avendo in mente quella casa editrice e quella collana, mi sono impegnato a scrivere una nuova scheda.
Intanto propongo qui la scheda che è stata giudicata troppo tecnica e difficile.


Tutto oggigiorno passa attraverso la mediazione dell'informatica. L'informatica interpreta e definisce i modi del conoscere e dell'agire umano. La nostra vita quotidiana, nel lavoro e in ciò che facciamo per piacere e per divertimento. La cura della salute e la gestione del denaro. Il funzionamento delle imprese private e della pubblica amministrazione, così come ogni manifestazione della cultura e dell'economia. Qualsiasi attività presuppone l'uso di interfacce hardware. Qualsiasi attività presuppone l'intervento di un software.
Ma ben poco sappiamo di 'come funziona' tutto questo. Gli specialisti ci affliggono con sigle e definizioni tecniche, perlopiù espresse in lingua inglese. Cosicché noi, frenati dal timore dell'ignoto, scegliamo di vivere nell'ignoranza.
Di fronte a sistemi che ci appaiono astrusi, troppo lontani da noi, mossi da un comprensibile atteggiamento difensivo ci sforziamo di non vedere, chiudendoci in un futuro inteso come prosecuzione del passato. Autoconvincendoci che 'nulla è cambiato', ci rifugiamo nel legame affettivo con strumenti che usiamo da tempo immemorabile: carta, penna, libro.
Invece, proprio dall'osservare come sta cambiando sotto i nostri occhi il senso dello 'scrivere' e del 'leggere', proprio dall'osservare come sta cambiando, in senso lato, il modo di produrre, conservare e condividere conoscenza, possiamo prendere spunto per un viaggio appassionante.
Il libro non è certo destinato a scomparire, mantiene il suo fascino e la sua concreta utilità, ma il confronto con altri mezzi già oggi disponibili ci illumina sui suoi limiti. La tecnologia implicita nel libro impone ai testi – che sono tessuti, reti– una struttura sequenziale. Ogni libro è chiuso in se stesso. Il libro subordina il pensiero ad un programma: ad una forma definita a priori. Il libro implica il controllo: non esiste senza la mediazione di un editore.
Proprio guardando al libro, alla sua funzione ed alla sua natura tecnica, abbiamo modo di svelare l'arcano. L'informatica è per un verso nient'altro che l'estrema manifestazione della forma libro. Un sistema di macchine teso ad espandere e a rendere più efficace il modello implicito nel libro. Ma al contempo, per un altro verso, l'informatica offre ad ognuno di noi un approccio alla conoscenza né migliore, né peggiore dell'approccio implicito nel libro, ma diverso.
In questa ottica, scrittura e lettura ci appaiono come un'unica attività. Autore e lettore ci appaiono come un'unica persona; il testo ci appare come una rete in continuo divenire, slegato dalla pagina, dalla carta, da un qualsiasi supporto, eppure accessibile tramite strumenti e supporti diversi; sfuma fino a scomparire il confine tra oralità e scrittura; sfuma anche il confine tra testo alfabetico e musica ed arti visuali; al controllo e all'ottimizzazione si sostituisce l'attenzione all'istante, la ricerca di risposte imperfette ma tempestive, adeguate alla situazione. In luogo di scuole vincolate ad un programma, in luogo di biblioteche accuratamente schedate, il Web, il motore di ricerca ci collocano in un luogo dove la conoscenza emerge in forme sempre nuove, in funzione di quello che serve qui ed ora.
Poiché nessun linguaggio tecnico è veramente necessario, ed anzi il linguaggio tecnico è molto spesso l'alibi di chi non sa, o non vuole spiegarsi, nel libro che avete in mano non troverete nient'altro che narrazioni. Dunque, il romanzo dell'informatica, o l'informatica come romanzo.
Storie singolari: Bacone e le sue Tabulae instantiarum; il Sistema Naturae di Linneo; Charles Babbage alle prese con il sogno dell'Analytical Engine; Vannevar Bush e il suo Memex; Doug Engelbart, sul finire del 1968, mentre mostra a una platea di tecnologi stupiti il primo personal computer, il primo mouse, il primo programma di scrittura.
Ma anche e sopratutto, filosofia. L'informatica è la prosecuzione della filosofia con altri mezzi. Non a caso nel dominio dell'informatica ritroviamo puntualmente ognuna delle ben note categorie: scolastica, metafisica, idealismo, fenomenologia, positivismo e filosofia analitica... Accade però che mentre i filosofi –nulla supponendo di questa contiguità– si isolano in una torre d'avorio quanto più possibile lontana dalla tecnologia, la progettazione e la gestione delle macchine e degli strumenti deputati alla creazione, alla conservazione e e alla condivisione della conoscenza è lasciata in mano a specialisti che adorano la tecnologia come feticcio.
E poesia. Goethe sapeva trattare lo stesso tema scientifico-tecnologico con la stessa chiarezza ed esattezza sia in versi dedicata all'amata, sia in saggi destinati ad 'addetti ai lavori'. Ecco così il poeta-scienziato che osserva una pianta nell'Orto botanico dell'Università di Padova. Gli sovviene l'idea della 'forma formante' – per noi oggi: la forma della conoscenza che costruiamo attimo dopo attimo interagendo con il Web. Forma che si oppone alla ­­schematica classificazione di Linneo – per noi: la forma-libro.
­Fino all'ultima narrazione: l’ultimo libro sarà un libro giallo. Per un doppio ordine di motivi. Innanzitutto perché nessun testo come il romanzo giallo è consono alla forma-libro. Il libro presuppone la lettura sequenziale, pagina dopo pagina; ed il romanzo giallo tiene avvinto il lettore, obbligandolo alla sequenza, imponendogli di leggere dalla prima all'ultima pagina. Ma c'è, a spiegare l'attualità del romanzo giallo, un secondo ordine di motivi. Il romanzo giallo ci appare attuale, necessaria lettura, perché ci allena a quel lavoro mentale che ci è proposto oggi dall'uso del personal computer, ed in genere dagli strumenti informatici.
Il lavoro dell’investigatore che sbroglia il garbuglio e che costruisce un mondo a partire da tracce e segnali deboli, è lo stesso lavoro che ci troviamo a svolgere quando, invece di leggere un libro scritto da altri, ci troviamo a costruire conoscenza muovendoci nell'incerto mare del Web, muniti di un motore di ricerca.

giovedì 18 marzo 2010

La poesia come musica: un esperimento di transcodifica

Con la codifica digitale dei testi ci appare assottigliato e riconfigurato il confine tra oralità e scrittura.
Allo stesso modo, la codifica digitale ci mostrra assottigliato e riconfigurato il confine tra poesia e musica.
Con Mauro Graziani ragionavamo qualche anno fa a proposito di questo confine. Mi venne da chiedergli una 'musica da ambiente' adeguata alla lettura di una mia poesia. Mauro rispose da musicista e da programmatore.
Qui trovate traccia dell'esperimento: dalla poesia alla musica attraverso il codice.
Un esperimento che ci fa fare qualche piccolo passo lungo un cammino impervio e misterioso, ma credo anche ricchissimo.
Buona lettura e buon ascolto.

sabato 27 febbraio 2010

Tecnologie dell'Informazione e produzione di letteratura 2009-2010

Così come ho pubblicato in questo blog il programma del corso di Organizzazione di conoscenze e di attività, pubblico il programma di questo corso. Perché il tema è vicinissimo agli argomenti toccati in questo blog, e perché il ragionare con gli studenti a proposito di questi temi è un momento fondamentale nella costruzione del mio punto di vista.

Titolo: Tecnologie dell'informazione e produzione di letteratura
Corso di studi: Laurea triennale Interfacoltà in Informatica Umanistica
Università di Pisa
Docente Francesco Varanini

Anno Accademico 2009-2010. (Il programma degli anni precendenti lo trovate qui).

Argomento
In virtù dell'uso di strumenti informatici cambiano la modalità della comunicazione e dell'interazione sociale: telefonia cellulare su base digitale, sms, networking, istant messanging ecc.
Cambia anche il modo di lavorare: il personal computer, o il terminale connesso al server sono il tramite al quale svolgiamo ogni attività.
Ma cambia anche il modo di produrre testi letterari ed il modo di fruirne.
Personal computer, piattaforme web 2.0, word processor, motori di ricerca, e book, editoria on demand, portano con sé un nuovo modo di scrivere e di leggere. Scrivere con un word processor, una tastiera ed un mouse, è operazione ben diversa dal vergare segni su un foglio tramite una penna. Leggere un testo sotto forma di libro, tramite e book, tramite schermo di computer, è operazione diversa.
Siamo dunque di fronte ad un cambiamento che ci porta a guardare oltre il tradizionale modo di 'produrre letteratura'.
Ciò che chiamiamo 'letteratura' ci appare, nel nuovo contesto, in una luce diversa. L'oggetto simbolico al quale è tradizionalmente legata la produzione di letteratura -il libro-, se certo ha ancora un futuro, tende a perdere la sua indiscussa centralità.
Cambia il ruolo dell'autore, dell'interprete e del lettore.
Possiamo dunque chiederci: come si scriveranno e come si leggeranno opere letterarie in un prossimo futuro? Come si farà critica letteraria?
Nel ragionare attorno a questi interrogativi, si lavorerà in particolare su quel testo che ci siamo abituati a chiamare 'romanzo'.

Testi
Il programma prevede lo studio di:
Ivan Illich, In the Vineyard of the Text. A Commentary to Hugh’s Didascalicon. Les Editions du Cerf, Paris, 1991, trad it. Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Milano, Raffaello Cortina Editore 1994.
Francesco Varanini, “Un certo tipo di letteratura”
Francesco Varanini, “La restituzione poetica”
Francesco Varanini, “Il romanzo come baule”
Francesco Varanini “Nebrija: L'impero della lingua o la lingua dell'impero”
Francesco Varanini,"L'anonimo cantore"

Esercitazione
Il programma prevede inoltre la lettura di uno o più dei seguenti romanzi (o di altri testi narrativi concordati con il docente).
Letto il romanzo lo studente -mettendo in gioco le proprie competenze informatiche- dovrà stendere, e nei limiti del possibile sviluppare progetto teso a liberare un romanzo dalla forma del libro.
Ad esempio: ripresentazione del romanzo sotto forma di ipertesto; modellizzazione del testo in un data base offerto alla consultazione del lettore; indicizzazione del testo allo scopo di renderlo fruibile tramite motore di ricerca; costruzione di un ipertesto; costruzione di un testo multimediale.

Witold Gombrowicz, Ferdydurke, Ròj, Varsavia, 1937 (ma con data 1938). Con lo stesso titolo, in spagnolo: Argos, Buenos Aires, 1947; in francese: Julliard, Paris, 1958; e in italiano Einaudi, Torino, 1961 (trad. incompleta, basata sulla trad. francese, a sua volta originata dall’ed. in spagnolo). Le diverse modifiche che differenziano l’ed. spagnola da quella del ’37 sono mantenute dall’autore nell’ed. polacca del 1969 (Instytut Literacki, Paris), da cui la trad. it. di Vera Verdiani: Ferdydurke, Feltrinelli, Milano, 1993.

Alberto Arbasino, Fratelli d'Italia. Prima edizione, Feltrinelli, 1963. pp. 532; Seconda edizione Einaudi, 1976. pp. 663. Terza edizione Adelphi, 1990. pp. 1130.

Julio Cortázar, Rayeula, Sudamericana, Buenos Aires, 1963. Traduzioni: Il gioco del mondo, Einaudi, Torino, 1969; Marelle, Gallimard, Paris, 1966; Hopscotch, Pantheon Books, New York, 1966; Rayeula. Himmel und Hölle, Suhrkamp, 1981; O Jógo da Amarelinha, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1970.

Guillermo Cabrera Infante, Tres tristes tigres, Seix Barral, Barcelona 1967; trad. it. Tre tristi tigri, Il Saggiatore, Milano 1976.

Philip K. Dick, Ubik, Doubleday, New York, 1969; trad. it. Ubik, mio signore, La Tribuna, Piacenza 1972, poi Ubik, Fanucci, Roma1989 e 1995.

Raymond Carver, “A Small Good Thing”, racconto di 25 pagine, esce in Prize Stories 1983: The O.Henry Awards, Doubleday, New York, 1983. Carver aveva vinto il primo premio in quel concorso. Il racconto esce poi in Raymond Carver, Cathedral: Stories, Random House, New York, 1984. Successivamente, è riproposto in Raymond Carver, Where I’m Calling From: Selected Stories, Random House, New York, 1988.
In italiano si trova in tre diverse versioni, lievemente diverse: Cattedrale, Oscar Mondadori; Da dove sto chiamando, Minimum Fax, Roma,1999; Principianti, Einaudi, Torino, 2009.

Thomas Pynchon, Gravity Rainbow, Viking Press, New York, 1973, trad. it. L'arcobaleno della gravità, Rizzoli, Milano, 1999.

Georges Perec, La Vie mode d'emploi, Gallimard, Paris, 1978; trad it. La vita, istruzioni per l'uso, Milano, Rizzoli, 1984.

Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino, 1979.

Aldo Busi, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, Mondadori, Milano 1985. Seconda edizione riveduta, Oscar Mondadori 1991. Terza edizione (“iniziato nel 1979, pubblicato nel 1985, revisionato dal 1991 al 1996, totalmente riscritto nel 2001, con episodi inediti e un nuovo finale”, Oscar Mondadori 2002). Quarta edizione riveduta 2009.

Nota
Gli studenti, sia frequentanti che non frequentanti, sono invitati a inviare una e-mail al docente. Saranno periodicamente forniti materiali didattici inerenti all'insegnamento.

sabato 20 febbraio 2010

Vannevar Bush

Professore, imprenditore, tecnologo, capoprogetto
Esemplare esponente della cultura che pone al centro l'innovazione tecnologica- scienza e industria insieme, ricerca di base ma anche orientamento all'alla killer application, all'uso pratico- è Vannevar Bush. Lavora alla General Electric. Quindi si laurea in ingegneria elettrica al MIT. Lì è ricercatore dal 1919, professore dal 1923, tra il '32 e il '38 Vice President e Dean.
Contemporaneamente, è decollata la carriera di imprenditore. Sono gli anni delle automobili, frigoriferi e radio., Nel '22 Bush, trentaduenne, fonda con il compagno di college Laurence K. Marshall una società destinata a produrre frigoriferi, secondo la tecnologia di un giovane scienziato, Charles G. Smith. Ma sarebbe un fallimento, se non si scoprisse fortuitamente che la tecnologia può servire ad altro. Il tubo raddrizzatore Raytheon a gas inerte permette di sostituire alla batteria l'alimentazione tramite corrente elettrica. Solo così l'apparecchi radio può entrare in ogni casa. (Raytheon cresce con radar nella seconda guerra mondiale con i radar, poi con i missili. Nella seconda metà del ventesimo secolo, e ancora nel ventunesimo, è impresa leader nel settore aerospaziale, e in tecnologie al confine con la science fiction: esoschletri per potenziare le capacità del corpo umano).
Intanto, dal 1927, Bush, presso il MIT, lavora al Differential Analyser, computer analogico in grado di risolvere equazioni differenziali: ne più ne meno, la macchina di Babbage in versione elettronica, anche se ancora basata su ingombranti valvole. (Lavorando al progetto uno studente, che è Claude Shannon, disegna il primo circuito digitale).
Nella seconda metà degli anni trenta, in una situazione di crisi globale e di guerra incombente, si fa promotore di una agenzia governativa destinata a coordinare e indirizzare a fini militari l'innovazione tecnologica di Università e imprese private. All'inizio del 1940, nel Congresso, la discussione sul National Defense Research Committee procede a rilento. In maggio, quando ormai la Germania ha invaso la Francia, Bush non si perita ad usare lobby e contatti privati per incontrare Roosevelt. In dieci minuti, il 12 giungo 1940 il Presidente approva il progetto. Nel 1941 il NDRC confluisce nell'Office of Scientific Research and Development (OSRD). Bush, direttore dell'OSRD, coordina oltre 200 progetti scientifico-militari, tra cui il Progetto Manhattan (bomba atomica, fino al '43, quando passerà sotto la gestione dell'Esercito), radar, sonar, sistemi di puntamento, produzione massiva di penicillina e sulfamidici.

1945
Bush nel 1945: mentre è impegnato a governare il nascente apparato militare-industriale, tira fuori dal cassetto e pubblica uno scritto di forse dieci anni prima.
Mentre come project manager organizza il lavoro di migliaia di persone, sente il bisogno di organizzare le proprie conoscenze, meglio: l'accrescimento delle proprie conoscenze.
Negli anni in cui scienza e tecnologia vanno verso l'estrema specializzazione, Bush ricorda a se stesso, e a noi, l'importanza della visione di sintesi, personale e creativa.
Negli anni in cui, con il contributo personale di Bush, si affermano i grandi sistemi tecnologici orientati al controllo, sistemi totali che schiacciano l'uomo e tolgono autonomia e centralità alla persona, Bush pensa alla persona sola al centro del proprio mondo, intenta a costruire conoscenza, intenta a sbrogliare il groviglio. Pensa a come la capacità umana di lavorare devanandose los sesos possa accrescersi esponenzialmente, se la mente umana lavora accoppiata ad una macchina. Pensa a testi liberati dalla sequenzialità, liberati dalla gabbia del libro.
Pensa quello che sarà il personal computer, quello che sarà l'ipertesto, il Web, wikipedia.

As We May Think
“As We May Think” esce sul numero di luglio 1945 sull'Atlantic Monthly, quando ormai la Germania è divisa tra gli alleati. Un mese dopo la bomba atomica colpirà Hiroshima e Nagasaki. Una versione ridotta dell'articolo, corredata da illustrazioni, appare su Life il 10 Settembre 1945 (su quello stesso numero appaiono immagini di Hiroshima, dopo la bomba).

Consider a future device for individual use, which is a sort of mechanized private file and library. It needs a name, and to coin one at random, "memex" will do. A memex is a device in which an individual stores all his books, records, and communications, and which is mechanized so that it may be consulted with exceeding speed and flexibility. It is an enlarged intimate supplement to his memory.
It consists of a desk, and while it can presumably be operated from a distance, it is primarily the piece of furniture at which he works. On the top are slanting translucent screens, on which material can be projected for convenient reading. There is a keyboard, and sets of buttons and levers. Otherwise it looks like an ordinary desk.


Il Memex, la macchina, la scrivania attrezzata immaginata da Bush, tiene conto delle più avanzate tecnologie dell'epoca. Tecnologie meccaniche ed ottico-chimiche, però: schedari automatici, microfilm, proiettori. Singolarmente, niente di elettronico. Forse Bush non è veramente riuscito a comprendere che tutto quanto immaginava sarebbe stato possibile solo con l'uso di strumenti elettronici. O forse chissà, per non rivelare quelli che potevano ben essere allora segreti militari, si autocensurava. La sua visione, comunque, ci appare ancora oggi potentissima. E non meraviglia che sia stata fondamentale fonte di ispirazione di colore che, negli anni sessanta del secolo scorso, hanno progettato personal computer, mouse, word processor, internet, Web.

venerdì 29 gennaio 2010

Informazione e Comunicazione come falsa coscienza

Umberto Eco, McLuhan, De Kerckhove, Castells. Tutti rinomati per il loro sguardo contemporaneo, per la loro capacità di cogliere discontinuità nel panorama dei media, per la loro disponibilità a considerare con attenzione le 'nuove tecnologie'.
Ma anche quando ci descrivono l'andare oltre la chiusura del testo, oltre i limiti della stampa, quando ci parlano di soggetti che sono al tempo stesso autori e lettori, quando ci parlano di intelligenze collettive e di lavoro collaborativo, quando osservano il Web, la Rete, restano legati alle idee di comunicazione e di informazione. Cioè a due concetti che non vedono la conoscenza emergente dalla fonte, dalla mente, ma vedono invece un messaggio viaggiante attraverso mass media. Chiave di lettura del mondo 'idealistica': la conoscenza, così intesa, è ciò che l'osservatore autorevole, ciò che l'interprete legittimato -a partire da regole che si pretendono 'oggettive'- battezza come non-rumore, non-ridondanza.
In questa ottica, la conoscenza esiste se, e solo se il bruto segnale che viaggia lungo il canale -l'informazione secondo Shannon- è ritenuto significativo dall'interprete, dal Gatekeeper.
E la comunicazione non si discosta da ciò che intendeva il latino ecclesiastico, a partire da Sant'Agostino: altari communicare, 'rendere comune', 'far conoscere', il 'far sapere', riferito a 'idee', 'sentimenti' e anche e sopratutto alla 'propria scienza'. Dunque la mia scienza dipende dalla mediazione del sacerdote, dell'altare e della Chiesa. Qui lavora già, pienamente, il Gatekeeper.
Insomma, Eco, McLuhan, De Kerckhove, Castells, tardi epigoni laici di una concezione sacerdotale della conoscenza, impongono il primato del mezzo. Poiché è sul mezzo che può essere esercitato il controllo, questi scienziati, così, finiscono per vendere una merce scientifica che ha mercato proprio perché permette il controllo e legittima il controllo.
Coerentemente con questo orientamento loro opere -non a caso scritte in un fastidioso linguaggio che impone soggezione- contengono insegnamenti: latino insĭgnare, 'imprimere segni nella mente'. Tendono a imporci un modo di leggere il mondo che abbiamo sotto gli occhi. Più è nuovo questo mondo, più il Web e i computer intesi come macchine per pensare offrono spazi e strumenti per costruire conoscenza fuori dal controllo dei Gatekeeper, più i Gatekeeper dovranno imporci una 'scienza' che neghi questa libertà.
Ben diversamente Ong -che pure una lettura scolastica vorrebbe appartenente alla stessa scuola di McLuhan- guarda all'origine della parola: la parola orale è sempre 'emergente', prende senso durante l'evento, nella situazione. Ben diversamente Illich guarda sempre oltre oltre, a monte e a valle della mediazione esercitata dai grandi sitemi organizzativi. Ben diversi Maturana e Varela ci invitano ad accogliere lo sguardo sul suo intorno del ser vivo, l'essere vivente che esperisce, fa esperienza. Per l'essere vivente teso a costruire la conoscenza adeguata alla propria storia, ai propri scopi e alla situazione, il Gatekeepeer è un disturbo, non un aiutante.
Potremmo dire che mentre Eco, McLuhan, De Kerckhove, Castells, e tanti altri come loro, insegnano, Ong e Illich e Maturana e Varela narrano e portano alla luce narrazioni. Parlano di cosa succede nel mentre si costruisce conoscenza. E' conoscenza ciò che si acquisisce di fronte al fenomeno ('mostrarsi', 'apparire'), nell'esperimento (latino experiri: 'provare', 'sperimentare'), durante l'evento (latino eventus da evenire, 'accadere', 'riuscire').

sabato 2 gennaio 2010

Puro codice: da Bauhin a Linneo

Linneo riprende la strada tracciata da Bauhin. Tra Bauhin e Linneo non c'è soluzione di continuità. Come Bauhin Linneo rinuncia a ogni immagine, ogni illustrazione, ogni descrizione.
Ma l'idea di struttura, il modello di Bauhin era ancora approssimativo, lacunoso, imperfetto. Linneo -non physicien, ma scienziato- va oltre. Mentre il physicien considera costruttivo muoversi alla cieca -'senza poter vedere distintamente, 'senza precisione'- lo scienziato linneiano si dota di uno schema che orienta e vincola (e rassicura).
Se il modello di Bauhin è approssimativo, il modello di Linneo è invece formalmente perfetto, ricorsivo, autoesplicativo. Si appoggia su una nomenclatura controllata. Garantisce l'univocità del dato: non ci può essere equivoco. Nessun ente potrà essere, per errore, nominato e descritto in modi differenti. Garantisce l'uniforme classificazione degli enti. Definisce e rende possibili le relazioni tra ente ed ente. Elimina ogni ridondanza.
Dunque, la capacità distintiva di Linneo sta nella esatta codifica. Sta, ad essere più precisi, nel definire la semantica e la sintassi del codice. Sta nello scrivere il codice, e nello stabilire regole perché altri possano ulteriormente incrementare il testo, usando senza possibilità di errore quel codice.
Il progetto di Linneo è ardito, perché per descrivere la natura si svincola dai limiti della natura. Legittimato dall'idea di descrivere ciò che sta scritto nel disegno di Dio, si libera dai vincoli terreni.
Se l'orto, il gabinetto di storia naturale, il museo ponevano vincoli fisici all'ordine e alla purezza dell'organizzazione, Linneo va oltre.
Se la struttura del libro costringe il testo in confini che ne limitano la costruzione strutturale, Linneo va oltre. La forma, la struttura del sistema linneiano, è astratta, prescinde totalmente dal supporto. Il fatto che Linneo abbia 'scritto un libro' è meramente accidentale: ciò è accaduto solo perché non disponeva di altre tecnologie. Ma evidentemente la sistematica pensata da Linneo prescinde dalla forma libro e va oltre la forma libro. Sta stretta nella forma libro.
Se le parole delle lingue naturali, se la grammatica e la sintassi e la semantica impediscono di esprimersi attraverso la 'normale' scrittura in modo esatto ed inequivocabile, deve essere individuato un nuovo linguaggio. E Linneo inventa un nuovo linguaggio, diremmo oggi logico-formale. O meglio: produce software; inventa un linguaggio di programmazione.
Scompare il terreno, ma anche la pagina del libro. Il supporto è irrilevante nel progetto di Linneo. Ciò che conta, ciò che è, è puro codice, insieme dei segni che legano univocamente significato a significante, organizzati in sistema.
Avendo sott'occhio il progetto linneiano, può essere ripercorsa e illustrata l'intera storia del codice, nelle sue diverse manifestazioni ed accezioni.
In origine il latino caudex 'tronco d'albero', poi contratto in codex, riferito all'uso antico di scrivere su tavolette di legno ricoperte di cera, unite insieme da anelli metallici o da una striscia di cuoio, in modo da formare un quaderno, o bloc-notes che poteva essere usato voltando le pagine.
L'espressione codice, dunque, ci ricorda l'esigenza di un supporto. Il giardino usato dal botanico per descrivere la Natura. I fili colorati con cui si tesse un arazzo. La lastra da incidere. E poi, con la tecnologia della scrittura, la corteccia o lo strato di cera o la pergamena o la carta.
Le caratteristiche del supporto pongono vincoli alla purezza della struttura del testo, del tessuto che lega tra di loro gli elementi del sistema. Qui, appunto, Linneo va oltre. Propone una organizzazione delle informazioni -un codice- invariante, astratto, non condizionato dalle caratteristiche e dai vincoli del supporto.
Ecco già quindi, nel Systema Naturae, il codice inteso, come vuole la moderna semiotica, un insieme organizzato di segni che lega un 'piano dell'espressione' a un 'piano dei contenuti'.
Al latino scientifico, lingua già di per sé ipercodificata, lingua artificiale che tende a azzerare le interpretazioni ambigue, si aggiunge l'uso di una nomenclatura chiusa, controllata. La lingua è vista nel suo aspetto più formale e regolato, un sistema convenzionale in cui a lettere, numeri, parole o altri simboli sono assegnati dei significati univoci, inequivocabilmente esplicitati.
Nel Systema di Linneo, come oggi in tutte le attività nelle quali si trattano informazioni -biblioteche e centri documentazione, ma anche elettronica e informatica e telecomunicazioni- il codice inteso come modalità per rappresentare mediante un opportuno insieme di simboli e di stringhe un insieme di oggetti materiali, o un insieme di informazioni tendenzialmente più complesse dei simboli e delle stringhe che le codificano.
Un codice si dice efficiente quando utilizza un numero di simboli strettamente necessario per codificare l'informazione, mentre all'opposto si dice ridondante quando usa una quantità di simboli superiore al necessario. Il codice di Linneo è un esempio di efficienza.
Il codice può essere osservato da due punti di vista. Il codice è innanzitutto, il procedimento di codifica, ovvero la modalità seguita per assegnare univocamente ad ogni elemento dell'insieme da rappresentare una stringa che lo rappresenta. Ed il codice è poi l'insieme delle codifiche, ovvero l'insieme delle stringhe rappresentative.
La codifica di Bauhin, ancora approssimativa, rendeva necessaria la mente esperta ed i sensi ben desti del physicien. Solo una persona che avesse osservato dal vivo le piante, le avesse raccolte e tenute in mano, poteva colmare le lacune della codifica, andare oltre le ambiguità ancora presenti nella classificazione.
Solo Bauhin era in grado di applicare all'osservazione della natura il metodo di Bauhin. E solo un botanico esperto poteva cogliere il senso del Pinax theatri botanici.
La codifica di Linneo è invece raffinata, inequivocabile. Per quanto riguarda il procedimento di codifica, Linneo ha definito con esattezza regole e vincoli. Per quanto riguarda l'insieme delle codifiche, ci mostra un sistema funzionante, dove migliaia di enti sono univocamente nominati e posti in relazione.
Ogni ente, ogni elemento della natura è descritto da una stringa alfanumerica. Ciò che esiste, nel mondo perfetto della scienza linneiana, non sono le piante, ma le stringhe alfanumeriche che le descrivono. Perché le stringhe, a differenze delle piante, possono essere relazionate tra di loro, collocate -appunto- in un sistema gerarchico onnicomprensivo, che tutto comprende.
La separazione dal supporto, e l'invarianza rispetto al supporto, e ancora la coerenza interna del testo, ed il suo appoggiarsi ad un linguaggio logico formale, ci permettono di dire che il Systema di Linneo è un software.
Più precisamente, il Systema di Linneo è un programma: una sequenza logicamente ordinata di istruzioni atte a descrivere i singoli elementi la natura. Istruzioni che possono essere eseguite da un botanico di medie capacità, da uno studente. Ma c'è di più: istruzioni che evocano la presenza di una macchina in grado di eseguirle.
Così, possiamo arrivare a dire che se l'utente ideale del Pinax di Bauhin -modello debole, soggetto a interpretazioni personali- non poteva essere che un esperto botanico, il Systema di Linneo -modello forte, inequivoco, privo di ridondanze, caratterizzato dall'univocità del dato- evoca invece la presenza ed il lavoro automatico di una macchina. Il testo di Linneo è pensato per essere interpretato da una macchina.