venerdì 26 novembre 2021

Sempre a proposito di critica politica del digitale. I mezzi e i luoghi del nuovo potere

Non dobbiamo farci trarre in inganno. Una comune narrazione porta a considerare luoghi critici della politica digitale i bit e il cloud.

Ma guardando a questi concetti, abbagliati dalla loro apparenza, dalla patina esoterica delle parole nuove, restiamo lontani dall'avvicinarci all'intendere la base materiale del potere esercitato per via digitale.

I bit sono solo uno degli aspetti del codice. Possiamo smascherare l'apparente significato politico del bit attraverso lo studio del codice. Il codice va osservato come sovrapposizione di tre aspetti: supporto, linguaggio, testo. Il bit non è altro che scrittura sul supporto. Guardando al bit non cogliamo il luogo dove si esercita il potere digitale, consistente nella sottrazione all'essere umano dei frutti del proprio lavoro e della propria conoscenza.

Il cloud nasconde, dietro la sua così ben propagandata apparenza volatile, aerea, il luogo fisico. Il cloud è una architettura la cui base materiale è la Server Farm (o Data Center). Enormi magazzini di conoscenze prodotte da esseri umani, ben presenti sulla Terra, ma cancellate dalle mappe. Nella Server Farm ronzano, perpetuamente accese, macchine fisiche e supporti di memoria fisici, detenuti da Padroni del Digitale. Cloud, espressione nuova, nasconde la realtà politica del Mainframe, la macchina 'centrale' che tutto contiene, o della rete Client/Server. Dove il Server, macchina padrona, contiene tutto e determina tutto. Mentre la macchina nelle mani dell'essere umano è progressivamente svuotata e svilita.

Conosciamo praticabili alternative politiche all'architettura Client/Server. La più radicale è il Peer-to-Peer. Non è utopia: un progetto politico da considerare è Bitcoin-Blockchain.

Il bit è uno strato impolitico. Il cloud è una apparenza venduta all'utente. La comunemente accettata idea di dematerializzazione nasconde un inganno: in ogni architettura digitale resta presente la base materiale, nascosta però al cittadino ridotto a utente.

I luoghi politici a cui conviene guardare per una critica della politica digitale non sono il bit ed il cloud. Sono il dato e la piattaforma. Al di là delle parole, spiego cosa intendo.

I dati sono conoscenze frammentate, impoverite, separate dalla fonte e oggetto di appropriazione da parte dei Nuovi Padroni Digitali. Solo studiando i dati -la loro voluta frammentazione, la loro conservazione, il loro uso- possiamo indagare sul processo -politico ed economico- di sottrazione all'essere umano dei frutti del proprio lavoro e della propria conoscenza.

Le piattaforme sono istituzioni totali, artificiali, sostitutive dei luoghi sociali e terreni, di proprietà privata -una proprietà che sfugge al controllo pubblico degli Stati e degli organismi internazionali- capaci di propria produzione normativa e di controllo sociale. Dietro ogni piattaforma sta una Server Farm proprietaria, occultata agli sguardi non solo dei cittadini ma anche di ogni organismo di controllo pubblico.

Sulle piattaforme i cittadini sono ridotti a utenti di servizi preconfezionati. Servizi che occultano uno scopo implicito: sottrarre -sotto forma di dato- ciò che è frutto del lavoro e del pensiero umano.

(Parlo di piattaforme in vari altri luoghi. Tra cui questo).

lunedì 8 novembre 2021

Zuck colpisce ancora

Giovedì 16 febbraio 2017 David Zuckenberg pubblica su Facebook un lungo post dal titolo Building Global Community. Più che il Discorso dell'Unione di un Capo di Stato, è l'enciclica, la lettera pastorale del Papa di un Chiesa Universale. 

Nel testo, la parola infrastructure appare alla quinta riga, e poi altre ventiquattro volte. "In tempi come questi, la cosa più importante che noi di Facebook possiamo fare è sviluppare l'infrastruttura sociale per dare alle persone il potere di costruire una comunità globale che funzioni per tutti noi".

L'Infrastracture è definita con impegnativi aggettivi: social, meaningful, global. Altrettanto impegnativi gli aggettivi usati per definire le Communities nelle quali gli esseri umani meriterebbero di vivere: supportive, safe, informed, civically-engaged, inclusive.

Alla fine, salutando i lettori con il solo nome, Mark, senza cognome, come un vero Papa, Zuckenberg ringrazia: "Thank you for being part of this community". Possiamo leggere: Thank you for il vostro vivere dentro Facebook, The Infrastructure.

Zuckenberg, giovanotto viziato, reso delirante dal potere, rivolgendosi ad ogni essere umano, arrogandosi il diritto di  parlare a nome di ognuno di noi, chiama a partecipare alla costruzione dell'Infrastructure, "il mondo che vogliamo per le generazioni che verranno”. (1)1

Fingendo di dimenticare che Facebook è piattaforma già costruita, alla cui costruzione nessuno di noi può partecipare; un luogo dove il cittadino è ridotto a utente.

La possibilità, offerta ad ognuno, di caricare su Facebook i propri materiali non è, come potrebbe apparire a prima vista, un’apertura alla partecipazione e alla condivisione dei saperi. Il knowledge di cui ogni essere umano è autore è ridotto a content, cosa che è costretta dentro, rinchiusa, forzata nei confini di una Infrastructure già costruita. E in base a regole opache, ed in ogni caso imposte d'autorità, Zuckerberg ha deciso che quel knowledge non è più dell’essere umano che l’ha prodotto, ma suo. Come anche la storia di vita del cittadino: ogni gesto, ogni parola diviene un dato che Zuck userà come gli pare.

La nuova terra promessa del Metaverso

Facebook instupidisce, ma non tutto è perduto se i cittadini reagiscono ancora, e mostrano segni di disaffezione per Facebook e per le mirabolanti promesse di nuova democrazia del giovanotto. Ma ecco che allora, all’inizio dell’estate 2021, Zuckerberg, vista la mala parata, rincara la dose, lanciando il progetto del Metaverse.

Se siete stufi di Facebook, ecco la nuova terra promessa: un mondo virtuale, una realtà aumentata dove sarà possibile “sperimentare un senso di presenza molto più forte” di quello offerto da social network e piattaforme. Un mondo “più naturale”, “più confortevole”.

"Quello che mi entusiasma è aiutare le persone a sperimentare un senso di presenza molto più forte" di quello offerto oggi da social network e piattaforme. "Le interazioni che avremo saranno molto più ricche". In futuro, invece di limitarti a telefonarmi, "potrai sederti come ologramma sul mio divano"; "e sembrerà davvero di nello stesso posto, insieme”, "anche se ci si trova in stati diversi o a centinaia di chilometri di distanza". (2)2

La novità è ufficialmente sancita il 28 ottobre 2021in una nuova lettera enciclica, rivolta al popolo del pianeta dal Sovrano Illuminato. (3)3

Ora Zuckerberg non offre solo spazi di libertà, luoghi di incontro mediati dalla scrittura e dalla lettura dei poveri post di Facebook e di WhatsApp, delle immagini e dai video di Instagram. Ora offre, molto modestamente, un nuovo mondo e una nuova vita.

“Nel Metaverso, sarai in grado di fare quasi tutto ciò che puoi immaginare: stare insieme ad amici e familiari, lavorare, imparare, giocare, fare acquisti, creare, nonché vivere esperienze completamente nuove”. “Sarai in grado di teletrasportarti istantaneamente come un ologramma per essere in ufficio senza fare il pendolare, a un concerto con gli amici o nel soggiorno dei tuoi genitori”. “Sarai in grado di dedicare più tempo a ciò che conta per te, ridurre il tempo nel traffico e ridurre la tua impronta di carbonio”. (5)4

E aggiunge: "Non costruiamo servizi per fare soldi; facciamo soldi per costruire servizi migliori". Come ogni narciso prigioniero del proprio ego, cita qui se stesso: ci ricorda che aveva pronunciato questa frase nel 2012, invitando gli investitori a comprare azioni Facebook. (5)5 Ora invita ad investire in Meta.

La forza di Zuckerberg sono i suoi seguaci

Non so se qualcuno riuscirà a fermarlo. Vedo un problema.

Nel 2017 si era diffusa la voce che Mark Zuckerberg si preparasse a candidarsi, nel 2020, come presidente degli Stati Uniti. Non era vero. Zuck non ne aveva bisogno. Ci sono motivi per sostenere che il suo potere asimmetrico di padrone di piattaforme sulle quali i cittadini del pianeta sono costretti a vivere è più grande del potere del presidente americano.

Il problema è che conosco diversi esperti, profeti della Digital Transformation, Innovation Manager, Business Designer, Business Futurist: loro considerano davvero Zuckerberg il Presidente, la guida che apre la strada. La forza di Zuckerberg sta in questi seguaci – che con lui in questi giorni si leccano i baffi pensando ai nuovi guadagni che potranno conseguire attraverso una gabbia imposta ai cittadini, un falso mondo, ben più pericoloso di Facebook.

1Mark Zuckerberg, “Building Global Community”, https://www.facebook.com/ notes/mark-zuckerberg/building-global-community/10103508221158471/.

2Casey Newton, "Mark in the Metaverse. Facebook’s CEO on why the social network is becoming ‘a metaverse company’", The Verge, Jul 22, 2021: https://www.theverge.com/22588022/mark-zuckerberg-facebook-ceo-metaverse-interview.

3Mark Zuckerberg, Meta Founder’s Letter, 2021, October 28, 2021, https://about.fb.com/news/2021/10/founders-letter/

4Ibid.

5Matt Rosoff, “Mark Zuckerberg's Letter To Facebook Investors”, Insider, Feb 1, 2012. https://www.facebook.com/businessinsider/posts/we-dont-build-services-to-make-money-we-make-money-to-build-better-services/10152583593614071/

Articolo apparso su Parole di Management l'8 novembre 2021.

mercoledì 27 ottobre 2021

Realtà Aumentata come distruzione sociale

 Ricordo un incontro a cui ho partecipato durante il distanziamento obbligatorio causato dal virus. Incontro online, ovviamente. Tra i partecipanti, docenti universitari, persone convinte del proprio ruolo e della propria autorevolezza - in realtà per le prime volte esposte alla novità della connessione via piattaforma digitale.

Uno di loro si rivolge all'organizzatore, un imprenditore, e gli dice: 'Apprezzo l'organizzazione dell'incontro in questo momento difficile, è bello trovarci qui insieme nonostante il difficile momento. Peccato però che la relazione tra di noi sia penalizzata dalla povertà del mezzo. Auspico una futura situazione in cui possiamo trovarci insieme in modo più empatico, caldo'. Pensavo questo autorevole personaggio pensasse ad un incontro dal vivo, presenti insieme in carne ed ossa. Ma no, mi accorsi che si trattava di un invito all'organizzatore, affinché una prossima volta convocasse l'incontro su una piattaforma più performante, dove ognuno di noi fosse presente tramite un proprio avatar, un simulacro digitale, una apparenza tridimensionale. Forse aveva letto la pubblicità di una di quelle soluzioni tecnologiche e promette di creare mondi in cui interagire e comunicare, vivendo 'esperienze immersive molto simili a quelle della vita reale; ma migliori, più intense, delle esperienze della vita reale'.

Più comodo, più naturale, più reale

Ed ecco che verso la fine del giugno 2021, quando ormai la necessità di incontrarsi online viene meno, e torniamo in ogni luogo del pianeta ad incontrarci dio persona, tempestivo scende in campo Mark Zuckerberg.

Facebook è ormai lontana dai tassi di crescita vorticosa di anni precedenti, nuovi social network appaiono sulla scena, non bastano le sinergie con Instagram e WhatsApp, emergono problemi di privacy e l'opinione pubblica si fa più critica sui temi della privacy. Così, all'inizio dell'estate, Zackerberg lancia il suo Metaverse. Se si è stufi di Facebook, se si considera troppo povera l'interazione offerta dalle piattaforme di videoteleconferenza, ecco la nuova terra promessa: il Metaverse.

Dopo le tante riunioni di lavoro nell'ultimo anno, "faccio fatica a ricordare in quale incontro qualcuno ha detto qualcosa, perché le persone sembrano tutte uguali e si fondono tutte insieme". "Quello che mi entusiasma", afferma sorridente Zuckerberg, "è aiutare le persone a sperimentare un senso di presenza [sense of presence] molto più forte" di quello offerto da social network e piattaforme. Ed anche, aggiunge, "più naturale", "più comodo [comfortable]". "Le interazioni che avremo saranno molto più ricche, sembreranno reali [they’ll feel real]". In futuro, invece di limitarti a telefonarmi, "potrai sederti come ologramma sul mio divano"; "and it’ll actually feel like we’re in the same place", sembrerà davvero di nello stesso posto, "anche se ci si trova in stati diversi o a centinaia di chilometri di distanza".1

Così, conclude Zuckerberg, “mi aspetto che nel giro di cinque anni le persone ci vedranno non come un’azienda di social media, ma come una compagnia del metaverso”. Nel mentre lo descrive come un 'Internet incarnato', Zuckerberg annuncia che stanzierà 50 milioni di dollari per il suo sviluppo.

Quello che mi colpì di quel professore fu la superficialità, l'accondiscendenza con cui tutto ciò che viene presentato come innovazione: la soluzione di ogni problema affidata alla tecnologia; il dire: non si può tornare indietro: adottata una tecnologia, l'unica possibilità è passare ad una più potente. La tecnologia come imbuto nel quale va incanalata la vita. La realtà ridotta a simulazione.

Quello che mi colpisce di Zuckerberg è il cinismo. Il suo approfittare del momento, della contingenza. C'è certamente l'abilità imprenditoriale. C'è la capacità di approfittare di una esperienza da tutti diffusa: l'insoddisfazione per la qualità delle interazioni permesse dalle piattaforme usate nel tempo del distanziamento sociale obbligatorio.

Ma sgomenta l'imposizione di un disegno politico e sociale. La pretesa di sostenere di conoscere cosa è bene per i cittadini del pianeta. E la confusione tra cosa è bene per i cittadini e cosa è bene -ovvero: utile- per lo stesso Zuckerberg. Aggiungo che, ovviamente, Zuckerberg non è che il campione, l'esponente esemplare di una generazione di imprenditori, o come molti amano definirsi: business designer. Il che nei tempi digitali vuol dire: disegnatori di mondi nei quali non loro, ma ogni altro essere umano, dovrà vivere.

Realtà Virtuale, Realtà Aumentata

So bene che tecnici e studiosi del settore saliti in cattedra a cavillare sono pronti con la matita blu: Virtual Reality non deve essere confusa con Simulated Reality e Augmented Reality.

Ma vi invito a lasciar perdere queste sottigliezze: infatti, senza farsi tanti problemi, Zuckerberg parla di sense of presence senza definire il concetto, parla di genericamente di qualcosa che appare naturale, che sembra reale. E mette insieme senza minimamente preoccuparsi di distinguerle, Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Ma va sottolineata una differenza. La Realtà Virtuale è una realtà non fisicamente esistente ma fatta apparire via software; un mondo artificialmente costruito, nel quale il cittadino ed il consumatore sono invitati ad entrare. La Realtà Aumentata, invece, è una contaminazione, una corruzione della realtà quotidianamente, socialmente, liberamente vissuta dagli esseri umani.

Vivo le mie esperienze quotidiane, ma ora non sono più libero di viverle come persona libera. Sono costretto a viverla tramite la mediazione di un software, di un qualche algoritmo costruito da un tecnico.

Bastano due esempi.

Il primo. Sono per strada e uso Google Map. Inizialmente il supporto di Realtà Aumentata mi appare un supporto a muovermi più efficacemente, in base alle mie scelte. Ma presto lo strumento nelle mie mani si trasforma in uno strumento che tramite gentili spinte mi induce a muovermi in certi modi, e ad osservare in mondo in una maniera che è frutto di un progetto altrui, e I miei desideri, i miei sogni, le mie scelte di utilità sono messe in secondo piano, svilite o censurate.

Si deve poi aggiungere che la Realtà che si presenta come semplice 'aumento' dello stato del mondo, finisce poi per prendere il sopravvento: crediamo di muoverci nello spazio della nostra città, e invece ci muoviamo dentro la rappresentazione di quello spazio costruita dai tecnici di Google. Accade già a noi quello che accadrà in ogni caso all'auto a guida autonoma: visto che guardiamo la mappa di Google e non il terreno che abbiamo intorno, se c'è una buca nella strada questa dovrà essere registrata sulla mappa digitale, di proprietà di Google. C'è qui, anche, un significativo risvolto politico: ciò che è un bene pubblico, in virtù della Realtà Aumentata, finisce per divenire privato.

Il secondo. Sono in un museo. Mi nutro della bellezza che ho intorno. Scelgo quale quadro guardare, e come. Scelgo il percorso. Scelgo dove e quando fermarmi, quando sedermi, in base a considerazioni estetiche e anche a privatissime sensazioni, come la stanchezza del momento, o a considerazioni legate al tempo a disposizione. Certo, posso anche seguire i suggerimenti di una guida, una persona in carne ed ossa, un essere umano con il quale interagire. I supporti di Realtà Aumentata, invece, allontanano il mio sguardo dal presente. Mi trasportano in un museo lontano dal qui ed ora; reimmaginato da un qualche esperto.

Infine, il tour così guidato porta sottilmente a pensare che tanto vale non essere fisicamente in quel luogo. La visita virtuale è meno faticosa. Sarò così sicuro di aver visto le opere che l'esperto considera importanti. La funzione educativa, esperienziale, della visita al museo, la mia crescita personale alla luce del bello che io stesso scopro, viene meno.

Due tipi di occhiali

L'ultimo prodotto uscito dai Facebook Reality Labs, all'inzio del settembre 2021, l'ultima trovata commerciale legata alla nuova strategia di Facebook coinvolge anche una grande impresa italiana, Luxottica. Occhiali con il brand Ray Ban.



Ray-Ban Stories: si afferma nella promozione: puoi catturare istantaneamente qualsiasi momento

"occhiali che ti offrono un modo autentico [authentic way] per catturare foto e video, condividere le tue avventure e ascoltare musica o rispondere alle telefonate - così puoi rimanere presente con gli amici, la famiglia e il mondo intorno a te".2

In occasione del lancio di questi smart glasses, il capo dei Facebook Reality Labs (FRL), Andrew "Boz" Bosworth, incontra, in un nuovo episodio del podcast Boz to the Future, Rocco Basilico, Chief Wearables Officer di EssilorLuxottica. I due, entusiasti, concordano: "Le persone smart devono indossare gli smart glasses!".

Ma il senso dell'operazione lo si legge a chiare lettere nella sintesi del podcast: "I Ray-Ban Stories segnano un'importante pietra miliare sulla strada verso gli occhiali AR [Augmented Reality], e il loro uso oggi è coerente con i casi d'uso che ci aspettiamo di vedere in futuro".3

Ovvero: la nostra strategia consiste nel dotare i cittadini di strumenti tesi a pilotare il loro modo di fare esperienza.

La tecnologia non è mai veramente nuova. Si tende a intendere la storia della tecnologia come una freccia tesa verso il futuro: progresso, innovazione come allontanamento dal passato. Ma potremmo invece ben leggere la storia della tecnologia come ciclico ritorno su progetti e linee di sviluppo. Guardate questa immagine:



Non vediamo qui un essere umano nascosto dietro occhiali scuri alla moda; non vediamo qui un essere umano pigro e dipendente, tenuto sveglio dagli effetti speciali di un accattivante Metaverso. Vediamo un essere umano orgoglioso del proprio pensiero, consapevole dei propri limiti, ma anche convinto del proprio discernimento.

Nel settembre 1945 Vannevar Bush, finissimo tecnologo, ripubblica sulla rivista Life l'articolo As We May Think, uscito su The Atlantic in luglio. Tra le illustrazioni che accompagnano l'articolo, questa, che campeggia sopra il titolo, è la più chiara e significativa.4

Possiamo ben immaginare quella telecamera integrata negli occhiali. Ma ecco la differenza tra gli occhiali di Bush e gli occhiali di Boz" Bosworth e Basilico. Ed ecco la differenza tra il computer come lo intendeva Bush e come lo intende Zuckerberg.

Bush intende il computer, e le sue periferiche, come strumenti al servizio dell'essere umano che liberamente, e sempre più profondamente ed originalmente pensa. Esseri umani che come Galileo conoscono il mondo, sperimentano, fanno esperienza. Occhiali come il cannocchiale di Galileo. Il supporto della macchina permette una esperienza più ricca. Bush immaginava che l'essere umano supportato dalla macchina sarebbe stato in grado di tenere traccia delle proprie esperienze, fonderle tra di loro, sommarle con conoscenze altrui. Immaginava che le conoscenze restassero bagaglio della persona, libera di scegliere come condividerle.

Dalle intuizioni di Vannevar Bush discende il World Wide Web, inteso come luogo di produzione sociale di conoscenza; Rete di conoscenze prodotte da esseri umani, in condizioni di libertà e parità di accesso.

Zuckerberg invece combatte il Web, prima sostituendovi il suo ambiente chiuso e proprietario, Facebook. Ed ora tentando di sostituire al Web il Metaverse. Una piattaforma progettata per indirizzare, inquadrare, condizionare, le esperienze di ogni essere umano.

Bush, e chi seguì la sua strada, immaginavano una rete peer-to-peer, dove ogni produttore di conoscenza sceglieva cosa e come mettere in comune.

Zuckerberg, al contrario, prevede che ogni conoscenza umana sia conservata in un cloud: cioè in un luogo di proprietà di Zuckerberg, fuori dalla controllo dei cittadini.

Le inclinazioni umane non sono bias

Non c'è bisogno di ripetere che prendiamo Zuckerberg come niente più che un esemplare rappresentante di una intera generazione di tecnici ed imprenditori.

E del resto vale la pena ricordare che la scienza e la tecnica non sono neutrali. Tanto meno lo è la tecnologia, che è applicazione della scienza e della tecnica ad interessi politici, finanziari ed industriali.5

Perciò possiamo guardare al retroterra storico e culturale che porta alla proposta del Metaverse.

Viviamo una stagione storica di grande divaricazione tra una élite economica, finanziaria, politica, e tecnico-scientifica, da un lato, e dall'altro cittadini sempre più ridotti a sudditi impotenti, utenti e consumatori.

L’élite sostiene che i cittadini sono incapaci di scelte efficaci ed adeguate. Tesi politica confermata da significativi riconoscimenti. Nel 2002 il premio Nobel per l'Economia è attribuito a Daniel Kahneman. A Kahneman e al suo collega matematico-psicologo Amos Tversky

Kahneman Thaler si deve il concetto di bias cognitivo. Una sorta di difetto congenito dell’essere umano. Errori di giudizio che portano prendere decisioni sulla base di pregiudizi e di percezioni errate. Il considerare questo vizio universale e congenito, permette di svalutare la portata dell’educazione, e anche la portata dell’umana saggezza. Limiti umani ovvi, così, vengono usati come giustificazione per togliere spazio al libero arbitrio, all’esercizio dell’umana saggezza.

dipendenti da meccanismi universali che presiedono il recupero di conoscenze razionali, e agiscono secondo automatismi mentali che portano a prendere decisioni velocemente, ma il più delle volte sbagliate perché fondate su pregiudizi o percezioni errate o deformate. Insomma, sono decisioni prese a partire da un errore di giudizio.

Perciò, ogni essere umano deve essere guidato, indirizzato, ed infine trattato come un infante.

In perfetta continuità, il premio Nobel per l’Economia del 2017 è attribuito a Richard Thaler, sostenitore della stessa scuola. Gli esseri umani compiono errori. Esiste quindi la necessità di paternalismo; esiste la necessità che designer, architetti, costruttori dell'opinione pubblica, “influenzino il comportamento delle persone, al fine di rendere la loro vita più lunga, sana, e migliore".

I dubbi sulla capacità dell’essere umano di prendere decisioni, si risolvono spingendo gli essere umani a prendere le decisioni che l’élite ritiene più convenienti. Questo è il senso del nudge, la spinta gentile. Ho perso il conto delle volte in cui, in questi anni, ho sentito tecnici informatici, User Experience Designer, strateghi del passaggio al digitale, giustificare le loro scelte progettuali con i bias cognitivi degli esseri umani. Molto più raro il loro appello alla capacità di giudizio ed alla saggezza che ogni essere umano possiede.

Per i poveri e deboli esseri umani, aggiunge ora Zuckerberg, non basta più Facebook come luogo di spinte gentili, ovvero di condizionamento di ogni cittadino e dell’opinione pubblica in genere. Serve il Metaverse, un luogo dove le gentilissime spinte saranno più incisive, irrifiutabili.


La realtà come costruzione sociale

Agli inizi degli Anni Sessanta del secolo scorso, agli albori dell’era digitale, si afferma l’espressione software. E di conseguenza virtual, nel senso di “non fisicamente esistente ma fatto apparire via software”. Si apriva allora la stagione dei progetti di esperienze immersive che si pretendono alternative alla vita reale, o in grado di migliorare la stessa vita reale.

In quei giorni due sociologi americani di origini austriache, si incontrano per una vacanza nelle Alpi bavaresi, e ragionando e discutendo finiscono per decidere di scrivere un libro il cui significato, come loro stessi diranno, è perfettamente racchiuso nel titolo: The Social Construction of Reality. Il libro uscirà nel 1966, e resta una pietra miliare.6

Berger e Luckmann ci parlano di come, nel corso della nostra lunghissima storia, noi esseri umani siamo ci siamo mostrati capaci di produrre conoscenze. Conoscenze adeguate alle necessità e ai desideri. Dalle esperienze, dalle conoscenze, nasce la realtà: un costrutto sociale, ci ricordano Berger e Luckmann, che gli esseri umani tutti contribuiscono ad edificare e a mantenere viva. La realtà è una costruzione sociale, alla quale ogni essere umano non solo ha diritto di partecipare, ma è capace di partecipare.

Anche oggi siamo capaci, ovviamente, di produrre conoscenze, e quindi realtà. Le accuse di Kahneman e Tversky, le pretese paternalistiche di Thaler non sono altro che aspetti contingenti di dinamiche politiche. Dinamiche che lungo la storia si sono presentate all’interno di ogni cultura: conflitti, lotte di potere, rotture di equilibri sociali.

L’unica novità è forse questa: alla pluralità di culture umane si tenta oggi di sostituire una unica cultura, imposta per via digitale. La Realtà Aumentata del Metaverso, universale ed unificante, è un attacco alle culture umane, una invasione del loro spazio.

Al senso di presenza creato via software che Zuckerberg ci propone, possiamo contrapporre la consapevolezza del nostro essere umani, l'autocoscienza, l'esperienza di sé narrata lungo l'arco di millenni dall'arte e dalla letteratura, dalla filosofia e dalle scienze umane, e presente nelle relazioni sociali, quando ci incontriamo faccia a faccia, veramente presenti con i nostri corpi e le nostre anime.

Ci aspettiamo una produzione digitale che rispetti la storia, e che se ne consideri parte. Non una produzione digitale che prenda di sostituire la storia umana.

(Questo articolo è stato pubblicato su Agenda Digitale il 27 ottobre 2021 con il titolo Il metaverso di Facebook: la realtà aumentata come distruzione sociale. Qui l'articolo.)

1Casey Newton, "Mark in the Metaverse. Facebook’s CEO on why the social network is becoming ‘a metaverse company’", The Verge, Jul 22, 2021: https://www.theverge.com/22588022/mark-zuckerberg-facebook-ceo-metaverse-interview.

2https://tech.fb.com/ray-ban-and-facebook-introduce-ray-ban-stories-first-generation-smart-glasses/

3https://tech.fb.com/boz-to-the-future-episode-4-the-future-of-wearables-with-rocco-basilico/

4Francesco Varanini, "Vannevar Bush", Dieci Chili di Perle, 20 febbraio 2010: https://diecichilidiperle.blogspot.com/2010/02/vannevar-bush.html

5Francesco Varanini, Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020: Terza Legge.

6Peter L. Berger and Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Anchor Books, New York, 1966. Trad. it. trad. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969.

mercoledì 22 settembre 2021

Il 'lavoro umano' che non potrà mai essere svolto da macchine

 Non possiamo più parlare di lavoro. Dobbiamo aggiungere sempre l'aggettivo: lavoro umano.

Abbiamo dato per scontato il concetto. Repubblica fondata sul lavoro. Organizzazione del lavoro. Psicologia e sociologia del lavoro. Costo del lavoro.

In particolare noi che ci occupiamo di Personale, di Risorse Umane, abbiamo sempre dato inteso il lavoro come un attributo dell'essere umano. Forse, la manifestazione più piena dell'essere umano.

A pensarci bene, però, abbiamo sempre sottovalutato il peso di una accezione negativa del lavoro. Molti, infatti, pensando al lavoro, vedono innanzitutto il peso, la fatica, sfruttamento. C'è stata una epoca, verso gli Anni Settanta del secolo scorso, il cui si è celebrato il rifiuto del lavoro. E ancora oggi si tende a enfatizzare la differenza tra lavoro e tempo libero. Certo, tutti vogliamo, per noi stessi e per ogni altro essere umano, che il lavoro sia sempre meno faticoso, pesante, usurante, dannoso per la salute. Tutti vogliamo un lavoro che non abbia riflessi negativi sulla speranza di vita.

Ma accettando questa critica del lavoro, giustificando la preferenza per il tempo libero, ci dimentichiamo alcuni aspetti chiave. Ci sono certo aspetti positivi nel tempo libero, e forse la riduzione degli orari di lavoro è un modo per garantire lavoro a più persone. C'è anche un certo paradosso nel cercare di liberarsi dalla fatica nel lavoro, per poi scegliere di faticare nel tempo libero: gli sport sono faticosi. Ma in ogni caso resta aperta la domanda: come occupiamo il tempo libero? In cosa consiste l'ozio? Forse non è così vero che nel tempo libero siamo liberi. La società dei consumi vuol dire colonizzazione del tempo libero. Siamo di fronte così ad un altro paradosso: vivere il tempo libero è svolgere un lavoro: il lavoro di consumatore, vittima di scelte obbligate.

C'è, ricordiamolo, per tutti, lo spettro della disoccupazione. C'è anche però, pronto, un pericoloso rimedio: il sussidio di disoccupazione, il salario sociale - chiamatelo come volete. Il sistema socio-economico nel quale ci troviamo a vivere tende a comprimere l'offerta di posti di lavoro. Ma in cambio offre sussidi di disoccupazione e salari sociali.

Ha senso quindi sostenere che la vera vita sta nel tempo libero? Ha senso cercare l'ozio? Ha senso cercare la propria realizzazione in hobby? Ha senso parlare ancora di lavoro come sfruttamento e di rifiuto del lavoro?

Meglio ripensare il concetto di lavoro. Tornando a considerare centrale per la vita umana il lavoro.

Meglio dire che anche l'hobby è un lavoro. Meglio dire che la situazione socio-economica ci pone di fronte ad una situazione dove esiste remunerazione senza lavoro e lavoro senza remunerazione.

Che cosa è dunque il lavoro. Conviene ripartire da quella frase di Primo Levi, così spesso citata. Ma forse non abbiamo meditato abbastanza su queste parole. Levi scrive nella Chiave a stella: "se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono". Per Levi è "profondamente stupida" la retorica di chi tende a denigrare il lavoro, "a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero".


Attacco al lavoro umano

Ma c'è, nel discorso che sto facendo, un convitato di pietra. C'è una una presenza che spesso diamo per ovvia - ma che evitiamo di prendere veramente in considerazione: la tecnologia.

E' ovvio dire che le tecnologie sono benvenute non solo perché moltiplicano la produttività, ma anche perché alleviano la fatica dell'uomo. Ma altrettanto ovvio dovrebbe essere dire. come notavo all'inizio: non si può più parlare semplicemente di lavoro, si deve parlare di lavoro umano. Si deve dire lavoro umano per distinguerlo dal lavoro delle macchine.

Si sa che dagli anni a cavallo tra 1700 e 1800 il lavoro è cambiato. Le macchine sono apparse potentemente sulla scena. Le macchine hanno tolto fatica al lavoro umano. Hanno portato però anche riduzione dei posti di lavoro. Disoccupazione. E' comodo, ma superficiale, considerare ingenui retrogradi i luddisti, quegli operai che nella prima metà dell'Ottocento consideravano le macchine fonte di disoccupazione. Vale ancora oggi quello che diceva il poeta Byron alla Camera dei Lord difendendo i luddisti: "Queste macchine sono state per loro [gli imprenditori] un vantaggio, perché facevano venir meno la necessità di impiegare un certo numero di operai".

Una facile accusa a chi parla così come sto parlando è dire: sei luddista. Facile esporre al pubblico ludibrio: innovazione, progresso, finiscono per essere miti indiscutibili. Eppure parliamo oggi di limiti dello sviluppo. Non sono in discussione i vantaggi della moderna industria, della produzione di massa, dell'automazione. Ma è anche vero che dove aumenta il lavoro delle macchine diminuisce il lavoro umano. E' anche evidente che siamo alle prese con crescenti volumi di disoccupazione. Ricordando Levi, disoccupazione vuol dire impossibilità, per un crescente numero di persone, di cercare sé stessi attraverso il lavoro.


Oggi, evidentemente, siamo di fronte ad un attacco al lavoro umano.

Il più facile modo di svalutare l'opinione di chi, come in me, non si rassegna a questo trend, è dire: anche la Rivoluzione Industriale del 1800 ha tolto posti di lavoro, ma poi le cose si sono aggiustate. Nuovi posti di lavoro sono emersi. Non si dice come, non si sa come, ma si vuole trarre buon auspicio da questo passato: anche stavolta le cose si aggiusteranno.

In risposta a queste posizione elusive, però, possono essere portati solidi argomenti. La Rivoluzione Industriale del 1800 è diversa dalla Rivoluzione Digitale. Per almeno due aspetti.

Distanza dei tecnologi dai luoghi di lavoro. Nel 1800, e ancora nel 900 con l'organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, i tecnici, gli ingegneri, erano vicini alla fabbrica. Anzi, ne facevano parte: i progettisti delle macchine, all'inizio del 1800 erano lavoratori che cercavano, tramite l'evoluzione dell'attrezzo, dello strumento, il modo di alleviare la propria personale fatica. La macchina era un passo ulteriore in questa direzione.

Oggi i sistemi di automazione sono progettati in luoghi lontani dalla fabbrica, lontani dalla cultura dell'industria manifatturiera.

I tecnologi digitali, invece, non si considerano lavoratori. Si considerano progettisti di mondi che altri, non loro, dovranno abitare. I tecnologi, lontani dalla fabbrica, sono invece vicini ai mercati finanziari. Tramite software, algoritmi, dei quali i lavoratori, e gli stessi manager di uno stabilimento produttivo nella sanno Le aspettative di ritorno finanziario sono imposte ad ogni impresa.

Linee essenziali del progetto: senza esseri umani. Nel 1800 e nel 1900 dallo studio del lavoro umano nasceva la scelta di automatizzare singole attività, o magari interi processi. In nessun caso però si immaginava il lavoro della macchina senza lavoro umano. Lo scenario è socio-tecnico. Macchine al servizio degli esseri umani. Esseri umani e macchine insieme.

Con le tecnologie digitali, oggi, invece, lo scopo del progetto è: sostituire in toto il lavoro umano. Sostituire sia il lavoro umano che è sia agire pratico, sia il pensiero umano. Il lavoro dei computer scientist è teso a questo: farne a meno dell'essere umano.


Ritorno al lavoro umano

Ogni lavoro umano, si dice, entro cinquant'anni sarà alla portata di un sistema automatico, di un robot, di una intelligenza artificiale, di un algoritmo.

Molti tecnologi e scienziati, nell'indirizzare i loro sforzi sono in buona fede. Possiamo considerarli vittima di una limitante formazione STEM, che fa perdere di vista il loro stesso essere umani. Primo Levi considera la loro posizione "profondamente stupida". Ma loro non lo sanno, perché la formazione STEM considera perdita di tempo la riflessione umanistica.


Dunque di fronte al progetto di sostituire in toto il lavoro degli esseri umani con il lavoro di macchine, non basta più parlare di politiche del lavoro: si deve parlare di politiche per il lavoro umano.

La saggezza umana, quel pensiero che ci accompagna dalle origini, e che ogni cultura porta nel proprio cuore, quel monito ci dice: cerca te stesso, cerca il Sé. Cerca di essere il più pienamente possibile consapevole del tuo essere, del tuo agire nel mondo. Responsabile di fronte a te stesso, alla comunità umana, all’ambiente ecologico e sociale cui appartieni. Ma nell’Era Digitale si spalanca una via di fuga: affidati alla macchina. Un algoritmo ti dirà cosa fare, una Intelligenza Artificiale ti guiderà, ti assisterà, ti proteggerà. In questo nuovo scenario la ricerca del Sé non è più motivata.

E' questa la tendenza che dobbiamo contrastare. Tornando a porre al centro dell'attenzione il lavoro umano.


Nota. Gli argomenti di questo articolo sono ampiamente trattati nel libro: Francesco Varanini, Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020.

sabato 22 maggio 2021

L'ultima scappatoia: Le leggi di Frank Pasquale

Non si può fare a meno di interrogarci sui rischi derivati da uno sviluppo di Intelligenze Artificiali sempre più difficili da controllare.

Un caso tra i numerosissimi. Computer Scientist hanno sviluppato strumenti che rendono impossibile comprendere se a parlare e a interagire con noi è un altro essere umano, o una macchina programmata in modo ignoto. I Computer Scientist stessi ammettono ora i rischi sociali, politici, etici impliciti in questi strumenti. E puntano il dito contro Google o altri grandi Case che ne hanno promosso lo sviluppo e li usano. Quale soluzione propongono? Dicono: non fidatevi di Google, fidatevi di noi. "We can’t really stop this craziness around large language models, but what we can do is try to nudge this in a direction that is in the end more beneficial”. Comodo dire che la corsa a cui si partecipa non può essere fermata. Perché mai dovremmo di questi scienziati? Ci dicono che sono strumenti pericolosi ma vogliono continuare a svilupparli. 

Un amico rinomato ricercatore e progettista nel campo dell'Intelligenza Artificiale mi dice: io so cosa vuol dire assumersi la pesante responsabilità di decidere che una 'macchina medica' lavora in un modo o in un altro... Grave responsabilità decidere quale grado di autonomia attribuire alla macchina; decidere se farla intervenire in un modo in un altro. In che momento.

Un altro amico profondo conoscitore della materia, Domenico Talia, si interroga sull'Impero degli algoritmi (Rubbettino, 2021). Si pone l'obiettivo politico di evitare che "questa nuova élite tecnologica  diventi la nuova 'razza padrona' delle vite di miliardi di persone". Ci ricorda quindi che "la democratizzazione delle tecnologie passa attraverso la diffusione delle conoscenze su di esse e in particolare sugli algoritmi che sono a loro fondamento". E conclude: "non abbiamo bisogno di gabbie algoritmiche razionali ed efficienti", ma invece di "strumenti risolutori per alimentare il pensiero critico". Nell'aggettivo 'risolutore' colgo un riferimento ad un ragionamento aperto alla complessità, e cioè orientato a risolvere, a sciogliere garbugli e intrichi. O per dirla altrimenti: non leggi a cui appellarsi, ma impegno personale etico e politico.

Considero questi amici una eccezione. Di gran lunga prevalente è la posizione degli 'addetti ai lavori' che nascondono a sé stessi agli altri gli aspetti problematici. Non si parla nemmeno tra colleghi di questi pesi e dei dubbi e dei dilemmi che si vivono nel progettare. Tantomeno se ne parla in pubblico. Il cittadino nulla deve sapere di tutto questo. Rispetto all'opinione pubblica la posizione che gli 'addetti ai lavori' -salvo rare eccezioni- contribuiscono a mantenere si può riassumere in un breve frase: spargere fiducia.

Adesso si fa un gran parlare di 'leggi etiche' alle quali rifarsi in queste situazioni critiche. Si può vedere per esempio Frank Pasquale, New Laws of Robotics (Harvard University Press, ottobre 2020). Il libro sarà pubblicati in italiano da Luiss University Press [il libro è stato pubblicato in italiano nel giugno 2021; nota che aggiungo a questo post lasciandolo per il resto così come l'avevo pubblicato il 22 maggio 2021], ma già ora, mentre è ancora inedito nella nostra lingua, leggo vari commenti entusiasti, anche su quotidiani: la Stampa, il Manifesto. In realtà questi commenti mi sembra che non facciano altro che seguire l'onda di commenti usciti negli States. Più interessante di questi commenti, che mi sembrano acritici e che si ripetono l'un l'altro, è ciò che scrive a proposito del libro di Pasquale Lelio Demichelis su Agenda digitale

In un altro  post commenterò su questo blog le Leggi di Pasquale una per una. E discuterò l'assunto: la tesi che alla base delle leggi stesse: le Leggi della Robotica di Isaac Asimov sono superate; servono nuove norme. Ma prima del guardare al contenuto delle leggi, serve notare come la 'legge' costituisca in sé una comodo modo per scansare  il problema. 

Frank Pasquale, precedentemente autore di un libro che merita di essere letto: The Black Box Society (Harvard Unversity Press, 2016), ha una formazione giuridica. E' un aspetto non trascurabile: cerchiamo in fondo qualcuno che ci dica quali sono le leggi da rispettare.  Abbassando così il livello di responsabilità.

Infatti, appare gravissimo il peso della responsabilità di chi si trova a scrivere algoritmi ed in generale a progettare macchine destinate ad agire autonomamente, al posto di esseri umani impegnati in un qualsiasi lavoro, e anche destinate ad agire andando oltre i limiti della stessa programmazione iniziale definita dal progettista.

Ma di fronte alla responsabilità, la prima scelta è purtroppo l'elusione o la fuga. Chi sviluppa nel campo dell'Intelligenza Artificiale elude la responsabilità -responsabilità personale- nascondendosi dietro l'idea che il progresso e la tecnica non possono essere in ogni caso fermati, e che quindi 'se non sviluppassi io questo strumento, lo svilupperebbe comunque un altro tecnico'. Chi sviluppa nel campo dell'Intelligenza Artificiale elude la responsabilità dicendo: 'a noi compete fare ricerca e sviluppo, degli usi se ne occuperà la politica'.

Ed ora ben vengano a togliere di dosso il peso della responsabilità anche le Leggi di Pasquale.

E' una scappatoia: ci si tranquillizza con il rispetto della legge e così ci si deresponsabilizza. Ed anche ci si allontana dal caso singolo: da ciò che io, ricercatore e sviluppatore sto facendo qui ed ora. Ed anche: si rinforza il potere del tecnico - ora legittimato ad agire dal fatto che rispetta le leggi di Pasquale. Ma allo stesso tempo così ogni ricercatore e sviluppatore resta solo, nella comunità di tecnici probabilmente meno orientati di lui all'etica...

Due sono le strade che i tecnici digitali giustamente preoccupati potrebbero adottare. 

Impegnarsi pubblicamente a rinunciare a lavorare in questo campo. 

Tornare a considerare sé stessi cittadini tra i cittadini 

Peccato siano invece restii ad incamminarsi in questa direzione. A quanto sembra non intendono rinunciare ai loro privilegi. Non sembrano disposti ad assumere posizioni veramente critiche all'interno della comunità professionale cui appartengono.

Eppure possiamo dire che di fronte allo spargere fiducia di tanti addetti ai lavori, la risposta politica è spargere cautela. Di fronte a comode leggi che dicono cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa si può fare e cosa non si può fare, la risposta etica è: mi sento responsabile di quello che sto facendo e delle conseguenze delle mie azioni

venerdì 30 aprile 2021

Educazione civica digitale Un insegnamento necessario nelle scuole di ogni ordine e grado

 È urgente occuparcene. Una educazione civica digitale. O forse meglio: un’educazione esistenziale per l’era digitale. O potremmo dire anche: una educazione ad essere umani nell’Era Digitale.

La saggezza umana, quel pensiero che ci accompagna dalle origini, e che ogni cultura porta nel proprio cuore, quel monito ci dice: cerca te stesso, cerca il Sé. Cerca di essere il più pienamente possibile consapevole del tuo essere, del tuo agire nel mondo. Responsabile di fronte a te stesso, alla comunità umana, all'ambiente ecologico e sociale cui appartieni. Ma nell'Era Digitale si spalanca una via di fuga: affidati alla macchina. Un algoritmo ti dirà cosa fare, una Intelligenza Artificiale ti guiderà, ti assisterà, ti proteggerà. In questo nuovo scenario la ricerca del Sé non è più motivata.

Se questo punto di vista vi pare troppo filosofico, o astratto, guardiamo la questione dal punto di vista politico. Da un lato sta un'élite del potere. A questa élite appartengono, accanto alla classe politica in senso stretto ed a chi è dedito ad operazioni di finanza speculativa, i tecnici digitali - coloro che disegnano strumenti e piattaforme, scrivono algoritmi, progettano varie forme di Intelligenza Artificiale. Dall'altro stanno i cittadini, esposti al rischio di diventare sempre più succubi, sudditi soggetti a leggi veicolate via software, ridotti a utenti.

Si parla della necessità di diffondere, nel nostro paese e nel mondo, la cultura STEM. E' una fondata esigenza. E' una fondata esigenza. Diffondere la cultura STEM significa portare tra i ricercatori, scienziati e tecnici, sempre in maggior misura esponenti di gruppi sociali diversi, più donne, persone di culture e origini etniche diverse. Più che cultura STEM dovremmo dire: culture STEM. Le discipline scientifiche e tecniche, sempre più specializzate, verticale, perdono di vista l'insieme, la complessità. Non si può più parlare a rigore di computer science o di informatica: le specializzazioni sono tante e tali che gli addetti ai lavori poco o nulla sanno al di fuori della propria specializzazione: si conosce un solo strato di codice, si pratica chiusi all'interno del proprio campo di ricerca. Espressioni-ombrello come 'Intelligenza Artificiale' sono pericolose per questo: gli 'esperti' che ne parlano conoscono una ridotta parte del campo. Nella formazione STEM la vista d'insieme, e quel pensiero che può orientare al dubbio e alla cautela sono assenti.

La formazione STEM dunque non basta. Più cresce la cultura STEM più appare evidente l'esigenza di un bilanciamento.

Educazione civica digitale

Dobbiamo dunque ragionare attorno a cosa serve insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado, consapevoli che lì si formano i futuri cittadini, ed anche i futuri tecnici e scienziati: educazione civica digitale. Potremmo forse dire meglio: educazione civica per il tempo digitale. Un tempo in cui si scivola passo dopo passo verso l'equiparare macchine ed esseri umani - finendo così per considerare che l'apprendimento umano e l'apprendimento della macchina non siano che due varianti di uno stesso modello.

Come mostro nel libro Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale, si finisce per proporre agli esseri umani, tramite piattaforme e app, le modalità di apprendimento che si sono rivelate buone per le macchine. Ignorando il senso stesso del latino ad-prehendere: avvicinarsi alla preda, acciuffare, andare a caccia. Di fronte all'acquisita capacità delle macchine di apprendere, dovremo quindi rivalutare gli umanissimi modi di insegnare e di ricevere insegnamento. Per coltivare la nostra umanità.

Si immagina l'insegnamento erogato, nei modi e con gli approfondimenti di caso in caso adeguati, ad ogni livello della formazione scolastica pre-universitaria.

Ecco dunque una proposta; la possibile traccia degli argomenti chiave.

Storia della tecnica

La storia della vita in senso lato, della vita sulla terra, la storia conosciuta da noi essere umano, non inizia nell'Anno Duemila. Può sembrare paradossale ricordarlo. Ma ogni avvicinamento alla cultura digitale, alle opportunità che porta con sé, ma anche alle minacce ed ai rischi che comporta, inizia con il nuovo secolo. Magari qualcuno risale qualche anno più indietro, a quando Negroponte pubblica Being Digital. Magari qualcun altro risale agli articoli fondativi di Alan Turing, 1936 e 1950. Ma manca in ogni caso la prospettiva, la profondità, l'attenzione ai tempi lunghi della storia.

Servirà dunque una Storia della tecnica. Dove la tecnica appare come attività umana legata alle epoche e alle culture. E dove il senso della techne greca è illustrato tenendo ben presente la traduzione latina ars. Che ci fa intendere la tecnica come arte, ma ci ricorda anche che la tecnica è sempre connessa agli arti, al corpo umano. Mente e corpo concorrono a creare strumenti. Servirà anche ben spiegare la differenza tra tecnica e tecnologia. Dove tecnologia , parola coniata alla metà del 1800, tesa a significare un uso della tecnica al sevizio di progetti industriali, orientati ad uno scopo di profitto. Non tutta la tecnica si riduce a tecnologia. La tecnologia non è la versione più evoluta della tecnica.

Buone storie di strumenti digitali pensati da esseri umani per essere più umani

Si è arrivati oggi a dare per scontata la necessità di trovare un interfacciamento, una convivenza, o magari una simbiosi tra esseri umani e macchine. Dove le macchine sono sempre più autonome rispetto agli esseri umani.

Ma dobbiamo affrontare di petto la questione. Stiamo parlando di formazione degli esseri umani. Scopo di questa formazione non dovrà essere l'abituare a convivere con la macchina. E' giusto che sia scopo della formazione la preparazione ad essere sempre più pienamente umani. Non certo perché si consideri l'essere umano superiore ad altri esseri viventi, ma solo perché noi stessi, io che scrivo e voi che leggete, siamo esseri umani che formano sé stessi.

Dunque sarà virtuoso andare a cercare, nella storia dell'informatica e della computer science, narrazioni esemplari di come si possa intendere una macchina pensata per accompagnare l'essere umano nell'essere più pienamente sé stesso.

Tre personaggi, tre storie di vita, sembrano esemplari.

Vannevar Bush nel 1945 anticipa e rovescia la domanda che si pone Alan Turing nel 1950. Turing, nell'articolo Computer Machinery and Intelligence, si chiede: Can machines think?, possono le macchine pensare? Ed anzi precisa: spero che presto le macchine possano pensare, meglio degli esseri umani ed al posto degli esseri umani. Bush ignora la domanda e la rovescia in una affermazione, già esplicitata nel titolo: As We May Think. Come possiamo pensare noi esseri umani se supportati da strumenti che ci supportano nel ragionare, nel ricordare, nel connettere tra di loro fonti.

Doug Engelbart, nel settembre del '45 legge l'articolo di Bush sulla rivista Life. Il Giappone si è ormai arreso, Doug, studente in ingegneria, è radiotelegrafista nelle isole Filippine. Doug promette a sé stesso, e in fondo a tutti noi esseri umani: costruirò la macchina immaginata da Bush. Verso la fine del 1968 presenta ad una platea stupita di informatici e computer scientist e informatici quello che è a tutti gli effetti il prototipo del personal computer.

Ted Nelson, poco più che ventenne, in quegli stessi Anni Sessanta immagina e sviluppa i primi prototipi di quel sistema che oggi conosciamo come World Wide Web. E' mosso dalla propria cultura umanistica, letteraria. Immagina una letteratura non chiusa in pagine e libri, ma aperta: una rete che connette ogni testo ad ogni altro, ogni parola ad ogni altra. Ed è mosso anche da una lessico medico e psichiatrico definisce ADD: Attention Deficit Disorder. Nelson si rifiuta di considerare il proprio modo di essere difettoso, malato, e così immagina una macchina che lo accompagni nell'essere sé stesso, trasformando l'apparente difetto in virtù. Da singolari equilibri di mente e di corpo, da eccentrici modi di pensare e di costruire conoscenza considerati dalla ‘scienza normale’ pericolose sindromi, nasce dunque quel computing che espande l’area della personale coscienza. Tutti noi oggi siamo arricchiti dalla possibilità di pensare muovendoci in una sterminata rete di connessioni, liberati dalla gabbia di un unico ordine, di una sequenza, di una gerarchia.

Le tre funzioni del codice

Ad ogni cittadino è offerto un insegnamento elementare. Saper scrivere e saper leggere, è il modo per partecipare alla scrittura delle leggi che reggono la partecipazione del cittadino alla cosa pubblica. E’ il modo per conoscere le leggi che siamo chiamati a rispettare. E’ il modo per partecipare alla vita sociale e politica.

Ma oggi tutto ciò che conta è scritto in un codice digitale, in una ‘lingua’ che solo tecnici specialisti conoscono, e che è invece inaccessibile ai cittadini. Si tratta, oltretutto, di una lingua progettata per essere letta da macchine, e non da esseri umani.

Così al cittadino è negata anche la possibilità di controllare ciò che è scritto nel codice. E risulta impossibile distinguere se a parlare all’essere umano è un essere umano o una macchina.

Appare di scarsa o nulla utilità un insegnamento di base di uno dei tanti linguaggi di programmazione. Il primo passo per rendere percepibile la pericolosa situazione sta invece nello studio del concetto di codice. A partire dalla sua triplice funzione. Il codice è innanzitutto un supporto - sia si tratti di una tavoletta di cera, di un foglio di carta, o una piastrina di silicio. Il codice è un sistema di segni, un linguaggio di scrittura. Il codice è un testo scritto tramite un linguaggio sul supporto.

Così, alla luce di una riflessione del triplice mostrarsi del codice, potrà essere proposta la riflessione su sul codice digitale: una lingua pensata rivolgersi a macchine è infine imposta come nuova, più evoluta lingua, agli stessi esseri umani.

La discontinuità digitale

Di fronte all'insistente propaganda dell'innovazione, del progresso, della crescita esponenziale, dell'hype, serve -come bilanciamento e chiave di lettura- una attenzione alla storia. Serve saper vedere la storia di lungo periodo, per smitizzare apparenti novità, e serve anche consuetudine con la storia centrata sugli eventi, per cogliere le vere discontinuità.

In particolare, appare necessario soffermarsi su una discontinuità. E' una novità del Ventesimo Secolo il progetto di sostituire in toto l'essere umano con una macchina. Macchine progettate per pensare al posto degli esseri umani. Macchine progettate per prendere il posto degli esseri umani in ogni lavoro.

Un programma di educazione civica digitale rivolto agli esseri umani non potrà ignorare questa novità. Siamo infatti di fronte ad un bivio. O preparare gli esseri umani a convivere, a interfacciarsi, a entrare in simbiosi con macchine, algoritmi, Intelligenze Artificiali. O preparare gli esseri umani ad essere più pienamente sé stessi, consapevoli della propria storia, e allo stesso tempo delle proprie potenzialità. Timidezze o ambiguità nella scelta tra le due opzioni rendono vana l'educazione. In questo programma si opta per la seconda via.

Tre vie per essere cittadini oggi

Di fronte alle novità e agli interrogativi che le nuove tecnologie impongono a noi esseri umani, possiamo individuare atteggiamenti necessari. L'educazione civica digitale dovrà preparare ad assumere questa posizione.

Non rinviare nel tempo

Ci dobbiamo preparare ad evitare la più comoda, ma anche la più grave ed irresponsabile, delle vie di fuga.

Non si può ignorare la presenza di ricerche riguardanti temi critici, come -per fare solo due esempi- la sostituzione di ogni lavoro umano o le armi autonome dotate di Intelligenza Artificiale.

E' facile dire: sì, esistono potenziali rischi e problemi, ma non sono così imminenti. E' facile dire: ce ne occuperemo a tempo debito. O peggio dire: se ne occuperanno i nostri nipoti.

Meschina appare l'opinione di chi si consola rinviando nel tempo la questione, considerando che gli effetti più perversi si manifesteranno solo in tempi futuri. Ingenuo e disinformato chi minimizza.

Evitare la sottrazione incrociata

Scienziati e tecnici si sottraggono dal farsi carico dei possibili usi di ciò sperimentano e sviluppo dicendo: a noi compete ricercare e innovare, delle conseguenze dei nuovi ritrovati si deve occupare la politica. Il cittadino si sottrae dicendo a sé stesso: non posso capire, non sono all'altezza. C'è sempre qualcun altro che deve occuparsene; con il risultato che non se ne occupa nessuno.

La responsabilità sociale e l'azione politica nascono sempre dal non rifiutare di assumersi responsabilità personali. Dovremo quindi evitare una seconda via di fuga, consistente nell'attribuire la responsabilità ad un soggetto diverso da noi stessi, quale che sia il nostro ruolo.

Non nascondere il male dietro il bene

Di fronte ad ogni novità tecnologica si potrà sempre facilmente dire: questo ritrovato serve a salvare vite umane. Così è, per fare solo due esempi, per le automobili a guida autonoma come per la connessione tra cervello umano e computer tramite nanofili di silicio.

Dovremo apprendere, tramite l'educazione civica digitale, ad evitare anche questa via di fuga. Chi sostiene che il ritrovato tecnologico è utile a salvare vite umane, sta nascondendo a sé stesso e agli altri che quello stesso ritrovato comporta anche, e spesso in maggior misura, il rischio di danni gravissimi non solo agli esseri umani, ma in senso lato a ciò che chiamiamo 'vita' e 'natura'.

L'educazione civica digitale dovrà quindi fare appello non tanto alla ragione o all'intelligenza, ma a quella umana attitudine che chiamiamo saggezza.

Questo articolo è stato pubblicato su Agenda Digitale il 22 aprile 2021 con il titolo Educazione civica digitale: cosa insegnare e perché è necessariaQui l'articolo.

mercoledì 14 aprile 2021

Onlife

 On life: se non avessimo perso l'abitudine a cercare il senso nelle espressioni in lingua straniera che ormai usiamo senza pensare, ci potrebbe venire in mente “sulla vita”: si tratta forse di un pensiero rivolto alla vita sulla terra, alla natura, alla vita umana?

Si tratta invece di un neologismo creato, o comunque diffuso, da un personaggio di pubblica notorietà, che ha eletto sé stesso a profeta o divulgatore di una nuova cultura digitale ai quali i cittadini tutti dovranno adattarsi.

Il neologismo è calcato sull'espressione inglese on line. Facilissima da tradurre con una identica espressione italiana: in linea.

Linea è una bella parola che ritroviamo in ogni lingua moderna, rimanda a una pianta usata da noi esseri umani fin da tempi remoti: il lino. L'idea di linea discende dall'osservare il filo di lino. Essere on line, in linea, è essere connessi tramite un filo. C'è della poesia nell'immagine che ci vede tutti connessi tramite sottili fili di lino. Più pesante, incombente, è un sinonimo di online: wired. L'inglese wire, discende da una radice protogermanica che sta per 'metallo'. Dunque un filo di ferro, che può essere torto e piegato.

Basterebbe dunque dire che viviamo nell'era della connessione. Tramite strumenti digitali, noi cittadini del pianeta siamo connessi l'uno all'altro.

Ma dire questo non basta al noto divulgatore. Egli intende educare il popolo, condurlo ad una disciplina. Cosa significa essere umani nell'era digitale? Si dovrà dunque far credere a noi esseri umani di essere oggi sbalzati in una dimensione dove le dicotomie fra reale e digitale, e tra umano e macchina non sono più definibili in maniera nitida.

Ecco dunque il noto divulgatore coniare la nuova espressione, buona per far capire il concetto al cittadino, considerato incapace di pensare in proprio e veramente comprendere. Il divulgatore constata: viviamo in nuovo ambiente, fatto di esperienze online e offline: esperienze vissute a prescindere da connessioni, e esperienze che sono conseguenza di connessioni. E fin qui possiamo facilmente essere d'accordo con lui.

L'umana consapevolezza può ben esserci di aiuto nel distinguere i momenti della vita, scegliere quali strumenti usare, decidere il come usarli, quando e dove. L'essere umano può scegliere quando e come perché, e con quali cautele usare una piattaforma digitale. Certo, questo richiede educazione, attenzione, senso di responsabilità. E' importantissimo oggi lavorare a formare questa nuova coscienza sociale e politica. Ma cosa dice invece il noto divulgatore: state vivendo in un'ibrida onlife. La condizione è data per fatale e per ineluttabile.

Ricalcando on line, si dice: on life. Una comoda assonanza tra due parole inglesi permette di un salto concettuale: un filo di lino non è nulla rispetto alla complessità della vita; eppure lì dove si parla di connessione, si vuol far pensare che si parli di vita intera.

C'è un esempio che il noto personaggio porta in ogni occasione. La società dell'informazione è la società delle mangrovie. Le mangrovie crescono nel delta del fiume, dove l’acqua dolce (l’analogico) si confonde con l’acqua salata del mare (il digitale). Ed è in questa dimensione ibrida, in questa acqua salmastra, che crescono le mangrovie, il mondo onlife.

Possiamo ripeterlo: la complessità della vita è ridotta ad una opposizione: analogico o digitale. Badate bene: analogico e digitale sono aggettivi che descrivono macchine. Certo, possiamo intendere l'essere umano come una macchina, e confrontare l'essere umano con altre macchine, e cercare la convivenza tra esseri umani e macchine. Ma è questo che vogliamo? Vogliamo considerare noi stessi come macchina, intendendo per macchina un computer, o magari una 'intelligenza artificiale'? C'è una ricchezza nell'essere-in-connessione degli esseri umani, nella società umana, nella vita umana, che la parola nuova onlife ci porta a dimenticare, o a considerare irrimediabilmente persa.

Le metafore, del resto, vanno usate con cautela. Sono narrazioni: dobbiamo accettare che ci dicano più di quanto appare a prima vista. O ancora: dobbiamo accettare che, al di là delle intenzioni dei noti divulgatori, parlino in modo differente ad ogni essere umano.

Un'arte tipicamente umana è il narrarsi storie. Ecco dunque cosa mi evoca la parola onlife, spiegata attraverso la metafora della mangrovia.

Ho vissuto e lavorato in un luogo la cui conformazione geofisica è la foresta di mangrovie. Il confondersi dell'acqua salmastra con l'acqua dolce non è che un aspetto. La marea sale e il suolo fangoso scompare alla vista e di questo intrico emergono ormai solo le chiome verdi. I rami si trasformano in radici. Il confine è sempre mutevole, non solo tra le acque, ma ancor più tra le terre. Isole emergono e scompaiono. Impossibile dire dove sta, tra San Lorenzo e Tumaco, tra Ecuador e Colombia, dove sta la frontiera.

Lì ho visto svolgere i lavori più disumani che abbia mai conosciuto in vita mia. Donne e bambini a raccogliere nel fango conchas prietas, apprezzati frutti di mare.



Ed oggi la zona è uno dei luoghi del mondo più crudeli, invivibili per gli esseri umani. Terra in mano alla malavita, a commercianti fuorilegge di droga e di armi.

Le mangrovie, e dietro le mangrovie l'onlife, parlano dunque anche di un pericolo, di una minaccia. Potremo certo muoverci su questo terreno. Ma ciò è possibile solo se ci manteniamo vigili.

La lezione che traggo da tutto questo è che a noi esseri umani compete la responsabilità di rispettare la natura e la vita. Ed anche la responsabilità di migliorare la natura e la vita, se possibile, ma sempre consapevoli del nostro farne parte.

Ci conviene pensare che l'onlife non è altro che una parte della vita che quotidianamente viviamo. Un terreno che possiamo esplorare.

Questo testo è stato pubblicato il 6 aprile 2021 sul blog Oltrepassare.

lunedì 12 aprile 2021

Essere umano o macchina. Un dilemma

È troppo facile dire: vogliamo un’Intelligenza Artificiale allo stesso tempo “robusta e benefica”. Di fronte alle implicazioni morali di innovazioni tecnologiche che minacciano la salute collettiva e il futuro del pianeta e il senso stesso della vita, è sconsiderato dire: la libertà di ricerca e l’etica possono andare a braccetto. Non è degno di esseri umani responsabili dire: l’etica consiste nel cercare “il giusto mezzo”. Perché ci sono momenti in cui le scelte si impongono. Giunti al dunque, non si può andare contemporaneamente in due direzioni: si deve scegliere una strada. 
Questo è in fondo l’insegnamento di quell’antica modalità di pensiero che gli antichi greci chiamavano dilemma: scelta tra due contrastanti soluzioni, quando ogni altra via d’uscita sia esclusa. La virtù formativa del dilemma si basa dunque sul togliere spazio agli alibi, alle vie di fuga, ai compromessi. Cercherò di argomentare qui a proposito di un dilemma: uomo o macchina. Forse è anzi meglio dire: essere umano o macchina, per ribadire che è una questione che riguarda ogni persona, non solo i maschi.
Conviviamo con macchine da tempi remotissimi: da quando usiamo l’aratro, il tornio e la fresa. 
La modernità ha portato con sé una significativa novità. Alla fine del Settecento. Sono entrate allora in campo macchine capaci non solo di accompagnare l’uomo nel lavoro, ma di sostituirlo: caso esemplare i telai meccanici governati da schede perforate e mossi dal vapore. Ma la rivoluzione che stiamo vivendo è più radicale. Più drastica. 
Nell’Ottocento, e nella prima metà del Novecento, la macchina accompagnava l’essere umano, lo sostituiva in attività faticose e ripetitive. Oggi siamo alle prese con la cosiddetta trasformazione digitale, il cui senso in fondo si riassume in questo: l’essere umano può essere sostituito dalla macchina in toto, in ogni attività mentale e fisica. Questa, infatti, è la promessa dell’automazione, della robotica, dell’Intelligenza Artificiale. 
È qui che si pone con drammatica evidenza il dilemma, che contrappone essere umano e macchina. Un difficile argomento. Una accurata propaganda tende a far apparire retrogrado, nemico del progresso e dell’innovazione chi prova a leggere in luce critica il passaggio al digitale. 
La narrazione più comune è appunto quella consistente nel sostenere che si può dare al contempo un colpo al cerchio e uno alla botte: un colpo al cerchio dell’etica e un colpo alla botte dell’innovazione senza limite. 
Ma il rigore logico del dilemma ci ricorda che non si può tenere il piede in due scarpe. Ci sono situazioni in cui si deve scegliere. Di fronte al dilemma si sono trovati i ricercatori impegnati nello sviluppo delle armi nucleari. Non dissimile è la situazione dei ricercatori impegnati sul fronte dell’automazione, della robotica e dell’Intelligenza Artificiale. 
Personalmente, sono appassionato esploratore di nuove frontiere tecnologiche. Provengo da una formazione umanistica, ma ho anche lavorato da professionista nel campo dell’informatica. Per tanti anni ho scritto cercando di mostrare gli indiscutibili, non sempre ben compresi, aspetti positivi, delle tecnologie digitali. 
Il personal computer, anche sotto forma, oggi, di smartphone, allarga l’area della coscienza di ogni essere umano; offre nuovi spazi di libertà e di relazione interpersonale. Ma proprio per questo non voglio chiudere gli occhi di fronte alle minacce. 
Oggi il dilemma essere umano-macchina non può e non deve essere eluso. Scrivo di questo in Le Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati 2020. Mi limito qui a sottolineare quello che mi pare un passaggio chiave, che nel mio libro cerco di illustrare. 
La tanto celebrata cultura scientifica, tecnica, ingegneristica e matematica, STEM, come si dice con una sigla entrata nell’uso comune, nasconde questo pericoloso risvolto. I tecnici dicono: noi facciamo ricerca, questo è il nostro lavoro, questo è il nostro impegno etico, innovare e ricercare comunque. Delle conseguenze e degli usi delle nostre ricerche, altri dovranno occuparsene: i politici, i cittadini. 
Il tecnico, insomma, si chiude in laboratorio, e qui crea macchine. Il tecnico cessa di sentirsi cittadino. I cittadini così, a loro volta, si trovano costretti nel ruolo di sudditi, o più precisamente di utenti, deprivati di spazi di libertà, obbligati a usare macchine sulla cui costruzione, sui cui scopi nulla hanno potuto dire.
Si torna dunque alla necessità, all’urgenza di una formazione adatta ai tempi. Rivolta ai cittadini e ai lavoratori, tesa a far sì che si affermi un controllo civico, pubblico, diffuso sulla progettazione delle macchine. Rivolta a tecnici, ricercatori, scienziati, tesa a ricordare loro che essi non appartengono ad una casta, a una comunità a parte, ma sono anch’essi niente altro e niente più che esseri umani, e cittadini.

Questo articolo è apparso il 15 settembre 2020 su FormaFuturi, magazine di Asfor e Apaform.

sabato 3 aprile 2021

Quale filosofia per i tempi digitali

Sommario

Di fronte alla 'novità digitale', dove sembra che l'umana capacità di pensare possa essere trasferita ad una macchina, la filosofia è sempre più necessaria. Ugualmente è necessaria filosofia di fronte alla conoscenza scientifica, settoriale e specialistica, fondata su linguaggi escludenti.

Purtroppo ciò che vediamo accadere è invece la genuflessione della filosofia di fronte alla 'novità digitale', alla scienza ed alla tecnica.

Ma più che di morte della filosofia si deve parlare di resa dei filosofi. 

Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome. Possiamo anche affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione. Possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell'essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi e la propria saggezza.



Il filosofo non è il sapiente, è l'amatore di sapienza. Non chi ha acquisito la sapienza, ma chi tende ad essa. Chi desidera attingere a conoscenza. Il filosofare è il pensiero che va oltre limiti e costrizioni, cercando il sapere al di là di ogni conoscenza settoriale. Per questo si arriva a proclamare la morte della filosofia: di fronte al proliferare di discipline, una conoscenza multidisciplinare appare oggi inattingibile.
Abbiamo assistito negli ultimi secoli al trionfo del pensiero scientifico e tecnico. Scienziati e tecnici non sono filosofi, perché rinunciano a priori ad accettare la complessità, la rete che tutto connette, l'interlacciamento, il garbuglio che lega tra di loro i saperi specialistici. Non solo scienziati e tecnici di discipline diverse non sono in grado di parlare tra di loro, ma anche all'interno della stessa disciplina la ricerca procede per crescente specializzazione. Esemplare il caso dell'informatica: chi conosce un codice non conosce l'altro, chi lavora su una tecnologia ignora del tutto l'altra. 
Si potrebbe da questa situazione dedurre che la figura del filosofo acquista oggi, nell'Era Digitale, una nuova centralità. Si potrebbe sostenere che più che mai servono oggi filosofi: esseri umani liberi pensatori tesi oltre ogni conoscenza settoriale, specialistica. Disposti a cercare il 'dischiudimento': la conoscenza narrata andando oltre i linguaggi escludenti degli addetti ai lavori. Disposti al rischiaramento: l'illuminazione che rende chiaro l'oscuro. Disposti a svelare il senso nascosto, quel senso che ogni scienza nomina e descrive a suo modo. Si potrebbe pensare al filosofo come al miglior compagno per il cittadino che cerca una via per addentrarsi nella novità digitale. 
  
Filosofie digitali 
Ciò che vediamo accadere, è qualcosa di diverso. Più che di morte della filosofia, possiamo forse parlare di resa dei filosofi. 
E' in fondo una resa quella dei finissimi pensatori che restano legati al passato, e lo proiettano sul presente che resta incompreso, non studiato né veramente accettato. L'antico esercizio si ripete uguale, si rileggono i classici e alla loro luce tutto si spiega. Bellamente si evita così di prendere in esame il mondo che si ha sotto gli occhi, di esercitarsi a comprendere ciò che in tempi recenti è accaduto ed emerso. Scienza e tecnica, ai loro occhi, nulla di differente mostrano, tutto è giù stato visto e detto. Tantomeno rilevante appare al loro sguardo la novità digitale. Non c'è non c'è discontinuità, catastrofe che non venga ricondotta a ciò che la storia in tempi andati ha già mostrato. Si evita così di osservare la novità che interroga. 
Basta citare un aspetto della novità: mai prima degli ultimi cent'anni, mai prima dell'apparire sulla scena della macchina digitale si era immaginato che potesse essere progettata da un umano una macchina in grado di prendere il posto dell'umano. Sostituendolo, come propone Turing, anche nel suo agire più alto e più nobile: il pensare. La novità è evidente – eppure si sceglie di non vederla. 
Altri filosofi di gran traiettoria hanno invece accettato la discontinuità: scienza e tecnica hanno ormai trionfato. Hanno accettato il fato avverso: la filosofia è ormai obsoleta. Con un misto di invidia nei confronti degli scienziati e di rimpianto per il tempo che fu, questi filosofi continuano a esercitare il loro pensiero finissimo, ma rivolti al passato, ripassando la storia, distinguendo filoni. Umiliati dagli abbaglianti successi della scienza e della tecnica, dubbiosi si interrogano, e cercano di ritagliarsi spazi sul terreno ormai così solidamente occupato. Se andrà bene, d'ora in poi la filosofia sopravviverà come epistemologia, studio dei metodi e dei fondamenti della scienza. Eppure qualcuno di questi filosofi coraggiosamente cerca di trovare ancora motivi per non rinunciare all'antica vocazione al pensiero senza confini: si inchina ai suoi successi della scienza e della tecnica, ma osserva come ogni disciplina sia chiusa nella propria stretta cultura, chiusa proprio lessico. Conclude quindi che forse resta aperto un possibile ruolo: il 'traduttore', dedito a promuove il dialogo tra famiglie professionali di scienziati e tecnici. 
Altri filosofi ancora, anche in età matura o avanzata, si avventurano invece con giovanile baldanza nelle nuove terre scientifiche e tecniche. E soprattutto, con speciale entusiasmo, si dichiarano abitatori della terra promessa digitale. Proclamano allora la loro dedizione a far proprio il nuovo verbo. Osservano giovani generazioni per imitarne i comportamenti; leggono e citano con reverente attenzione testi che cantano la bellezza e le virtù di algoritmi e di intelligenze artificiali. Finiscono così per essere ingenui ed acritici apologeti di una nuova indiscussa verità. 
C'è poi il nutrito gruppo di filosofi che da subito hanno incassato la sconfitta, e che su questa sconfitta, con abile giravolta, hanno costruito la propria carriera. Privi di qualsiasi nostalgia o rimpianto per un ruolo perduto, semplicemente badano a crearsene uno nuovo. Essi hanno rinunciato sotto ogni aspetto al pensiero senza limiti e costrizioni. Si sono fatti al contrario sacerdoti di un singolo, settoriale, escludente campo di ricerca. Hanno rinunciato ad essere 'filosofi', per essere invece 'filosofi di ...'. Non una, ma enne filosofie. Ognuna commenta e celebra la storia di una disciplina, la sua pretesa autonomia, ognuna si fa custode di un lessico specifico, di un metodo di ricerca. Filosofie di servizio, al servizio, abbelliscono così il panorama di ogni disciplina. 
Di queste filosofie fattesi ancelle di singoli rami della scienza e della tecnica, sono caso esemplare le varie filosofie, ognuna delle quali accompagna una sfaccettatura della ricerca e dello sviluppo nel campo della computer science. Filosofie con l'aggettivo, dove 'digitale' è solo uno dei diversi aggettivi usati. 
Il filosofo qui ha un ruolo di complemento; ruolo che può essere esercitato con un grado di libertà non concesso agli addetti ai lavori: tecnici, imprenditori e finanziatori. Il tecnico è impegnato a costruire strumenti e sistemi che funzionino davvero. L'imprenditore e il finanziatore cercano il ritorno dell'investimento. Il filosofo si limita a cantare le gesta. Storia e tradizione ci ricordano il filosofo che attraversava terre incognite alla ricerca di conoscenza, il filosofo che sondava l'oscuro alla ricerca della luce. Ma ora il pensiero che conta e quello degli scienziati e dei tecnici; il filosofo si limita ad accompagnarli. Ma in questo accompagnamento, il ruolo della filosofia appare rovesciato. Il vecchio filosofo cercava il rischiaramento. Il nuovo filosofo cerca l'oscurità. Neologismi e gerghi, abbondantemente usati, hanno un preciso scopo: confondere il cittadino, intimidirlo, mostrando la forza e la superiorità della tecnica digitale. E quindi, anche, la necessità del nuovo filosofo-accompagnatore. 
  
Spiacevoli costanti 
Le filosofie digitali appaiono accomunate da due spiacevoli costanti. Questa costante è la terzietà. 
La prima costante consiste nell'ambito di indagine e nell'ampiezza dello sguardo. Questi nuovi filosofi guardano esclusivamente al terreno digitale. Ciò che esiste al di fuori, al di là, del terreno digitale -la vita, la natura- è ignorato o rimosso. La storia del pensiero degna di essere presa in considerazione inizia con Alan Turing. Di quel vasto e sfumato esercizio umano che possiamo definire con la parola 'pensiero' sembra degno di restar vivo solo ciò che computabile, cioè calcolabile tramite una macchina. 
La seconda costante della filosofia dell'era digitale è la terzietà. Sul terreno digitale, si afferma, esistono due 'agenti ': l'essere umano e la macchina. Di fronte alla duplice presenza, il filosofo sceglie di seguire la via del fair play indicata da Alan Turing: offrire ad entrambi gli agenti le stesse chances, le stesse probabilità di successo. 
Il nuovo filosofo si pone nella posizione di estraneo, imparziale osservatore privo di interessi in comune con entrambe le parti in causa. Ci sono certo accenti diversi. C'è il filosofo digitale che mostra compassionevole interesse per gli esseri umani, e c'è il filosofo digitale che scommette sull'avvento di nuovi esseri digitali, di macchine morali che saranno migliori degli esseri umani. Ci sono filosofi che di fronte ad ogni innovazione tornano a dichiararsi sostenitori di una tecnologia Human-centered. E ci sono filosofi che invece si lanciano decisamente sullo scenario post-umano. 
Ma in ogni caso il nuovo filosofo considera doveroso produrre il massimo sforzo soggettivamente possibile per allontanare da sé ogni umana inclinazione; considera doveroso allontanarsi dal proprio essere umano.

Turing, Heidegger, Wittgenstein 
Insomma, nel Ventesimo Secolo si afferma una filosofia che guarda con lo stesso distacco ad esseri umani e macchine. Celebra infatti Turing, che era mosso dalla speranza di poter costruire una macchine migliore di lui stesso. 
Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein rispondono a Turing. Come ho mostrato in Macchine per pensare. L'informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi, entrambi avevano ben presente in cosa consistesse quella novità che oggi comunemente riassumiamo tramite il termine digitale. Heidegger ci parla del senso dell'esperienza umana: si impara ad usare il martello nel martellare. Ma qualcosa cambia quando l'essere umano è privato della possibilità di fare esperienza, perché gli sono proposte o imposte esperienze già confezionate, progettate da tecnici nel chiuso dei loro laboratori. Come mostro nelle Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale, questo è ciò che accade nell'odierna situazione digitale. 
E' sempre Heidegger a ricordarci che l'agire umano pienamente inteso consiste nell'accettare di trovarsi sbattuti a vivere in una terra sconosciuta, nell'essere nella condizione di chi si trova ad avventurarsi in luoghi dei quali nulla sappiamo veramente. 
Ora, proprio questo appare essere l'atteggiamento più conveniente per noi esseri umani di fronte alla novità digitale. Ci conviene pensare che ci avventuriamo nell'ignoto. Ignoto per tutti. Nessuno dei tecnici dediti a progettare un qualche aspetto della scena digitale ha una visione d'insieme. Nessuno di loro sa veramente cosa sta facendo. Anche i cosiddetti 'nativi digitali' si avventurano su un terreno nuovo - e nel farlo non dispongono nemmeno dell'esperienza di chi ha vissuto nel tempo precedente, e ha visto emergere la novità digitale. Heidegger ci dice: vivere è sentire su di sé il peso di una ansiosa preoccupazione, ed è solo da questa inquietudine che può nascere l'agire efficace e allo stesso tempo responsabile. Questo vale per ogni essere umano, ma innanzitutto per chi oggi progetta strumenti o mondi digitali. Heidegger ci ricorda che il progettare è sempre connesso al progettare sé stessi; è connesso alla personale ricerca di consapevolezza, alla personale saggezza. 
Facile notare come i filosofi digitali scelgono invece la via opposta. Non chiamano il progettista a fare i conti con la responsabilità personale. Al tecnico è chiesto solo di sviluppare nuove tecniche. 
Il filosofo digitale si rivolge semmai al cittadino, invitandolo a non dubitare, a fidarsi, a prendere per buona ogni innovazione. 
Wittgenstein non è tanto lontano da Heidegger quando ci invita a considerare che pensare significa superare quei umilianti momenti in cui siamo costretti ad ammettere: 'non mi ci raccapezzo', 'non so che strada prendere', 'non so come venirne fuori'. In questi momenti, forte è la tentazione di rinunciare, e di lasciare alla macchina il compito di pensare al nostro posto. 
Dice ancora Wittgenstein: noi siamo, quando filosofiamo, come uomini primitivi, come dei selvaggi, che ascoltano le espressioni di uomini civilizzati, le fraintendono, ma sanno poi sanno andare oltre, e trovare un senso. 
In effetti oggi è difficile, all'apparenza impossibile, mantener vivo l'approccio trans-disciplinare, multi-disciplinare, disposto alla complessità. Difficile abbracciare l'enorme e sempre crescente massa, l'intrico di conoscenze. Difficile anche accettare l'abisso della propria ignoranza, la povertà degli strumenti di cui disponiamo. 
Noi umani nel pensare ci muoviamo a tentoni, privi di certezze, guidati da deboli congetture. Ma proprio questo è il filosofare: sondare l'oscuro. E proprio qui sta l'amore per la sapienza: io, essere umano, nonostante tutto ci provo, e in questo tentativo sta la mia etica. 

Pensiero critico 
Questo umano pensare responsabile, riflessivo, per quanto possibile saggio, non rifiuta certo il progresso e l'innovazione. Possiamo guardare anzi con appassionata, affascinata attenzione a tutto ciò che di nuovo scienza e tecnica propongono. 
Eppure possiamo ritenere inutile una 'nuova filosofia' che si fa paladina della scienza e della tecnica. Possiamo sostenere, al contrario, che serva oggi una filosofia che si ponga come costruttiva critica della scienza e della tecnica. 
Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome. Possiamo anche affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione. Possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell'essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi. 
Non importa se si tratta forse di una 'posizione di minoranza'. Di minoranza, perché lontana dalla posizione di scienziati e tecnici, che avanzano nella ricerca senza porsi troppe domande. Di minoranza, perché il mainstream della filosofia si è inginocchiato alla scienza. Di minoranza, perché i filosofi digitali hanno scelto la terzietà, l'indifferenza tra l'umano e il macchinico. In un senso più ampio, di minoranza anche perché forse Intelligenze Artificiali e robot sovrasteranno l'essere umano, e una nuova capacità di ragionare surclasserà ciò che è umanamente possibile. 
Si può del resto sostenere che chi merita il titolo di filosofo si trova sempre in una posizione di minoranza. 
In ogni caso resta a noi essere umani la possibilità di fidarci di noi stessi. Quindi posso dire: anche quando, in un futuro forse non così lontano, esisteranno macchine più 'intelligenti' di noi umani, più capaci, più efficienti, magari anche più 'morali', continuerò, in quanto essere umano, a pensare. A filosofare. 

 Questo articolo è stato pubblicato su Agenda Digitale il 30 marzo 2021 con il titolo Perché l'era digitale ha bisogno di filosofia. Qui l'articolo. Lo ripubblico in questa sede perché nel testo che appare su Agenda Digitale sono presenti -sopratutto nella parte iniziale- alcune modifiche al mio testo originale nelle quali non mi riconosco.