giovedì 6 marzo 2025

Macchinismi computazionali e intelligenza

Computing Machinery and Intelligence: l’articolo di Alan Turing apparso nell’ottobre 1950 sulla rivista 'Mind'. Turing afferma in apertura: “I propose to consider the question: Can machines think?’". La definizione intelligenza artificiale viene coniata cinque anni dopo. Ma l’intero campo di ricerca discende da qui. Dove già nel titolo si propongono le parole chiave: macchina, computazione, intelligenza.

L’articolo, citatissimo, non è in realtà stato letto e studiato abbastanza. Per lo più è noto attraverso riassunti e letture di seconda mano, che presentano interpretazioni scolastiche e semplificate. L’impressione lasciata da queste sintesi appiattisce il senso, tanto da renderne inutile la lettura.

Leggete l’articolo da soli. Se l’avete già letto, rileggetelo. E' chiarissimo, e che ci parla più incisivamente delle prefazioni e dei commenti che lo accompagnano- illumina le stanche e ripetitive discussioni presenti. Non lasciatevi fuorviare dagli 'esperti' che vogliono darvi ad intendere che senza la loro mediazione non potrete comprendere: si capisce tutto molto bene.

Arriverete così a ragionare con la vostra testa sull’affermazione che si trova verso la fine: “We may hope that machines will eventually compete with men in all purely intellectual fields”. Potrete allora chiedervi: condivido questa speranza? Mi riconosco in questo progetto? In cosa il mio pensiero si differenzia da quello di Turing e dei suoi più o meno consapevoli seguaci?

L’articolo, è reperibile con estrema facilità sulla Rete in lingua originale, e in italiano, gratis. Ma ben venga una nuova edizione. Ne è uscita di recente una presso Einaudi, a cura di Diego Marconi.

La traduzione di Marconi è nuova. Ma il titolo - Macchine calcolatrici e intelligenza - resta lo stesso che appariva nella prima traduzione italiana dell'articolo, nell'antologia La filosofia degli automi, a cura di Vittorio Somenzi, Boringhieri, 1965. Il titolo resta uguale nella successiva edizione della raccolta: La Filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale, a cura di Vittorio Somenzi e di Roberto Cordeschi, Boringhieri, 1986, ristampata con prefazione di Damiano Cantone, Mimesis, 2022.

Macchine calcolatrici e intelligenza è un titolo sbagliato. Era un titolo sbagliato nel 1965, nel 1986, nel 2022, e a maggior motivo lo è oggi.

Macchine calcolatrici evoca macchine ben più semplici del calcolatore elettronico. Ma anche l'espressione calcolatore elettronico, che pure Marconi usa nella postfazione dell'edizione Einaudi, è datata e fuorviante.  Principalmente per un motivo: si nasconde la differenza, tra 'calcolo' e 'computazione'

Turing ammette che la assoluta calcolabilità - la descrizione del mondo logico-formale, esatta e priva di equivoci - è inattingibile. La sua risposta a questa impossibilità sta nel definire un universo più ristretto, dove i problemi che la calcolabilità impone sono assenti per definizione: l'universo della computazione.

E' importante discutere e confrontarsi. Ma ogni confronto sarà impossibile se tramite un titolo sbagliato, o chissà volutamente fuorviante, si nega l'argomento del contendere.

Invito quindi a leggere l'articolo di Turing immaginandolo intitolato Macchine computanti e intelligenza. O Macchine computazionali e intelligenza. O Macchinismi computazionali e intelligenza. O, tout court Computer e intelligenza.

giovedì 6 febbraio 2025

'Beyond cyborgs: the cybork idea for the de-individuation of (artificial) intelligence and an emergence-oriented design', articolo apparso su 'AI & Society', 1 febbraio 2025


Cosa è Cybork? Chi è Cybork? Dove sta Cybork


Cybork è Bildung; è complessità irrisolta; forma emergente; sistema sociotecnico; insieme di relazioni, processi, configurazioni fluide e comportamenti. 

Vedevamo distinzioni tra esseri umani e tecniche, strumenti; tra attori e rete; tra enti e loro agire. Nell'immagine del Cybork questi confini convenzionali sfumano fino a cessare di esistere. 
L'immagine del Cybork attingibile resterà approssimativa. 
Il Cybork è incalcolabile; non riducibile ad una descrizione computazionale. Intravvedere il Cybork significa avvicinarsi a scoprire il senso che sta oggi dietro le parola lavoro, dietro la parola work. Avvicinarsi al Cybork significa accettare la stessa nostra appartenenza al sistema che intendiamo osservare e descrivere. 
Accettare il Cybork significa accettare i limiti dello sguardo individuale, sapendo che c'è sempre qualcosa che non siamo in grado di vedere e di percepire. 
Scrivere a proposito del Cybork insieme ad altri umani, prendendo in considerazione altri testi scritti in precedenza da umani, è accettare di essere parte di un Cybork

Questo è ciò che penso in questo istante. 
Essendo il concetto di Cybork complesso, emergente, sfuggente, in un altro istante potrei pensare qualcosa di differente.  

Ringrazio Federico Cabitza -che per primo ha 'visto' il Cybork: con lui ho scritto un precedente articolo a questo proposito- per avermi invitato a partecipare a questo lavoro. Ringrazio Chiara Natali e David Gunkel per il lavoro svolto insieme, lavoro che ha trovato punto di incontro nel testo di questo articolo.
Non pretendo certo che nessuno di loro condivida appieno il mio pensiero, ma spero in nuove convergenze in articoli futuri. 

Per quanto mi riguarda sto ragionando sulle sostanziali differenze che secondo me distinguono il Cybork da altri concetti in apparenza simili: la Human–AI interaction as System 0 Thinking: e la Human-AI Coevolution. E sto scrivendo un articolo -che pubblicherò su Stultifera Navis dove spero di riuscire a mostrare i limiti della Actor Network Theory di Bruno Latour. Limiti che risultano evidenti alla luce di quella che mi appare la svolta chiave del pensiero dello stesso Latour, svolta che trova manifestazione nel suo libro Aramis ou l'amour des techniques. Credo infatti Aramis sia un esemplare Cybork.

venerdì 29 novembre 2024

Turing lo sapeva!

Un accademico, ordinario di Computer Science recentemente uscito di ruolo per età, si  presenta ora su Linkedin come 'etico informatico'. Ha scritto sull'Avvenire un articolo commemorativo nel settantesimo anniversario della morte di Alan Turing 7 giugno  1954. Qui l'articolo.

Riporto qui il commento all'articolo che ho proposto su Linkedin.

Se seguiamo Turing quando dice: "presumibilmente il comportamento intelligente consiste in un allontanamento dal comportamento completamente disciplinato del calcolo"", dobbiamo dedurne che nessuna macchina fondata sulla computazione può essere 'intelligente', perché la computazione è esattamente un procedimento completamente disciplinato dal calcolo. Anzi, Turing ci impone una ulteriore riduzione, un ulteriore allontanamento dall''intelligenza' definita come sopra, dato che la computabilità è per definizione più strettamente disciplinata della calcolabilità.

Turing lo sapeva! Infatti tutto il suo ragionare, nell'articolo "Computer Machinery ed Intelligence", 1950, tutto il suo cercare la macchina che pensa, la macchina intelligente, non è che una mera speranza, umanamente comprensibile, ma priva di fondamenti logici, matematici, o in senso lato scientifici. 'I hope', scrive verso la fine dell'articolo, come tu stesso ricordi: "possiamo sperare che sicuramente nel futuro le macchine competeranno con gli uomini in tutti i settori puramente intellettuali".

La domanda dunque è: perché Turing coltivava questa fideistica speranza? La domanda è anche: perché sono molti oggi coloro che coltivano, seguendo Turing, questa fideistica speranza?

Mi sembra resti aperto anche un ulteriore interrogativo: anche tu coltivi questa fideistica speranza? Perché scrivi: "I recenti progressi dei sistemi di intelligenza artificiale generativa stanno facendo cadere l’ipotesi che siano solo dei 'pappagalli stocastici', basati sul caso. Almeno dal punto di vista fenomenologico alcuni esperimenti hanno invece dimostrato in questi sistemi l’esistenza di scintille di intelligenza".

Tu credi davvero che gli argomenti esposti da Emily Bender in "On the Dangers of Stochastic Parrots" siano infondati, e che invece vada dato credito a quanto scrive Sébastien Bubeck in "Sparks of Artificial General Intelligence: Early experiments with GPT-4"?

Nel complesso, leggendo il tuo articolo, mi sembra che tu condivida la "solenne dichiarazione di fiducia e ottimismo" che attribuisci a Turing.

Perciò mi pare resti una certa contraddizione tra il tuo testo il titolo dell'articolo: 'Così Alan Turing ci mise in guardia dagli inganni delle macchine'. Turing non mette in guardia dagli inganni delle macchine, spera che le macchine pensino!. Forse i redattori dell'Avvenire non hanno capito? O forse, consapevolmente o inconsciamente, si tratta di una presa di distanza da quello che scrivi?

lunedì 14 ottobre 2024

L'informatica è umanistica

Articolo apparso su MagIA il 13 ottobre 2024

L'informatica è umanistica

di Francesco Varanini


Informatica Umanistica o Digital Humanities? Da molte parti sento dire che l'espressione 'informatica umanistica' è orrenda, e che non esiste motivo per non adottare l'espressione inglese, che oltretutto porta con sé un richiamo esplicito alla comune, e per molti definitiva, affermazione del 'digitale' come parola chiave indispensabile per definire la cultura nella quale ci si vuole considerare definitivamente immersi.

Dietro la facile parola 'digitale' continuano però ad aleggiare, lo si voglia o no, altre due espressioni, ben più portatrici di senso: computazione e informatica. Il 'digitale', in effetti, non è che la lettura pop della computazione e dell'informatica.

Ben venga quindi una dizione -informatica umanistica- che mantiene vivo il senso di una storia e che è espressa in lingua italiana. Non è questo il luogo per guardare alle differenze sottili tra 'informatica' e 'computer science'. Basta qui ricordare che i Dipartimenti delle nostre Università si chiamano Dipartimenti di Informatica.

Mi pare anche che in italiano risalti meglio l'ossimoro, l'accostamento di concetti in apparenza tra loro contrari, la giustapposizione di due in apparenza opposti avvicinamenti alla conoscenza. Da un lato l'Informatica, la Computer Science, nuova disciplina. Dall'altro l'Umanistica: l'arte, la letteratura, le scienze umane.

Appare dunque evidente l'ampiezza di senso che alberga nella definizione - e quindi nel campo di studi che la definizione descrive. Come possono stare insieme informatica e umanistica? Come si contraddicono a vicenda, oppure come si imbricano, come contaminano e interlacciano le due aree disciplinari? Cercherò di rispondere mostrando perché 'informatica' e 'umanistica' debbano stare insieme. Non possano che stare insieme.


E' inevitabile iniziare dicendo che l'Informatica Umanistica -o Digital Humanities- designa comunemente un ambito banale. L'informatica umanistica, si dice, si dedica a predisporre strumenti informatici per cultori delle discipline umanistiche: hardware e software ad uso editoriale, di biblioteche e musei; supporti informatici per ricerche storiche, linguistiche, o filologiche. Oppure si pone l'accento sulla divulgazione della conoscenza attraverso media informatici. O ancora si guarda alla codifica digitale di testi prima appoggiati su supporti cartacei; e in genere alla codifica digitale di parole, suoni, immagini.


Se invece prendiamo buono quel luogo, quel confine sfumato che sta tra l'Informatica e l'Umanistica, possiamo avventurarci a proporre un primo tentativo di definizione: l'informatica umanistica è il regno della transdiciplinarità.

Ma la transdisciplinarità è un'arte difficile da praticare.

Basta un esempio. Un concetto fondante dell'informatica è l'organizzazione dei dati sotto forma di albero gerarchico. E' buona cosa cercare di illustrare questa organizzazione logica attraverso analogie attinte dal vasto campo umanistico. Le scelte però finiscono per cozzare con i limiti, forse inevitabili, del quadro di conoscenze dello studioso.

Siccome in una edizione italiana del romanzo di Gabriel García Márquez Cien años de soledad l'editore ha aggiunto al testo, ad inizio libro, un albero genealogico della famiglia Buendía, si prende questo albero genealogico come riferimento tramite il quale mostrare le virtù generali e quindi le applicazioni tecniche dell'hierarchical tree.

Non si può certo pretendere che un docente di informatica sia particolarmente ferrato in temi storico-letterari, critico-letterari o filologici. Ma si dà il fatto che l'albero genealogico della famiglia protagonista del romanzo sia una aggiunta estemporanea del redattore italiano di una singola edizione. L'albero genealogico non compare in nessuna edizione in lingua originale, e tanto meno nella prima edizione dell'opera. Si dà anche il fatto che l'esposizione dell'albero genealogico contraddice le intenzioni dell'autore e la proposta che l'autore rivolge al lettore. García Márquez, al contrario, propone lettore di perdersi in una narrazione dove la sequenza storica, temporale, lineare degli eventi è assente; invita il lettore a rinunciare all'ordine rappresentato dalla gerarchia dei puri passaggi generazionali, e ad immergersi invece nella complessità: tornano gli stessi nomi di battesimo, la figura del nonno si ritrova negli atteggiamenti del nipote, gli antenati sono presenti qui ed ora... Se il romanzo ci offre metafore -e ce le offre- certo non ci parla di gerarchia, ci parla semmai di rete, o della massa di Big Data, aperti alle più differenti connessioni, compresi in un LLM.


Così, la buona intenzione si trasforma in un cattivo servizio.

Altri romanzi avrebbero certo fornito un miglior esempio di hierarchical system. Ma va anche detto che, al di là della letteratura, e dell'inesistente albero di García Márquez, le analogie pertinenti non sono poi così difficili da trovare.

Si sarebbe potuto ricorrere alle rappresentazioni grafiche delle strutture elementari delle parentele offerte dall'antropologia culturale. Ma sopratutto si può ricordare l'esempio principe di rappresentazione sistematica di conoscenze fondata sulla struttura ad albero: il Systema Naturae per Regna Tria Naturae, secundum classes, ordines, genera, species, cum characteribus, differentiis, synonymis, locis di Linneo. Nelle tavole di Linneo troviamo, già pienamente implementate, il hierarchical tree articolato in classi e sottoclassi, il file system, il modello dei dati.

Seguendo Linneo, si può oltretutto ricostruire il percorso che porta a Goethe. Goethe provava un enorme ammirazione per il quadro generale generale e sistematico, universale, proposto da Linneo.

Ma poi, anche sotto l'influenza straniante della lettura di Spinoza, un giorno, nell'orto botanico di Padova, osservando dal vivo un albero, Goethe ha una illuminazione: si rende conto della necessaria esistenza di una differente rappresentazione. La rappresentazione di Linneo è una Gestalt, una struttura ordinata dove ogni cosa sta in un posto formalmente descritto. Esiste un'altra possibile, anzi: necessaria rappresentazione: la Bildung: la forma formante, la forma che sta prendendo forma in questo istante, la forma emergente.

Se è possibile cercare il senso della computer science attraverso per la via della Gestalt, altrettanto può dirsi della via della Bildung.

Ricordando gli aspetti riduttivi e inconsistenti del richiamo approssimativo ad autore e ad una opera letteraria, non si vuole certo gettare la croce addosso a qualcuno. Si vuole solo far presente che molto difficilmente l'auspicato approccio transdisciplinare può essere oggetto di un singolo insegnamento, e molto difficilmente può essere praticato da un singolo docente.

La domanda che si pone è dunque questa: come cercare la transdisciplinarità. Come metterla in campo, come insegnarla.

Verosimilmente, la transdisciplinarità può emergere dal tenere aperto il ventaglio degli argomenti, al di là dei confini disciplinari. E cioè, in università, la transdiciplinarità è il frutto dell'ampiezza degli sguardi disciplinari accolti nei piani di studi.

Scrivo questo avendo in mente la personale esperienza. Ho partecipato più di vent'anni, presso l'Università di Pisa, al decollo del primo -e credo ancora unico- corso di laurea triennale in Informatica Umanistica. Si trattava di un corso Interfacoltà. Era bellissimo vedere lavorare insieme docenti cultori di discipline diversissime, e quindi anche incapaci di intendere l'uno il saper dell'altro. Tutti contribuivano ad una sintesi, o meglio in una apertura, in una disponibilità alla complessità, che si formava e andava crescendo nella mente degli studenti.

Spero che questi stringati accenni siano sufficienti per mostrare come l'informatica umanistica possa offrire un servizio di grande importanza: collocare i concetti, i costrutti che sono il pane quotidiano dei cultori dell'informatica e della computer science nel quadro storico e culturale nel quale i concetti e costrutti stessi sono stati generati e si sono evoluti.

Collocare il pensiero informatico e computazione nel vasto, aperto contesto della storia delle idee significa offrire la via per avvicinarsi alla più profonda e sfumata conoscenza della propria disciplina, al più consapevole dominio dei ferri del mestiere.

E' forse necessaria una precisazione: non si tratta di cercare, lungo una via già molto percorsa, ma foriera di vari fraintendimenti, un incontro tra due culture, la cultura 'umanistica' e cultura 'scientifica' (di cui la computer science fa parte), intese come campi nativamente distinti. Si tratta invece di considerare la scienza stessa (e quindi la computer science) un'arte umana, una specifica via verso la conoscenza, come lo sono la letteratura o la musica.

Accade oggi che i corsi di laurea di Digital Humanities siano incardinati nel quadro di Dipartimenti di taglio umanistico. E che siano concepiti come preparazione a coprire ruoli dove la competenza informatica necessaria è limitata ad elementi basilari e semplificati. Andando per esempi: dall'esperto di biblioteconomia all'esperto di Search Engine Optimization.

Il modo di intendere l'Informatica Umanistica che sto esponendo trova invece collocazione all'interno dei Dipartimenti di Informatica. Perché un certo senso l'Informatica Umanistica che qui propongo può anzi essere intesa la miglior formazione per qualunque professione nel campo della computer science: sia si tratti di impieghi di ambito aziendale, sia di carriere nel campo dell'accademia e della ricerca.

Infatti serve una solida preparazione in meritò ai fondamenti matematica, alla calcolabilità e alla computazione, algoritmi, programmazione... Ma è anche evidente la rapida evoluzione delle tecnologie: ciò che conta è essere preparati a coglierne gli aspetti essenziali e ad apprendere rapidamente. A questo fine, una preparazione umanistica è sicuramente un fattore efficace, un importantissimo acceleratore.

Si può infine ricordare che l'informatica umanistica fornisce un antidoto al comune modo di intendere la figura del computer scientist. Si dice che il computer scientist è impegnato ad interagire con due 'agenti': l'utente e la macchina. L'informatica umanistica riporta con i piedi per terra: il protagonista di questa storia è uno solo: l'essere umano. Nessun essere umano si merita di essere ritenuto passivo 'utente'. L'essere umano che costruisce macchine destinate ad essere usate da altri esseri umani merita una formazione che gli ricorda la sua appartenenza all'umanità. L'essere umano che costruisce strumenti per accompagnare gli esseri umani nella loro ricerca di conoscenza, merita una formazione aperta alla complessità dei processi di costruzione di conoscenza.


mercoledì 21 agosto 2024

L'ultima definizione di intelligenza è sempre la penultima

 Ci sono intellettuali preoccupati, a loro dire, di una certa regressione che si respira oggi nell'aria. Che fanno allora? Intervistano filosofe influenti, originali e stimolanti. (Se volete, leggete qui).

La filosofa dice: avevo scritto che c’era differenza tra un

cervello organico e il modo in cui funziona un computer.

Ma mi sbagliavo! Me ne sono accorta quando ho scoperto l'esistenza dei chip sinaptici!

Ora, folgorata dal chip, la filosofa sa cosa è l'intelligenza - sa che può essere inequivocabilmente descritta tramite una definizione esaustiva, esatta - e sa anche che questa definizione è buona per descrivere sia l'intelligenza umana che l'intelligenza della macchina - che, ci assicura, sono la stessa cosa.

"È inutile negarlo: il cervello e il computer sono in una relazione reciproca e speculare, di mirroring". Dunque: specchiatevi nella macchina per conoscere voi stessi!

Sovviene un dubbio: quando verrà mostrato un nuovo chip alla filosofa, ella si afferrerà allora a nuove certezze?

Torna per fortuna in mente l'antica lezione: filosofia è aletheia: inesauribile tentativo di disvelamento, quindi proprio: esperimento, ricerca di ciò che sta oltre il già definito.

Dunque resta la domanda: dato e non concesso che la definizione di intelligenza fornita dalla filosofa abbia un senso, cosa c'è oltre quell'ambito già descritto?

Le mie capacità, e quelle tue, di te che mi stai leggendo, sono certo modestissime. Magari domani una macchina mi umilierà con i suoi superpoteri. Ma perfino nella mia capacità di pensare c'è qualcosa che travalica i confini segnati da quella definizione!

Nulla di questo sembra interessare a intellettuali e filosofi postmoderni, disinteressati a sondare le tenebre dell'ignoto, a cercare ancora. Ansiosi -o bisognosi- di stare al passo con le glorie dell'ora presente, essi sostituiscono la computazione all'aletheia.

martedì 20 agosto 2024

Overwhelming effect. La complessità ridotta a computabilità

 Se, nell'osservare la scena digitale, dobbiamo, per riflettere sul suo senso, guardare a una parola nuova ne cito una sola: computazione. Ben più digitale, dobbiamo considerarla la parola emblematica, che descrive la situazione che ci troviamo a vivere.

Kurt Gödel, ventiquattrenne finissimo matematico, dimostra nel 1930 che nessun sistema può essere utilizzato per provare la propria stessa coerenza. Ogni sistema è incompleto. Non è possibile giungere a definire la lista esaustiva degli assiomi che permetta di dimostrare tutte le verità. Ogni volta che si aggiunge un enunciato all'insieme degli assiomi, ci sarà sempre un altro enunciato non incluso.

Nel 1936 un altro finissimo matematico allora ventiquattrenne, Alan Turing, risponde a Gödel. Se la calcolabilità - la descrizione del mondo logico-formale, esatta e priva di equivoci - è inattingibile, la risposta sta nel definire un universo più ristretto, dove i problemi che la calcolabilità impone sono assenti per definizione. Turing, in fondo, non fa altro che rinverdire il sistema assiomatico di Hilbert aggiungendo alla sua lista un nuovo assioma: useremo d'ora in poi solo numeri computabili. Sostituiremo alla problematica calcolabilità la rassicurante computabilità.

Nella prima riga dell'articolo è già fornita la definizione: "The computable numbers may be described briefly as the real numbers whose expressions as a decimal are calculable by finite means". Calcolabili con mezzi finiti. Poche righe sotto Turing spiega meglio: "a number is computable if its decimal can be written down by a machine".

La macchina che Turing immagina è costituita essenzialmente da un programma - possiamo chiamarlo anche procedura o algoritmo. Questo programma elabora i dati, espressi in numeri computabili, che gli sono sottoposti. Quali sono i numeri computabili? Sono i numeri che la macchina è in grado di elaborare.

I numeri che la macchina non è in grado di trattare sono esclusi dalla scena. Inesistenti nel Paradiso della Computazione.


L'effetto elettrone

Turing era ben consapevole dei limiti di questa scelta. Nell'articolo del 1950, dove sostiene che il modo di pensare delle macchine computanti, computer, possa essere pari o migliore del mondo di pensare di noi umani, parla di come eventi apparentemente limitati possono avere effetti rovinosi e smisurati [overwhelming effect] in un momento successivo. “Lo spostamento di un singolo elettrone di un miliardesimo di centimetro in un momento può fare la differenza, un anno dopo, tra la morte di un uomo sotto una valanga o la sua salvezza”. L'effetto elettrone di Turing anticipa di più di dieci anni l'effetto descritto dal matematico e meteorologo Edward Lorenz: il battito delle ali di una farfalla in Brasile la condizioni iniziale del sistema. Variazioni infinitesime nelle condizioni iniziali -ben difficilmente calcolabili- producono variazioni grandi e crescenti nel comportamento successivo del sistema. Turing ha dunque ben chiaro il concetto di ciò che chiamiamo sistema dinamico non lineare, sistema adattivo, sistema complesso.

Ma qual'è la sua risposta? La sua proposta è leggere gli stati del mondo attraverso una 'macchina a stati discreti'. La vita è un continuum, un flusso ininterrotto. La macchina a stati discreti si limita a rappresentare il flusso attraverso “sudden jumps or clicks from one quite definite state to another”, salti o scatti automatici da uno stato ben definito a un altro. Si sceglie di ignorare la differenza.

Una proprietà essenziale dei sistemi meccanici che abbiamo chiamato macchine a stati discreti è che questo [l'overwhelming effect] fenomeno non si verifichi”. Dunque: siamo di fronte all'imprevedibilità e all'incertezza. Sappiamo che ogni stato iniziale, difficilissimo da leggere in tutti suoi aspetti, può generare conseguenze caotiche e catastrofiche. Cosa si fa? Si usa, per misurare e controllare il fenomeno, o per simularlo, una macchina a stati discreti, dove il fenomeno non si verifica. Insomma, la proposta è gestire un sistema complesso attraverso un suo modello: un gemello meccanico, non complesso.

La giustificazione di Turing è questa: “una conoscenza ragionevolmente accurata dello stato in un momento produce una conoscenza ragionevolmente accurata per un certo numero di passi successivi”. Insomma, dobbiamo contentarci dei dati di cui disponiamo, sempre limitati e mai sufficientemente accurati; dobbiamo contentarci di una rappresentazione del fenomeno -suo modello, gemello- ragionevolmente accurata, mai perfetta. Sappiamo che il nostro sguardo previsionale non può andare oltre “un certo numero di passi successivi”.

Qui Turing non aggiunge niente: a suo modo lo diceva trecento anni prima Spinoza; e forse a ben guardare l'intera storia della filosofia e della matematica ci parlano di questa incompletezza.

Ciò che aggiunge Turing è il gioco di prestigio di sostituire alla calcolabilità la computabilità, il gioco di sostituire alla difficile osservazione del mondo tramite esperimenti l'affidamento alla rappresentazione del mondo proposta da una macchina detta computer, il gioco di sostituire ai sistemi complessi i sistemi meccanici.

La tecnica e il proprio corpo. La via di Alan Turing e l'opposta via di Marcel Mauss

Propone Leroi-Gourhan in Le gest et la parole: il proprio avvenire, per gli esseri umani ora costretti a convivere con macchine, consiste nello scegliere di restare – o tornare ad essere- sapiens.

Di radici culturali dell'essere umano, di origini della tecnica, e di uso umano della tecnica, parla in una conferenza nel 1934 Marcel Mauss, etnologo francese maestro di Leroi-Gourhan.

L'articolo tratto dalla lezione esce nel 1936.1 Proprio l'anno in cui Turing presenta nell'articolo On Computable numbers l'idea di una computing machine. Fino a ben dentro il Ventesimo Secolo computer non voleva dire altro che essere umano che fa di conto, contabile, computista. Turing, invece, immagina un computer-macchina. Macchina affidabile, macchina che non tradisce mai le aspettative: esegue indefettibilmente il proprio programma.

Quando Turing scrive l'articolo ha ventiquattro anni. Giovane solitario, disperato, vive un'infelice condizione esistenziale. Neonato, è privato della vicinanza dei genitori, che risiedono in India. Vive con fatica la propria omosessualità. Ha sedici anni quando il ragazzo che ama muore. Ama la matematica: non un linguaggio per interagire con altri esseri umani, ma un linguaggio per parlare con se stesso, per cercare la propria purezza.

Le carenze umane, vissute sulla propria pelle, nel proprio cuore, motivano la ricerca di un sostituto non umano. Turing vuole, perché ne ha bisogno, dimostrare che una certa macchina può mostrarsi più affidabile dell'essere umano, più degna di stima, e anche di affetto.

"We may hope that machines will eventually compete with men”, “possiamo sperare che le macchine saranno alla fine in grado di competere con gli uomini”, scrive a trentott'anni -quattro anni prima di togliersi la vita- in Computing Machinery and Intelligence. I due articoli si completano a vicenda. La macchina è la conscio o inconscia proiezione dei bisogni del proprio creatore.

Turing spera che al suo posto viva una macchina. Una macchina matematica, logico-formale, mentale, cartesiana, leibniziana. Priva di sembianze umane. Priva di identità sessuale, di genere indefinito.

La tecnica, così, finisce per essere la via lungo la quale allontanarsi dal proprio corpo.

Mauss propone una via opposta. “Intendo con questa parola il modo in cui gli esseri umani, società per società, in un modo tradizionale, sanno servirsi del loro corpo”.2 Vernadsky, McLuhan e Leroi-Gourhan ci parlano del progressivo allontanamento dello strumento dal corpo dell'essere umano. Mauss torna daccapo: la tecnica è innanzitutto uso del proprio corpo.

“Abbiamo fatto, e io stesso ho fatto per diversi anni, l'errore fondamentale di non considerare che ci sia la tecnica solo quando c'è lo strumento”. Possiamo dire che anche Vernadski resta vittima di questo errore. E lo stesso Leroi-Gourhan, attratto dall'evidente fenomeno, dalla fuga in avanti, dal costante e crescente trasferimento di capacità dall'essere umano allo strumento, finisce per guardare a quest'ultimo, quasi collocando ai margini della scena l'essere umano. Ma Leroi-Gourhan torna poi a interrogarsi sulle sorti dell'essere umano, quando appunto esso vive sulla nuova scena determinata da strumenti e macchine sempre più autonomi e separati da lui. E allora afferma: torniamo a ricordare le radici. Ci spinge quindi a rileggere le pagine di Mauss, suo maestro.

Mauss restituisce la tecnica all'essere umano. Parla di tecniche del corpo.

“Il corpo è il primo e il più naturale strumento dell'uomo. O più esattamente, senza parlare di strumenti, il primo e il più naturale oggetto tecnico, e allo stesso tempo mezzo tecnico, dell'uomo, è il suo corpo”.

Come usiamo le mani nel lavoro e nel gesticolare. Come camminiamo, come corriamo o marciamo. Come nuotiamo moduliamo la voce nel parlare o nel cantare. E anche: come pensiamo – perché l'approccio etnologico, antropologico di Mauss lascia fuori ogni ipotesi cartesiana, ogni separazione tra mente e corpo: la mente, la capacità intellettiva, fa parte dell'essere umano intero.

Ci si apre un nuovo orizzonte: è ben vero che assistiamo ad un progressivo allontanamento dello strumento dal corpo umano. Ma Mauss ci richiama all'origine di questa storia. Storia della vita, della natura, storia umana, e storia personale di ogni singolo essere umano. In origine, ed in ogni tempo in cui l'essere umano è vissuto, ed ancora oggi nei tempi digitali, separarsi dalla tecnica è separarsi da sé stessi.

La tecnica è in origine, ci dice Mauss, “un atto tradizionale efficace”.

Efficacia: verbo latino efficere, ex facere, 'far sì'. La tecnica è produzione di effetti. Tradizione: il latino tradere è trans dare. Dare -e la radice indeuropea do- stanno per 'passaggio di possesso'. Quindi: 'dare attraverso'. Consegnare, affidare, rimettere nelle mani, mettere a disposizione. Trasmettere. Tramandare le conoscenze di generazione in generazione.

“E' innanzitutto in questo che l'essere umano si distingue dagli animali: per la trasmissione delle sue tecniche, e molto probabilmente per la loro trasmissione orale”.

Subissati, annichiliti dalla presenza di strumenti e di macchine, abbiamo finito per dimenticare che la la tecnica nasce dall'intento umano di compiere atti efficaci. Qualsiasi strumento è frutto di questa intenzione.

Mauss ci invita a tornare alla fonte: al momento in cui l'essere umano -in ogni luogo del pianeta che è giunto ad abitare- apprende a compiere atti efficaci. Atti relativi ad ogni fase e ad ogni aspetto della vita.

In origine, l'essere umano non ha ancora in mano uno strumento. Prima di apprendere ad usare un qualsiasi strumento -un bastone, una pietra-, l'essere umano ha verificato la possibilità di usare il proprio corpo.

La tecnica cessa di essere una astrazione. E cessa di essere lontana, inevitabilmente affidata ad una macchina. Mauss ci invita a concepire una tecnica incarnata. Una tecnica continuamente rinascente nel, dal corpo umano.

In questa ottica, la rivoluzione digitale appare come causa di grave deprivazione: ogni conoscenza umana è appoggiata oggi su un supporto digitale, esterno al corpo umano; ogni atto umano sembra dover transitare oggi attraverso la mediazione di un codice digitale, di un programma. L'homo sapiens non può fare a meno di interrogarsi. Subire passivamente o reagire.

Varie sono tecniche dimenticate, perdute forse per sempre. Tecniche, meglio arti: non dimentichiamo che arte e tecnica sono sinonimi.

Una è ricordata dallo stesso Turing, proprio nell'articolo nel quale cerca di dimostrare come una macchina possa pensare: la percezione extrasensoriale. Telepatia, efficacia dei gesti degli sciamani.

Di natura contigua è un'arte ricordata da Mauss. “Alla base degli stati mistici si trovano tecniche del corpo che in tempi moderni sono state dimenticate, e che furono invece perfettamente studiate nella Cina e nell'India in epoche molto antiche”.

Queste antiche tradizioni del Taoismo e dello Yoga non a caso tornano alla luce nei tempi digitali, anche in forma occidentalizzate, in parte magari banalizzate. Le tecniche usate per cercare una mindfulness sono l'esempio più calzante.

Questo ritorno è particolarmente importante: è segno di un risveglio, segno dell'umana intuizione di come di fronte all'incombere di macchine sostitutive serva riscoprire aspetti semidimenticati di sé stesso. Più precisamente: serva riportare alla luce quelle umane caratteristiche che più difficilmente possono essere imitate e simulate tramite una macchina digitale.

Un'arte quasi perduta è certo l'arte della memoria: l'arte di ricordare usando le risorse offerte dal proprio corpo. Significativo è, nel verbo ricordare, il riferimento al cuore: luogo simbolico del corpo umano, sede della sensibilità, dei sentimenti. Sofisticate arti permettevano all'essere umano di conservare conoscenze in una quantità e con una qualità che oggi sembrano definitivamente perdute. L'arte è andata perduta probabilmente, come supponeva Platone, con il sopraggiungere della scrittura: una nuova tecnica che permetteva di affidare la conservazione della conoscenza a un supporto esterno.

C'è qui una lezione da imparare. L'essere umano si trova di fronte dell'Era Digitale a mezzi dotati di una memoria incommensurabilmente superiore alla memoria umana. La battaglia tra essere umano e macchina è ormai persa. Non potremo mai, in ogni caso, conservare conoscenze così come sa farlo la macchina-computer.

Di ciò consapevoli, abbiamo definitivamente rinunciato a fare esercizio della nostra memoria. Abbiamo accettato di ridurre le nostre capacità cognitive. Abbiamo accettato un futuro in cui umane capacità, non usate, si atrofizzeranno definitivamente. Il nostro stesso corpo è destinato ad una riduzione delle proprie funzioni: gli organi sui quali si appoggia la memoria perderanno il loro motivo di esistere.

Eppure il ricordo umano, lo specifico modo umano di conservare conoscenza, mantiene un proprio valore. E si può presumere che non potrà mai essere del tutto imitato e simulato dalla macchina.

Le tecniche del corpo sono una ricchezza alla quale non ci conviene rinunciare. Sono doti, anzi, che diventano più preziose in un mondo popolato da macchine.

Non si tratta certo ora di rinunciare a tutto ciò che l'uso di strumenti e macchine ci offre. Né si tratta di rimpiangere remoti tempi felici. Si tratta di non dimenticare. Così come il ricordare ci riporta al mondo delle emozioni e degli affetti, il verbo dimenticare ci ammonisce: dementicus è in latino un derivato di demens: de, privo di, mens, mente. Ogni essere umano, e poi gli esseri umani riuniti

Si tratta dunque di tornare a sentir viva la tradizione che ci lega agli esseri umani del passato. Si tratta di non guardare solo in avanti, di non vivere auspicando l'arrivo di una nuova macchina alla quale affidarsi. Si tratta di ricordare che ogni sostituzione macchinica di una facoltà umana, è una deprivazione di umanità.

Si tratta di mantener viva la fiducia in sé stessi, nell'essere umano che giorno dopo giorno può imparare a conoscenze di più sé stesso; che può apprendere ad usare in modo più efficace il proprio corpo.

Il grande paradosso che si manifesta nell'Era Digitale è questo: preferiamo le macchine a noi stessi. Invece di porre attenzione al conoscere noi stessi, costruiamo macchine per simulare e imitare ciò che il nostro corpo e la nostra mente sapevano, e in fondo sanno ancora, fare.

Qualsiasi strumento comporta un pericolo: ci porta a dimenticarci del nostro corpo. La comodità dello strumento, ed ormai la consuetudine ad averlo in mano, hanno fatto dimenticare all'essere umano tutto ciò che sa fare - anche senza strumenti.

Secondo vari guru e profeti del digitale siamo entrati in una storia irrimediabilmente nuova; gli stessi guru e profeti, e anche loro illustri precursori, come Teilhard du Chardin e lo stesso Vernadsky, il futuro dell'umanità consiste nel confluire, insieme a macchine divenute a loro modo 'intelligenti', in un indistinto nous -potremmo dire: ogni ente partecipe di una conoscenza disincarnata. Ma alla fin fine, anche accettando la supposizione di una convergenza tra essere umano e macchina, resta per l'essere umano la possibilità, o anzi: la responsabilità, di portare nel nuovo ente quanto più possibile della propria storia, del proprio modo di essere. La nuova scena digitale, e la presenza di macchine a loro modo viventi, ci spinge ad essere umani, con più coscienza e con più volontà.

Così possiamo sostenere, con Leroi-Gourhan, e con Mauss, che il futuro dell'umanità, anche e proprio nell'Era Digitale, consiste nel non recidere le proprie radici, nel rammentare in ogni istante le proprie origini, nel restare nella propria specie, nella propria storia.

Solo conservando nell'agire presente memoria delle origini, solo mantenendo vivi i legami con la tradizione l'essere umano può costruire il proprio futuro. Può costruire un futuro per sé stesso e per la propria specie. Siamo ancora, per nostra fortuna, e ci conviene continuare ad essere, quelle stesse persone. Memori del primo momento in cui l'essere umano assunse la posizione eretta e scoprì le potenzialità implicite nella propria mano e nella propria testa.

E' sempre possibile, come mostra Robinson Crusoe, ricominciare daccapo, ripartire dal proprio corpo, dalle proprie mani e dalla propria testa, dalle proprie capacità, inventando nuove tecniche adatte a mondi inizialmente sconosciuti.

Mauss ci riporta alla scena primaria: di fronte ad una esigenza dettata dall'ambiente, di fronte a un bisogno o un desiderio, l'essere umano cerca una soluzione efficace. Non è una scena da collocarsi in tempi ormai remoti. E' anzi, la scena che riviviamo in ogni istante – anche nei tempi digitali. La via che l'essere umano ha conosciuto, la via che gli ha permesso di ri-generarsi, è di affrontare il problema innanzitutto con il proprio corpo, partendo da sé stessi: da ciò che posso pensare, da ciò che ricordo e da ciò che mi hanno tramandato generazioni precedenti, da ciò che posso fare con le mie mani, da ciò che posso condividere con altri esseri umani. Ripartendo ogni volta da sé stesso l'essere umano si mantiene vivo nel presente e garantisce speranze di vita futura a sé stesso ed ai posteri.

In tempi di macchine potenti ed autonome, è auspicabile recuperare la sensazione del momento iniziale, quando, a mani nude, disponendo solo del proprio corpo, l'essere umano intuisce, scopre, inventa, crea, costruisce.


1Marcel Mauss, “Les Techniques du corps”, Journal de Psychologie, XXXII, ne, 3-4, 15 mars - 15 avril 1936. Communication présentée à la Société de Psychologie le 17 mai 1934.

2 Marcel Mauss, “Les Techniques du corps”, Journal de Psychologie, XXXII, ne, 3-4, 15 mars - 15 avril 1936. Communication présentée à la Société de Psychologie le 17 mai 1934.