sabato 21 gennaio 2012

Stop Online Piracy Act (SOPA), Protect IP Act (PIPA) e la nozione del Copyright


Nell’ultima settimana due progetti di legge in discussione presso il Congresso degli Stati Uniti -Stop Online Piracy Act (SOPA), alla Camera dei Rappresentanti, Protect IP Act (PIPA) al Senato- sono stati rimessi almeno per il momento rimessi nel cassetto. Progetti sostanzialmente convergenti, formalmente tesi a bloccare l’accesso a siti web sospettati anche solo vagamente di violazioni del copyright. I titolari di diritti lesi, in base alle leggi, potrebbero agire per vie legali non solo nei confronti di chi abbia materialmente commesso la violazione, ma anche nei confronti dei siti e dei portali che ospitano i contenuti in violazione di copyright.
Schierati a favore, le associazioni industriali dei produttori di Computer Games, Entertainment Software Association; dell’industria cinematografica, Motion Picture Association of America; dell’industria discografica, Recording Industry Association of America; e ancora grandi gruppi editoriali: Macmillan, gradi brand: Nike, L'Oréal. Contro Google, Facebook, Yahoo, insieme a Wikipedia, alla Electronic Frontier Foundation e a Human Rights Watch.
Gli schieramenti mostrano che si tratta di un tentativo di arbitrare tra le pressioni e le pretese di due grandi lobby: da un lato l’industria editoriala nata prima dell’avvento del computing e del World Wide Web, dall’altro l’industria che vive del Web.
In ogni caso, non si tratta certo di una legge tesa a difendere diritti dei cittadini, compresi tra questi i produttori di conoscenza. Dico produttori di conoscenza perché le antiche e belle parole che conosciamo -innanzitutto ‘autore’- nel contesto offertoci dal computing e dal World Wide Web, appaiono superate. E non costituiscono certo un passo avanti, nel descrivere situazioni e possibilità, nuove espressioni come utente, user content generator, e simili.
Il fatto è che i diritti -così anche il copyright- sono stabiliti a partire da una tecnologia. “Il riconoscimento della proprietà letteraria e la pratica del pagamento di diritti d’autore sono emersi con la stampa”. Il copyright “non è stato applicato alla conversazione, ai discorsi, o al canto, in privato o in pubblico, fino a tempi molto recenti”. “Il caso fondamentale di riferimento è negli stati Uniti il processo Withe Smith v. Apollo [1908]. Negò la protezione ai rulli delle pianole e alle registrazioni sonore perché non erano ‘scritti’ in forma tangibile, leggibile da un essere umano”. Ma poi via via nuovi Gatekeeper, mediatori tecnologicamente necessari come lo è dal 1500 la stampa, hanno spinto la norma sul copyright ad allargare il proprio ambito di copertura, fino a farne un mostro giuridico. Fino a quando, dagli anni Ottanta del secolo scorso e fino ai nostri giorni, con l’avvento del Computing e poi del World Wide Web, si è tentato di allargare l’ambito del copyright fino ad abbracciare la produzione e l’uso di conoscenza sulla Rete. Con esiti sempre insoddisfacenti.
Ciò che serve non “Bisognerà inventare concetti completamente nuovi per compensare il lavoro creativo. Il concetto di copyright basato sulla stampa non funziona più”.

Ho tratto le citazioni sopra riportate da un articolo di Ithiel de Sola Pool. Scritto trent’anni fa, mi pare molto più attuale delle cose che si leggono in questi giorni sui giornali, ed anche nei commenti di pretesi esperti. Di seguito riporto un paragrafo dell’articolo. (Ithiel de Sola Pool, “La cultura della stampa elettronica”, in Comunità, anno XXXVIII, n. 186, dicembre 1984. Al momento, non ho trovato la fonte originale, che comunque è successiva al 1981).

[Con la pubblicazione elettronica] spaventose sono le implicazioni per la proprietà letteraria. Anzi la nozione stessa di copyright diventa obsoleta, perché legata alla tecnologia della stampa. Il riconoscimento della proprietà letteraria e la pratica del pagamento di diritti d’autore sono emersi con la stampa.
Quando in un luogo si riproducevano copie numerose, diventava relativamente facile identificare la fonte delle copie e il loro numero; e il luogo in cui venivano stampate era quello in cui erra pratico applicare controlli o conteggi fiscali. Infatti l’usanza del copyright cominciò di fatto, se non con quel nome, nel 1557, in Inghilterra, quando Filippo e Maria, nel tentativo di porre fine alla pubblicazione di libri sediziosi ed eretici, limitarono il diritto di stampa a membri della Stationers’ Company, assegnando a questa associazione il diritto di cercare e confiscare tutte le pubblicazioni stampate contrarie alle leggi scritte o a decreti. Otto anni dopo la Stationers’ Company, forte di quel potere, creò un sistema di copyright per i propri membri. Nel 1709 il Prlamento approvò la prima legge sul diritto d’autore. (Jan Parsons, Copyright and Society, in Asa Briggs (a cera di), Essays in the History of Publishing, Longman, Londra, 194, pp. 331e segg.).
Per i modi di riproduzione in cui non esisteva un luogo di controllo tanto facile come nell’editoria a stampa, secondo la legge consuetudinaria non si applicava il concetto di copyright. Non è stato applicato alla conversazione, ai discorsi, o al canto, in privato o in pubblico, fino a tempi molto recenti. Il copyright fu un adattamento specifico a una particolare tecnologia e ai problemi e alla possibilità che essa creava.
La legge lo riconobbe. Il caso fondamentale di riferimento è negli stati Uniti il processo Withe Smith v. Apollo. Negò la protezione ai rulli delle pianole e alle registrazioni sonore perché non erano “scritti” in forma tangibile, leggibile da un essere umano. (209 US 1(1908). Cfr. anche Goldsmith v. Calif. 421 USA 546 (1973) sulle registrazioni sonore). Quel concetto d’autore legato alla consuetudinaria escluse della protezione molte delle nuove tecnologie della comunicazione apparse dopo il 1908. Ma l’industria cinematografica, discografica e più recentemente televisiva hanno persuaso il Congresso, visto che i tribunali non erano disposti a farlo, a estendere la protezione anche a loro. Er le prime tecnologie nuove, il cinema e i dischi, questa estensione seguiva una logica sensata. Come nel casso dei libri, si trattava di oggetti materiali prodotti in copie multiple in uno stabilimento di produzione. Lo stesso sistema che era stato applicato qualche secolo prima alla stampa poteva in sostanza valere. Ma con la comparsa della riproduzione elettronica il concetto è diventato inadeguato. La pubblicazione elettronica è analoga alla comunicazione a voce del diciottesimo secolo, non a quella tipografica dello stesso periodo.
Si pensi ad esempio alla distinzione fondamentale che la legge sul diritto d’autore stabilisce tra lettura e scrittura. Leggere un testo sotto diritti non costituisce una violazione della proprietà letteraria, lo è soltanto copiarla in uno scritto. Come si applica questo principio al terminale di un computer? L’unica maniera di leggere un testo archiviato in una memoria elettronica è visualizzarlo su uno schermo; lo si scrive per leggerlo. Per trasmetterlo ad altri, però, non lo si scrive, si fornisce soltanto una parola d’ordine che dia l’accesso alla propria memoria. Se quindi non si è scritto il testo, la violazione c’è stata?
O si consideri il caso di un programma che generi output computerizzato. Magari il programma opera su dati numerici e genera un resoconto con tendenze di periodo, medie e correlazioni. Magari il programma opera su un manoscritto e genera riassunti prodotti dal computer. Certamente il programma computerizzato che fa tutto ciò è un testo, che per la legge attuale può essere protetto dal copyright. Ma in quale posizione si trova il testo generato dal programma e dal computer? Chi ne è l’autore? Il computer?
L’idea che una macchina sia capace di lavoro intellettuale non rientra nell’ambito della normativa sul diritto d’autore. Un computer può violare il copyright? Il breve, nell'intero processo della comunicazione elettronica appaiono versioni il cui testo è in parte controllato da persone e in parte automatico. Parte del testo non è mai visibile, ma è soltanto memorizzata elettronicamente; parte appare per un attimo su un tubo catodico; parte viene stampata su carta. Ciò che è cominciato come un certo testo varia e cambia per gradi fino a diventare qualcos’altro. Chi lo riceve può essere un individuo chiaramente identificato o un’altra macchina, che non stampa mai il testo, ma utilizza soltanto l’informazione per produrre un’altra cosa. Bisognerà inventare concetti completamente nuovi per compensare il lavoro creativo. Il concetto di copyright basato sulla stampa non funziona più.
Non sto esponendo una tesi catastrofica. Il fatto che le note, le bibliografie, gli schedari e il copyright non avranno senso per la pubblicazione elettronica come l’avevano per i libri e gli articoli stampati (per i quali sono stati concepiti) non vuol dire che l'ingegno umano non possa risolvere il problema. Per molti scopi le versioni canoniche , i cataloghi, e anche i meccanismi di compensazione sono essenziali. Si troverà il modo per garantire almeno in qualche misura queste esigenze, nonostante la situazione fluida dell’elaborazione interattiva conversazionale. Certo non so quale tipo di convenzioni si costituiranno, ma sono sicuro che non corrisponderanno ai concetti attuali.


domenica 15 gennaio 2012

Macchine perturbanti, o automi


A Vienna, nel 1919, nei giorni dell’inizio della fine -la prima Guerra Mondiale è appena terminata, il millenario Impero si è sbriciolato- Sigmung Freud, riprendendo in mano un più vasto saggio che aveva da ani nel cassetto, scrive a proposito dell’Unheimliche. (Sigmund Freud, “Das Unheimliche”, Imago, Band V, Wien, 1919; trad. it. Leonardo e altri scritti, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, I, Boringhieri, Torino, 1969, pp. 267-307).
Riflette attorno a “quella sorta di spaventoso che risale a ciò che ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”.
Poco ci importa che i traduttori italiani abbiano ormai canonizzato una traduzione: perturbante. Questa espressione rende ben poco del tedesco. Unheimlich, nota Freud, è evidentemente l’antitesi di Heimlich, da heim, ‘casa’, e di Heimisch, ‘patrio’, ‘nativo’, e quindi: ‘familiare’, ‘abituale’. E’ ovvio quindi dedurre che “se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare”. E dunque ecco l’inquietante, sinistro, lugubre, sospetto, spaventoso, tenebroso, straniero, estraneo, fonte di disagio, di cattivo augurio, unconfortable, gloomy, ghastly.
Freud nota che ciò che per uno è Heimlich per l’altro è Unheimlich. Così come, possiamo ricordare, seguendo la lezione di Marcel Mauss, il gift è allo stesso tempo dono e veleno: ognuno teme ciò che non gli è familiare, cioè che risulta ignoto e straniero. Ma non basta questo ad avvicinare il mistero dell’Unheimlich. Per coglierlo, ci dice Freud, dobbiamo seguire Schelling. “Unheimlich, dice Schelling, è tutto ciò che avrebbe dovuto restare segreto, nascosto, ed invece è affiorato”.
Ecco dunque che nel Dizionario Tedesco di Jakob e Wilhelm Grimm alla voce Heimlich troviamo, accanto al senso di ‘familiare’, ‘domestico’, ‘natale’: “Heimlich in quanto alla conoscenza”: in questo senso, ci dicono i fratelli Grimm, Heimlich traduce il latino mysticus, divinus, occultus, figuratus. (Jakob e Wilhelm Grimm, Deutsches Wortërbuch, Hirzel, Leipzig, 1877). Sicché, commentano i fratelli Grimm, “Heimlich assume il significato proprio di Unheimlich, come mostra una frase del drammaturgo Friedrich Maximilian Klinger: “a volte mi sento un uomo che vaga nella notte e crede negli spettri; per lui ogni angolo è sinistro (Heimlich) e dà i brividi”.
Anche a casa nostra, anche nella nostra città, nella nostra patria, nel mondo caldo e familiare dove dovremmo essere protetti da ogni pericolo esterno viviamo nel sospetto e nel timore, viviamo nel timore.
Freud, si sa, vuole parlarci dell’inconscio, ma nel farlo ci sta parlando di conoscenza.
L’ Heimlich-Unheimlich “in quanto conoscenza”: una conoscenza che ci è familiare, che ci rassicura e ci offre conferme. E che e al contempo ci è estranea, provoca spavento, contiene qualcosa di inquietante e sinistro che preferiremmo tenere lontano da noi.
Freud -parlandoci da una Vienna che a lui stesso inizia a diventare straniera, e che giorno dopo giorno svela il suo lato tenebroso e sinistro- ci avvicina così a uno dei nodi della cultura del Ventesimo Secolo. Mentre Freud ci invita ad accettare le nostre tenebre, ed il nostro stesso essere stranieri a noi stessi, scienziati e filosofi tentano di definire linguaggi capaci di rendere esplicita ogni oscurità, linguaggi capaci di descrivere ogni cosa.
Progetto mitteleuropeo che sarà centrale nelle Macy Conferences, progetto che vedrà i suoi esiti nel Computing e nell’informatica: tentativo di sostituire all’informe conoscenza una informazione ben controllata e codificata; assoggettata a un canone e ad una autorità, cosicché si possa essere esentati dal dover guardare in terreni ignoti, dal dover prendere in considerazione ciò che appare pericoloso e scandaloso.
Non solo: in Das Unheimliche Freud ci anticipa anche uno dei passaggi chiave del dibattito che animerà negli Stati Uniti le Macy Conferences, tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e i primi anni Cinquanta: il confine tra uomo e macchina. Dove l’uomo rischia di soccombere alla sua inesausta ricerca di scoprire ciò che è segreto -l’ambizione di Faust così come ci è narrata da Goethe- nasce il bisogno di disporre di macchine. Se l’uomo non può sopportare il brivido della paura che coglie chi cerca l’ignoto, il segreto, il troppo difficile, potranno forse andare oltre macchine.
Macchine che superino l’imperfezione umana, macchine antropomorfe. Non a caso Freud ci parla di “figure di cera”, “bambole ingegnose”, “automi”. E del dubbio che “un essere apparentemente animato sia vivo davvero”, e che viceversa “un oggetto privo di vita non sia per caso animato”.