lunedì 8 ottobre 2018

Macchina, Engine. Artefatto, Utensile, Strumento, Device

Macchina, Engine. Artefatto, Utensile, Strumento, Device: parole necessarie per arrivare a intendere appieno il senso della parola Computer (che trovate raccontata su questo stesso blog, qui).
Le voci che seguono sono tratte dal libro: Francesco Varanini, Nuove parole del manager. 113 voci per capire l’azienda, Guerini e Associati, 2011.

Macchina
Dante nel Convivio (Trattato Quarto, IX) si interroga -nel quadro ordinatore di Aristotele e San Tommaso- a proposito di cosa è “naturale” e su cosa è “umano”.
Parla dunque delle “maniere d’operazione” per le quali la nostra ragione è predisposta. Ci sono le operazioni che la ragione può considerare, ma non fare direttamente: le cose naturali e soprannaturali e le matematiche. Ci sono le operazioni che la ragione contempla e che traduce in atto, “le quali si chiamano razionali”, come l’arte di parlare. Ci sono infine le operazioni che la ragione considera “e fa in materia di fuori di sé, sì come sono arti meccanice”.
In greco mekhanikós, e in latino mechanicus stanno per ‘inerente alla macchina’. Ecco così in greco la mekhaniké téchne, e in latino l’arte mechanica. In greco attico la parola per ‘macchina’ era mekané. Al latino machina si giunge attraverso il dialetto dorico makaná.
Si trattava di ingegni tecnici usati nelle costruzioni e nei trasporti, e tipicamente in guerra. Ma l’osservazione di questi artefatti che l’uomo stesso aveva costruito, porta a proporre una visione del cosmo come un sistema regolato da leggi e sottratto ai capricci degli dei: è questo il senso della Machina Mundi immaginata da Lucrezio (De Rerum Natura, Libro V, verso 96).
Possiamo dunque collocare la macchina -per come essa era concepita in epoca classica, e poi nel Medioevo- proprio sul confine, che resta sfumato, tra le cose naturali e soprannaturali, le matematiche, e ciò che la ragione umana “fa in materia fuori di sé”.
Non a caso Roberto l’Anglicano scrivendo nel 1271 il suo commento al Tractatus de Sphera Mundi di Giovanni Sacrobosco che “Non è ancora possibile per qualsivoglia orologio seguire il corso del firmamento con completa accuratezza”. Gli orologiai, nota, stanno cercando di realizzare una ruota che dovrebbe fare una rivoluzione per ogni circolo equinoziale, ma non sono riusciti ancora “a perfezionare abbastanza i meccanismi”.
Nel mentre si immaginava la Machina Mundi, comunque, si continuavano a costruire macchine utili per la vita quotidiana. Ne è testimone la macina. La parola, un derivato di machina, usato nel latino parlato, designa la mola del mugnaio.
Mola, così come molinum, derivano dal verbo molere, che discende da una radica indeuropea mele, che sta appunto per ‘macinare’. Da molinum l’inglese mill, che non a caso nel 1800 -ne troviamo traccia nei saggi di Babbage e nei romanzi di Dickens- designava ogni grande macchina.

Engine
A Londra, nel 1800, vive e pensa e inventa un eccentrico genio che vede oltre. Progetta con grande acume -e tenta vanamente di costruire- macchine che oggi chiamiamo computer. In un’epoca in cui le grandi macchine sono comunemente definite mill, alla lettera ‘mulini’, a Babbage viene naturale parlare di engine.

Quando, sul finire del 1837, Babbage descrive nei suoi appunti l'Analytical Engine, la regina Vittoria è salita al trono da pochi mesi. E' la Londra di Darwin e FitzRoy, di Thomas Henry Huxley. La Londra di Dickens, fango e sterco di cavallo nelle strade, fumo che cala dai camini formando una pioggia sottile, morbida e nera. Città in trasformazione: si aprono grandi strade, si scavano fognature e gallerie per la ferrovia metropolitana.
Dickens e Babbage errano legati da amicizia. Ritroviamo Babbage nel nel personaggio di Daniel Doyce, in Little Dorrit (1857) vittima di un Governo poco disposto a sostenere l'innovazione; sconfitto a causa della scarsa protezione legale delle invenzioni.
Ada Lovelace, figlia del poeta Byron, scrive nel 1843 a proposito dell’Analytical Engine.The engine, from its capability of performing by itself all those purely material operations, spares intellectual labour, which may be more profitably employed. Thus the engine may be considered as a real manufactory of figures”. L’engine, in virtù della sua capacità di svolgere da sé le operazioni puramente materiali, risparmia lavoro intellettuale; le capacità umane possono così essere più proficuamente impiegate.
Engine porta con se l’idea di ‘macchina’, certo, e anche di ‘motore’. Ma proprio le caratteristiche innovative del congegno di Babbage ci fanno appare appropriato il termine engine.
Manufactory of figures: potremmo tradurre ‘fabbrica di simboli’ o ‘macchina che produce codice’. Possiamo però anche seguire la suggestione proposta da figura: dal latino fingere ‘plasmare’, da cui anche finzione e fiction. Non c’è in origine in questa idea negazione del reale; l’accento è posto sul creare ciò che non c’è ancora.
Engine, non a caso, discende dalla radice gene, ‘generare’, da cui, genio, genitore, gente, generazione, germe, gene, genetica, indigeno, progenie, nascere, nazione.
Il latino ingenium -da cui anche ingegneria- stava in inglese nel 1200 per ‘espediente’, ma anche ‘macchina da guerra’. Dal 1300, ‘strumento meccanico’, dal 1600 ‘macchina complessa’, poi specialmente steam-engine, ‘macchina a vapore’.
Potremmo forse tradurre congegno, incrocio di ingegnare e combinare. O meglio apparato, apparecchio. Perché il verbo latino parare, ‘produrre’, rimanda ad una radice che -con senso affine all’idea di gene- ci parla di ‘mettere al mondo’.

Artifact
La tékhne della Grecia classica, da cui la moderna tecnica e la modernissima tecnologia, si traduce in latino ars: 'arte', 'mestiere'. Si trova qui un senso che ritroviamo negli arti umani, e anche all'inglese arm, 'braccio', e all'arma -utensile, prolungamento del braccio alle mani. Un riferimento all'agire congiunto della mente e del corpo dell'essere umano. Alla base sta la radice indeuropea are, che -si veda anche anche il greco artys, 'unione'- ci parla di 'articolare', 'ordinare', 'unione', 'adattamento': di qui anche armento: 'insieme di animali'.
L'artefatto è arte factus, ‘fatto con arte’.  L’artifex è dotato di perizia tecnica, conosce il mestiere,
In latino troviamo anche artificium, artificialis, artificiosum. Le espressioni passano alle lingue romanze. In italiano, già ai tempi di Dante il senso è consolidato. Arte: 'attività umana regolata da accorgimenti tecnici e fondata sullo studio e sull'esperienza'. Artificio: 'espediente ingegnoso diretto a supplire alle deficienze della natura'.
In latino artificialis e artificiosum sono sostanzialmente sinonimi. Ma prendono poi nelle lingue romanze un senso divergente, che è utile qui ricordare. In artificiale è implicita l'opposizione al naturale: 'frutto del lavoro umano' – un esempio è la memoria artificiale: artificio, tecnologia, abilità, attraverso la quale greci e latini espandevano la capacità della mente umana di conservare conoscenza, utilizzando come supporto fisico il proprio cervello. In artificioso appare invece l'idea di 'affettazione', 'malizia', 'inutile ricercatezza', cammino lungo una strada che ci porta all'inganno e alla falsità. Chiara la differenza, l'ambiguità resta: la moderna tecnologia è al contempo artificiale -utile prodotto dell’homo faber- e artificiosa -qualcosa che minacciosamente si oppone all’uomo-.
Arriviamo così all'inglese artifact, parola nuova, coeva e connessa a technology. Entrambe si affermano negli Stati Uniti in conseguenza della saldatura tra scienza e industria. Entrambe ci parlano di 'volontaria estensione di un processo naturale'.
Per l'Oxford Dictionary (edizione 1928) l'artifact -o artefact- è ancora, genericamente, “a thing made by art, an artificial product”. Nel Supplement del 1933 la definizione è più precisa: “Anything made by human art and workmanship, an artificial product”. Workmanship: 'lavorazione', 'abilità professionale', 'rifinitura'.
Nel Supplement nel 1987, infine, appare una significativa aggiunta: “in technical and medical use, a product or effect that is not present in in the natural state (of an organism, etc.) but occurs during or as a result of investigation or is brought about by some extraneous agency”.
E dunque, se prima della rivoluzione scientifica e tecnologica del Ventesimo Secolo vedevamo l’artifact come prodotto dell’homo faber, ora lo osserviamo come mera conseguenza di un un processo di continua modifica dell’ambiente – al quale sia l’uomo, sia gli aritfacts già esistenti contribuiscono. 

Utensile
Organo: il latino organum; e, prima, il greco organon, significavano genericamente 'strumento', 'utensile', dalla radice indoeuropea werg-, che esprime l'idea di lavoro (da cui il greco 
érgon, 'lavoro', 'opera' e ergazomai, 'lavorare'; così come en-ergeia, 'forza in azione', 'energia').

L'idea di organo naturale, biologico, è dovuta al fatto che nessuna macchina appariva all'uomo complessa ed articolata come il suo stesso corpo. Forse la macchina più sofisticata costruita nell'antichità classica era lo strumento musicale a canne -macchina, organo per eccellenza.

Protesi, dal francese prothèse, alla fine del 1600 'apparecchio sostitutivo'. Il francese è dal latino tardo e dotto prothesis, 'aggiunta di una lettera all'inizio di una parola', dal greco próthesis, 'esposizione' , 'anticipazione', dal verbo prothítenai, 'porre innanzi', da pro, 'davanti', thítenai 'porre'.

Strumento: dal latino instrumentum, verbo struere 'costruire' (da cui anche structura) a sua volta dalla radice ster 'stendere'.
Dispositivo, dal francese dispositif: 'che prepara', dal latino dispositus, nel senso di ‘preparare al lavoro’, ‘preparare gli strumenti per il lavoro’.
Tool: protogermanico tolan, antico inglese tawian, ancora nel senso di 'preparare'. Strumento per eseguire o facilitare operazioni manuali, attrezzo, arnese.
Attrezzo: nel 1100 in antico francese atrait, alla lettera: 'attratto'. In italiano dalla seconda metà del 1600 'arnese necessario allo svolgimento di una attività'. Attrezzatura: nel 1800 'insieme di strumenti e pezzi di cui è corredata una nave', e poi nel 1900 complesso di arnesi, macchine, impianti destinati uno scopo.Equipaggiamento: dal france équiper, forse risalente allo scandinavo skipa, 'allestire una nave'.
Arnese: provenzale arnes, francese antico herneis, 'armatura del cavallo'.
Herramienta, in spagnolo ‘strumento’, utensile’. Dal latino ferramenta, plurale neutro di ferramentum, ‘arnese di ferro’.
Possiamo forse sintetizzare guardando all’utensile. Nel senso di strumento, arnese da casa o da officina, arriva in italiano nel 1600 attraverso il francese dotto ustensile, che si affianca al popolare outil. In origine, il latino utensilis, aggettivo per ‘utile’, ‘necessario’. E utensilia, ‘cose utili’; dal verbo uti, 'usare' – ma con un senso che resta ampio, ben oltre i confini del lavoro, come si legge in Tito Livio: “divina humanaque utensilia”, ‘oggetti relativi al culto e alla vita’.


Device
Un antichissimo concetto indeuropeo: widhewa significa ‘colei che è priva’, ovvero la ‘vedova’ (ne troviamo traccia precisa nel tedesco Witwe). La radice è weidh, ‘separare’, ‘dividere’, da cui il verbo latino dividere - dove il di rafforza l’idea di sottrazione.
Dividere sta dunque in latino per per ‘separare’, ‘distaccare’, ‘fendere’, ‘spaccare’. Anche per ‘distribuire’, ‘ripartire’, ‘dispensare’. E, in senso lato, ‘abbellire’, ‘far risaltare’, ‘ornare’ - ma anche qui resta sullo sfondo l’antica idea di vedovanza: irrimediabile mancanza, allontanamento dolorosamente subito.
Continuando ad esplorare questo campo semantico segnato dalla privazione, troviamo subito un
altro verbo, derivato da dividere, già usato nel latino volgare: divisare. Di qui l’antico francese, da cui l’italiano. Diviser, poi deviser, dal 1100 ci parla ancora di separazione, ma introduce l’idea di un proposito, una determinazione ad andare oltre: ‘mettere in ordine’, ‘fare la parte di’, ‘condividere’, ‘raccontare’. Quindi: ‘esaminare punto per punto’, ‘esporre minutamente’. E poi: ‘ideare’, ‘immaginare’, ‘inventare’.
Da deviser, nel 1400 devise, ‘azione di dividere’, e dunque segno distintivo, da cui da noi divisa, la veste che serve a distinguere un casato, uniforme che serve a distinguere un esercito. E la divisa nel senso di ‘titolo di credito’, ‘moneta cartacea’.
Prima però, già nel 1200, devis. ‘Separazione’, ma anche ‘disposizione’, ‘desiderio’, ‘proposito’. E quindi: ‘schema’, ‘piano’. Ancora oggi in francese devis è ‘stato dettagliato dei lavori da eseguire con la stima dei prezzi’, ‘preventivo’.
Da qui, nello stesso 1200, l’inglese devise (la grafia devise o device rimane incerta fino alla fine del 1800): maniera in cui qualcosa è divised o framed, con riferimento al progetto. C’è anche un rimando al subdolo, al malvagio. Ma poi anche qui entrano in gioco will, piacere, inclinazione. E quindi device è ‘ingenious or clever expedient’, ‘innovazione’.
Ecco così il ‘congegno destinato ad uno specifico scopo’. Prima meccanico e poi elettronico.
Alla tremenda solitudine della vedova, così come alle divisioni tra persone si risponde divisando: immaginando e realizzando strumenti capaci di aiutare a vivere con agio anche in stato di isolamento; strumenti utili a creare relazioni, oltre la divisione sociale.
Se il digital divide -la divisione, il divario che separa chi dispone di strumenti informatici e chi ne è escluso- si pone oggi come problema, electronic devices alla portata di tutti -calcolatrici tascabili, telefoni cellulari, computer palmari- semplici da usare ed efficaci, si presentano come soluzione. 

domenica 30 settembre 2018

Il mio computer mi dice... Risposta ad una domanda di mia mamma


Mia mamma ha novantasette anni. L'altro giorno mi ha telefonato per chiedermi spiegazioni. Voleva sapere perché "il mio computer" (un iPad) "mi segnala due siti dicendomi che sono i più visitati". Le devo una spiegazione un po' più accurata di quella data al telefono.
Devo cominciare notando che mia mamma dice giustamente "il mio computer mi dice", non distinguendo ciò che nasce dal sistema operativo della macchina stessa, da un software applicativo caricato sul computer, o nasce invece da una connessione. Mia mamma dice giustamente, perché i produttori di hardware e software, i fornitori di sevizi via web, gli sviluppatori di applicativi, gli esperti di User Experience Design -insomma, tutti gli attori che operano sulla scena digitale, salvo rare eccezioni- fanno il possibile per azzerare la differenza tra ciò che accade sulla singola macchina e ciò che accade nell'indistinta nuvola, o cloud che dir si voglia.
Tutto, agli occhi dell'utente, deve apparire come indistinta e complessiva manifestazione della volontà di una macchina. Volontà che si fa di volta in volta più imperativa e pressante. Mia mamma poco tempo fa ha dovuto sostituire il suo iPad con uno nuovo. Il nuovo disponeva di un sistema operativo più evoluto. Mia mamma ha commentato così: è peggio di quello di prima, perché vuole fare di più quello che vuole lui.
E' proprio vero: più passa il tempo, e più 'la macchina' -e intendiamo come già detto l'insieme: il sistema operativo, Google, la singola applicazione, il singolo sito- sempre più propone all'utente scelte obbligate, presentate oltretutto come vantaggiose per l'utente, ma che sono invece vantaggiose solo per il fornitore. Faccio solo un esempio: se casomai un utente, nell'usare Google Map, disinserisce la localizzazione, il software cerca di colpevolizzare, e afferma: non sai cosa perdi! Qualcuno potrebbe argomentare: si tratta di servizi gratuiti. Ma la risposta è facile: Google offre servizi gratuiti come esca per spiare i comportamenti umani e trarne profitto. Moltissimi sarebbero coloro -certamente anche mia mamma- che, correttamente informati, preferirebbero pagare qualcosa per di non essere spiati. Non a caso mia mamma, osservando la posizione dell'utente indicata in fondo alla pagina che restituisce i risultati di una ricerca su Google, si scandalizza, sempre riferendosi, a ragione, al computer, inteso come unica macchina: ma come fanno a sapere dove sono?
Torno alla domanda di mia mamma. Lei, come ho già detto -e dobbiamo darle ragione, anche per motivi che lei ignora- attribuisce il comportamento al computer. Perché il computer le dice che quei due sono i siti più visitati. Come fa a saperlo. E sono davvero i più visitati?
L'informazione proposta, nota giustamente mia mamma, è ambigua. Aveva tutti i motivi per restare meravigliata quando, parlandole al telefono, le ho detto che era una informazione rivolta solo a lei, e che per 'siti più visitati' non si intendevano i siti in generale più vistati, ma si intendevano invecei siti più visitati da lei.
Mi ha chiesto subito: e come fanno a saperlo? Questa domanda apre un mondo: se appena lo si vuole, si potrebbe benissimo spiegare 'come fa il computer a saperlo'. Spiegarlo sarebbe veramente istruttivo. Peccato che i fornitori di hardware e software e servizi web, ivi compresi Apple, Microsoft, Google, Facebook Amazon e WhatsApp, hanno imboccato da tempo la strada che li porta a preferire utenti passivi e ignoranti. Poco importa agli operatori del settore che si finisca così per trasformare la stessa cittadinanza in utenza. Siamo sempre meno cittadini responsabili e sempre più passivi utenti.
Andati oltre il 'come fa il computer a sapere che questi sono i siti che ho visitato più di frequente', emergono altre domande. Mia mamma mi chiede: ma a cosa serve segnalarmi quali sono i siti che visito più di frequente? Ha ragione. Se li visito, vuol dire sono siti che conosco e che saprò ritrovare. Ma il fatto che conosco questi siti non significa che siano gli unici che possono interessarmi. Se sono invitato a tornare sempre lì, non esploro, non apprendo, non cresco, non mi formo.
Ho dovuto spiegare a mia mamma una cosa. Il computer -ripeto per l'ultima volta: il computer inteso come insieme di servizi locali e servizi in cloud- è programmato per spingere le persone a fare sempre le stesse cose, a considerare normale rifare le cose fatte prima, a considerare vantaggioso visitare sempre gli stessi siti.
Coloro che hanno sognato e poi progettato il Personal Computer ed il Web volevano allargare l'area della coscienza, aprire nuovi orizzonti, permettere l'accesso a sempre nuove fonti. E credo che questo abbia insegnato mia mamma nei lunghi anni in cui ha lavorato come professoressa. E questo è lo spirito che ha trasmesso ai suoi figli.
Dunque, giustamente, a mia mamma pare strano che 'il computer' spinga gli utenti a visitare sempre gli stessi siti. Pare strano che il motore di ricerca Google, nel fornire le risposte ad una domanda, e quindi nell'elencare i siti sui quali posso trovare la risposta, consideri tra i motivi per collocare ai primi posti un sito il fatto che ho già visitato quel sito in passato.
Non si vogliono persone che cercano e che si interrogano; si vogliono persone che prendono per buono quello che gli viene proposto. Non si vogliono persone che, di fronte ad una situazione, si formano una opinione; si vogliono persone che, a prescindere dalle situazioni, restano legate ad opinioni già espresse in passato. Non si vogliono persone che coltivano una propria posizione; si vogliono persone che si annullano nella massa.
Per fortuna, per quanto ne so, mia mamma non dà retta ai consigli e ai suggerimenti di Siri, e prova a fare da sola. E non rinuncia a porsi domande. Spero che tutti facciano così. Ma purtroppo vedo una gran passività: si prende per buono ciò che la macchina propone.
Così, mi pare, fanno a anche i 'nativi digitali: subiscono passivamente gli inviti della macchina'. Qualcuno sostiene che da loro dovrebbe prendere esempio chiunque si avvicini alle 'nuove tecnologie'. Credo sia vero il contrario: i 'nativi digitali', non avendo conosciuto il mondo pre-digitale -i libri, l'accesso faticoso alle fonti, la difficoltà di entrare in connessione e stare in connessione con altre persone- sono i più esposti al diventare passivi fruitori di una macchina che, nonostante le sue potenzialità, è stata invece programmata per spingerci a restringere l'area della nostra conoscenza. 

domenica 19 agosto 2018

Il doppio standard etico dei guru del Machine Learning

Godono di pubblica ammirazione coloro che si occupano di Machine Learning. Sia coloro che continuano a lavorare in una Università, sia coloro che hanno preso casa a Google, come John Giannandrea, e Fei-Fei Li, o a Facebook, come Yann LeCun.
Giannandrea, LeCun e Li godono del pubblico riconoscimento del pubblico che passivamente usa Google e Facebook e WhatsApp, sempre bisognoso di guru. E sono celebrati senza riserve dai docenti e ricercatori universitari di tutto il mondo, che sognano di percorrere la loro stessa carriera.
E' un copione che si ripete. Giannandrea e LeCun non cessano di dire ai cittadini che ci vuole più Intelligenza Artificiale, non meno. Può darsi. Ma possiamo credere loro? Possiamo fidarci di loro?
Giannandrea, LeCun e Li, così come i ricercatori di tutto il mondo che invidiano il loro successo, non possono dirci che la loro ricerca è pura. La loro ricerca è chiaramente asservita ad interessi economici e finanziari. Il valore di Borsa del titolo di Google e Facebook dipende dal loro lavoro. Per questo sono remunerati.
Poi ogni sera anche Giannandrea, LeCun e Li, come tutti i loro colleghi, tornano a casa, e accettano magari di fronte a sé stessi di ammettere gli inganni di Facebook e di Google. Magari anche, come cittadini, si indignano per questo.
Capita che tengano conferenze, scrivano articoli per il vasto pubblico, o rispondano alle domande di un giornalista. Si chiama di solito: 'divulgazione'. Salvo rarissime eccezioni, li si vede, in questi casi, giocare con l'ambiguità. Raccontano in parole povere, con comoda superficialità i contenuti del  proprio lavoro,  e poi, in coda, mettono in guardia i cittadini di fronte all'invasiva presenza, alla continua sorveglianza esercitata da Google e da Facebook e di simili attori della scena digitale nella vita quotidiana di ognuno.

Doppio standard: uno standard per parlare all'interno della propria famiglia professionale, tra tecnologi. Un altro standard in quanto cittadini, elettori, padri e madri di famiglia.
Fei-Fei Li, giovane ricercatrice cinese, cresciuta all'interno di una minoranza etnica, madre, sembra in apparenza disposta, nelle sue frequenti apparizioni sui mass media, a un atteggiamento critico. Parla volentieri con dovizia di come sia importante annoverare tra chi si dedica  al lavoro di ricerca consapevoli esponenti di minoranze sociale e consapevoli madri, con i figli e la famiglia sempre in mente, anche nel tempo di lavoro. Ma si guarda bene dal dirci come questa consapevolezza si manifesta nel lavoro. Si guarda bene dal dirci cosa -memore dell'appartenere a una minoranza e in quanto madre- si rifiuta di fare nel suo lavoro di ricerca.
Doppio standard. Di ciò che si fa come ricercatori si risponde solo di fronte alla comunità dei ricercatori. Ciò che si pensa e si fa in quanto cittadini si ferma sulla soglia del luogo dove si svolge la ricerca. Avremmo bisogno invece di tecnologi e progettisti che, prima di sentirsi tecnologi e progettisti, si sentono cittadini.

Giannandrea, LeCun, Li e tutti i loro epigoni credono di avere buon gioco appellandosi alla Scienza. Noi, dichiarano, siamo ricercatori scientifici. E quindi meritiamo di godere di finanziamenti pubblici o privati alla ricerca, e del riconoscimento sociale di cui gode lo scienziato.
Ma così facendo  ed i loro epigoni capziosamente dimenticano che i ricercatori scientifici indagano sulla natura. Il loro compito consiste nello scoprire come funziona la natura, risiede nel portare alla luce le 'leggi della natura'.
Ogni computer scientist, invece, ed in particolare il computer scientist che agisce nel campo del Machine Learning, non osserva la natura, ma pretende invece di creare una nuova natura. Una natura digitale. Il computer scientist non scopre leggi. Scrive leggi. 

Se vogliamo restare sul piano degli esempi banali, ma giustificati, possiamo dire che la sua responsabilità ha più punti di contatto con la responsabilità dell'ingegnere che con quella dello scienziato.
Se poi vogliamo accettare Giannandrea, LeCun e Li nella comunità degli scienziati, viene buono ricordare una esemplare vicenda del Ventesimo Secolo: la ricerca scientifica nel campo della fisica, che si traduce nella progettazione della bomba atomica e della bomba all'idrogeno.
La vicenda, grandemente istruttiva, è nota. Ma purtroppo si sa che la storia della scienza non ha grande spazio nella formazione degli scienziati in genere; e ancor meno ne ha nella formazione dei computer scientist.

Basta qui citare in estrema sintesi le opinioni di due protagonisti: Robert Oppenheimer e Edward Teller. Sono entrambi scienziati, fisici. In linea di principio la loro posizione coincide. "If you are a scientist you believe that it is good to find out how the world works; that it is good to find out what the realities are", dice Oppenheimer. Il job dello scienziato, conferma Teller, consiste in "to find out how these laws operate. It is the scientist's job to find the ways in which these laws can serve the human will".
Oppenheimer -in virtù del suo sguardo interdisciplinare, e della sua capacità di sintesi- si trova ad essere nel 1942 il direttore tecnico del progetto Manhattan, il cui lavoro porta, nell'estate del 1945, al lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Poi, di fronte all'ancor più distruttiva bomba nucleare, si ferma, scegliendo di non partecipare al progetto. Al suo posto sta ora Edward Teller, che sostiene: "it is not the scientist's job to determine whether it a hydrogen bomb should be used, or how it should be used. This responsibility rests with the American people and their chosen representatives".
Ecco qui, pienamente affermata, la comoda posizione: noi siamo scienziati, non cittadini. L'essere cittadino di Teller si risolve nell'eleggere qualcuno. Fatto questo, "back to the laboratories", dove "as a scientist, I am troubled by other questions, more limited, more specific, but not less urgent and not less harrassing".
Oppenheimer argomenta diversamente: "we are not only scientists; we are men, too". "The value of science must lie in the world of men", "all our roots lie there". C'è un legame più forte, più profondo di quello che lega i membri della comunità scientifica, c'è un deepest bond, "that bind us to our fellow men". Fellow: 'companion, comrade, partner, one who shares with another', con riferimento a un legame soggiacente. Fellow men: io, tu, noi, quale che sia il ruolo professionale, siamo innanzitutto esseri umani; apparteniamo alla comunità degli esseri umani.

Teller aggiunge una considerazione che appare ovvia: "The scientist is not responsible for the laws of nature". E' ovvio, appunto, ma si coglie nelle sue parole il chiamarsi fuori dalla comunità dei cittadini responsabili. Lo scienziato di Teller ha una doppia giustificazione al non assumersi responsabilità: perché, chiuso nel suo laboratorio, lo scienziato pensa di poter dimenticare le responsabilità del cittadino; e perché, anche nella sua ricerca, è irresponsabile: le responsabilità sono tutte della natura.
Giannandrea, LeCun e Fei Fei Li sono lontani da Oppenheimer, e vicini invece a Teller. Come Teller, giocando la facile partita del doppio standard, si spogliano delle loro responsabilità di cittadini sulle porte del laboratorio.
Come Teller vorrebbero anche loro fare appello alle leggi di natura, per attribuire ad esse ogni responsabilità. Nel loro caso sostenere l'assenza di responsabilità per i risultati della ricerca è ancora più difficile di quanto lo sia per Teller. Loro non scoprono leggi di natura; creano una nuova natura.

Fonti:
Robert Oppenheimer, Speech to the Association of Los Alamos Scientists, Los Alamos, New Mexico, November 2, 1945.
Edward Teller, Back to Laboratories, in Bulletin of Atomic Scientists, VI, 2, 1950, pp. 71-72.

sabato 3 marzo 2018

Essere digitale. Cosa vuol dire

Digitale: abusata espressione che troviamo, di questi tempi, condita in tutte le salse.
Al giorno d'oggi, sembra che ogni persona ed ogni azienda debba cercare di diventare sempre più digitale. Ma cosa significa veramente essere digitale?
Per alcuni, è una mera questione di tecnologia. Per altri, è un modo completamente nuovo di intendere il business. Per altri, essere digitale è un nuovo modo per essere in contatto con i clienti. Per altri è una riconfigurazione della scena politica. Nessuno di questi modi di intendere è sbagliato per se, ma ciascuna di esse è solo parzialmente corretta.
La voce degli esperti chiama ognuno ad una digital transformation. Si preferisce anzi dire, in modo più apocalittico: digital disruption. Sentiamo affermare con insistenza: la politica, l'economia, la produzione, la finanza, il marketing, tutto è cambiato. I mezzi di comunicazione di massa, il più delle volte con la loro consueta superficialità, ripetono il luogo comune. Il mondo non è più quello di prima.
Ma appunto, cosa vuol dire digitale? Digitale, di per sé, non vuol dire altro che numerico. I computer, si sa, sono macchine digitali: trattano dati espressi in forma numerica. Quindi digitale vuol dire: 'dipendente dall'uso di computer', o 'legato all'uso di computer'. Si parla non a caso di cultura digitale. Fin quando ad usare i computer erano esclusivamente tecnici specialisti, i riflessi sociali, economici, politici della diffusione di queste macchine risultavano poco visibili. Ma oggi ogni cittadino del pianeta, ogni essere umano, possiede un computer, lavora tramite un computer, intrattiene relazioni sociali tramite un computer. Perché sono computer, lo sappiamo bene, non solo le macchine da tavolo, ma anche i portatili, i tablet, gli smartphone.
Being Digital, di Nicholas Negroponte, esce nel 1995. E' la raccolta delle sue rubriche apparse sulla rivista Wired, la bibbia della nuova cultura. Rivista pubblicata non a caso a San Francisco, a pochi chilometri dallo Stanford Research Institute: centro di ricerca che dagli Anni Sessanta prepara questa rivoluzione. Nei dintorni nasce quel mitico luogo di innovazione che chiamiamo Silicon Valley. Scriveva Louis Rossetto, co-fondatore di Wired, sul primo numero della rivista (marzo-aprile 1993): "the Digital Revolution is whipping through our lives like a Bengali typhoon".
Sono passati più di venti anni, le nostre vite sono davvero cambiate in modo significativo. Ma siamo ancora qui a chiederci in cosa consista veramente questa rivoluzione.
Più che una rivoluzione, direi intanto, è una evoluzione di lungo periodo. Gli insistenti proclami che ascoltiamo in questi ultimi anni non sono che una ripetizioni di quanto scrivevano Negroponte, Rossetto, Kevin Kelly negli Anni Novanta. Ma a loro volta i profeti degli Anni Novanta non facevano altro che riprendere ciò che negli Anni Sessanta scrivevano -e concretamente progettavano-  i veri padri della cultura digitale: Ted Nelson, Douglas Engelbart, Stewart Brand, JCR Licklider. Dobbiamo a loro Personal Computer, Internet, Social Network, ipertesti. La cultura digitale è la traduzione in tecnologia del clima di quegli anni: Nuova Frontiera, clima libertario, pacifista, youth revolution, controcultura, rivoluzione come allargamento della coscienza.
Being Digital, tradotto in italiano nello stesso anni in cui uscii in edizione originale, '95, aveva per titolo: Essere digitali, al plurale. Essere digitale o essere digitali? Sottile ma significativa differenza. Il plurale suggerisce l'idea di una massa di persone che transitano collettivamente, ed in fondo passivamente, ed in modo indistinto verso l'uso di strumenti digitali. Il singolare, invece, esclude l'idea della massa indistinta: ogni singola persona ha la possibilità di essere digitale a suo modo; traendo dagli strumenti la possibilità di essere più più creativo, più informato, più responsabile.
Alle due idee corrispondono due diverse maniere di intendere politicamente tempi del digitale.
In un primo caso, narrato dal plurale, ci si arrende -noi tutti costretti ad essere digitali- ad una sconfortante evidenza: la vita di ogni cittadino, esplicata tramite l'uso di computer, si traduce nel lasciare tracce digitali. Queste tracce, che chiamiamo dati, finiscono per essere la fonte e la base di ogni processo decisionale. La classe politica conoscerà i comportamenti dei cittadini attraverso i dati. Il manager conoscerà i clienti ed i lavoratori impegnati in azienda attraverso i dati. In fondo, una nuova  schiavitù.
Ma dimentichiamo così l'approccio al digitale singolare e personale. Anche in presenza della minaccia di un costante furto di dati, anche in presenza di app che ci offrono insipide pappe pronte, possiamo coltivare quelle speranze che muovevano gli innovatori degli Anni Sessanta. Essere digitale è allargare l'area della propria coscienza. Disponiamo oggi di strumenti che permettono ad ogni cittadino di conoscere, di essere al centro del mondo: possiamo scrivere il nostro blog, possiamo connetterci con chiunque, possiamo partecipare a progetti cooperativi... Si tratta di imparare ad usare gli strumenti. Si tratta di scegliere tra strumenti che ci rendono passivi e succubi e strumenti che ci rendono più liberi e consapevoli e solidali.
La rivoluzione digitale può essere intesa in questo modo: un nuovo territorio che ha del meraviglioso - ma sul quale dobbiamo imparare a muoverci.