venerdì 30 aprile 2021

Educazione civica digitale Un insegnamento necessario nelle scuole di ogni ordine e grado

 È urgente occuparcene. Una educazione civica digitale. O forse meglio: un’educazione esistenziale per l’era digitale. O potremmo dire anche: una educazione ad essere umani nell’Era Digitale.

La saggezza umana, quel pensiero che ci accompagna dalle origini, e che ogni cultura porta nel proprio cuore, quel monito ci dice: cerca te stesso, cerca il Sé. Cerca di essere il più pienamente possibile consapevole del tuo essere, del tuo agire nel mondo. Responsabile di fronte a te stesso, alla comunità umana, all'ambiente ecologico e sociale cui appartieni. Ma nell'Era Digitale si spalanca una via di fuga: affidati alla macchina. Un algoritmo ti dirà cosa fare, una Intelligenza Artificiale ti guiderà, ti assisterà, ti proteggerà. In questo nuovo scenario la ricerca del Sé non è più motivata.

Se questo punto di vista vi pare troppo filosofico, o astratto, guardiamo la questione dal punto di vista politico. Da un lato sta un'élite del potere. A questa élite appartengono, accanto alla classe politica in senso stretto ed a chi è dedito ad operazioni di finanza speculativa, i tecnici digitali - coloro che disegnano strumenti e piattaforme, scrivono algoritmi, progettano varie forme di Intelligenza Artificiale. Dall'altro stanno i cittadini, esposti al rischio di diventare sempre più succubi, sudditi soggetti a leggi veicolate via software, ridotti a utenti.

Si parla della necessità di diffondere, nel nostro paese e nel mondo, la cultura STEM. E' una fondata esigenza. E' una fondata esigenza. Diffondere la cultura STEM significa portare tra i ricercatori, scienziati e tecnici, sempre in maggior misura esponenti di gruppi sociali diversi, più donne, persone di culture e origini etniche diverse. Più che cultura STEM dovremmo dire: culture STEM. Le discipline scientifiche e tecniche, sempre più specializzate, verticale, perdono di vista l'insieme, la complessità. Non si può più parlare a rigore di computer science o di informatica: le specializzazioni sono tante e tali che gli addetti ai lavori poco o nulla sanno al di fuori della propria specializzazione: si conosce un solo strato di codice, si pratica chiusi all'interno del proprio campo di ricerca. Espressioni-ombrello come 'Intelligenza Artificiale' sono pericolose per questo: gli 'esperti' che ne parlano conoscono una ridotta parte del campo. Nella formazione STEM la vista d'insieme, e quel pensiero che può orientare al dubbio e alla cautela sono assenti.

La formazione STEM dunque non basta. Più cresce la cultura STEM più appare evidente l'esigenza di un bilanciamento.

Educazione civica digitale

Dobbiamo dunque ragionare attorno a cosa serve insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado, consapevoli che lì si formano i futuri cittadini, ed anche i futuri tecnici e scienziati: educazione civica digitale. Potremmo forse dire meglio: educazione civica per il tempo digitale. Un tempo in cui si scivola passo dopo passo verso l'equiparare macchine ed esseri umani - finendo così per considerare che l'apprendimento umano e l'apprendimento della macchina non siano che due varianti di uno stesso modello.

Come mostro nel libro Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale, si finisce per proporre agli esseri umani, tramite piattaforme e app, le modalità di apprendimento che si sono rivelate buone per le macchine. Ignorando il senso stesso del latino ad-prehendere: avvicinarsi alla preda, acciuffare, andare a caccia. Di fronte all'acquisita capacità delle macchine di apprendere, dovremo quindi rivalutare gli umanissimi modi di insegnare e di ricevere insegnamento. Per coltivare la nostra umanità.

Si immagina l'insegnamento erogato, nei modi e con gli approfondimenti di caso in caso adeguati, ad ogni livello della formazione scolastica pre-universitaria.

Ecco dunque una proposta; la possibile traccia degli argomenti chiave.

Storia della tecnica

La storia della vita in senso lato, della vita sulla terra, la storia conosciuta da noi essere umano, non inizia nell'Anno Duemila. Può sembrare paradossale ricordarlo. Ma ogni avvicinamento alla cultura digitale, alle opportunità che porta con sé, ma anche alle minacce ed ai rischi che comporta, inizia con il nuovo secolo. Magari qualcuno risale qualche anno più indietro, a quando Negroponte pubblica Being Digital. Magari qualcun altro risale agli articoli fondativi di Alan Turing, 1936 e 1950. Ma manca in ogni caso la prospettiva, la profondità, l'attenzione ai tempi lunghi della storia.

Servirà dunque una Storia della tecnica. Dove la tecnica appare come attività umana legata alle epoche e alle culture. E dove il senso della techne greca è illustrato tenendo ben presente la traduzione latina ars. Che ci fa intendere la tecnica come arte, ma ci ricorda anche che la tecnica è sempre connessa agli arti, al corpo umano. Mente e corpo concorrono a creare strumenti. Servirà anche ben spiegare la differenza tra tecnica e tecnologia. Dove tecnologia , parola coniata alla metà del 1800, tesa a significare un uso della tecnica al sevizio di progetti industriali, orientati ad uno scopo di profitto. Non tutta la tecnica si riduce a tecnologia. La tecnologia non è la versione più evoluta della tecnica.

Buone storie di strumenti digitali pensati da esseri umani per essere più umani

Si è arrivati oggi a dare per scontata la necessità di trovare un interfacciamento, una convivenza, o magari una simbiosi tra esseri umani e macchine. Dove le macchine sono sempre più autonome rispetto agli esseri umani.

Ma dobbiamo affrontare di petto la questione. Stiamo parlando di formazione degli esseri umani. Scopo di questa formazione non dovrà essere l'abituare a convivere con la macchina. E' giusto che sia scopo della formazione la preparazione ad essere sempre più pienamente umani. Non certo perché si consideri l'essere umano superiore ad altri esseri viventi, ma solo perché noi stessi, io che scrivo e voi che leggete, siamo esseri umani che formano sé stessi.

Dunque sarà virtuoso andare a cercare, nella storia dell'informatica e della computer science, narrazioni esemplari di come si possa intendere una macchina pensata per accompagnare l'essere umano nell'essere più pienamente sé stesso.

Tre personaggi, tre storie di vita, sembrano esemplari.

Vannevar Bush nel 1945 anticipa e rovescia la domanda che si pone Alan Turing nel 1950. Turing, nell'articolo Computer Machinery and Intelligence, si chiede: Can machines think?, possono le macchine pensare? Ed anzi precisa: spero che presto le macchine possano pensare, meglio degli esseri umani ed al posto degli esseri umani. Bush ignora la domanda e la rovescia in una affermazione, già esplicitata nel titolo: As We May Think. Come possiamo pensare noi esseri umani se supportati da strumenti che ci supportano nel ragionare, nel ricordare, nel connettere tra di loro fonti.

Doug Engelbart, nel settembre del '45 legge l'articolo di Bush sulla rivista Life. Il Giappone si è ormai arreso, Doug, studente in ingegneria, è radiotelegrafista nelle isole Filippine. Doug promette a sé stesso, e in fondo a tutti noi esseri umani: costruirò la macchina immaginata da Bush. Verso la fine del 1968 presenta ad una platea stupita di informatici e computer scientist e informatici quello che è a tutti gli effetti il prototipo del personal computer.

Ted Nelson, poco più che ventenne, in quegli stessi Anni Sessanta immagina e sviluppa i primi prototipi di quel sistema che oggi conosciamo come World Wide Web. E' mosso dalla propria cultura umanistica, letteraria. Immagina una letteratura non chiusa in pagine e libri, ma aperta: una rete che connette ogni testo ad ogni altro, ogni parola ad ogni altra. Ed è mosso anche da una lessico medico e psichiatrico definisce ADD: Attention Deficit Disorder. Nelson si rifiuta di considerare il proprio modo di essere difettoso, malato, e così immagina una macchina che lo accompagni nell'essere sé stesso, trasformando l'apparente difetto in virtù. Da singolari equilibri di mente e di corpo, da eccentrici modi di pensare e di costruire conoscenza considerati dalla ‘scienza normale’ pericolose sindromi, nasce dunque quel computing che espande l’area della personale coscienza. Tutti noi oggi siamo arricchiti dalla possibilità di pensare muovendoci in una sterminata rete di connessioni, liberati dalla gabbia di un unico ordine, di una sequenza, di una gerarchia.

Le tre funzioni del codice

Ad ogni cittadino è offerto un insegnamento elementare. Saper scrivere e saper leggere, è il modo per partecipare alla scrittura delle leggi che reggono la partecipazione del cittadino alla cosa pubblica. E’ il modo per conoscere le leggi che siamo chiamati a rispettare. E’ il modo per partecipare alla vita sociale e politica.

Ma oggi tutto ciò che conta è scritto in un codice digitale, in una ‘lingua’ che solo tecnici specialisti conoscono, e che è invece inaccessibile ai cittadini. Si tratta, oltretutto, di una lingua progettata per essere letta da macchine, e non da esseri umani.

Così al cittadino è negata anche la possibilità di controllare ciò che è scritto nel codice. E risulta impossibile distinguere se a parlare all’essere umano è un essere umano o una macchina.

Appare di scarsa o nulla utilità un insegnamento di base di uno dei tanti linguaggi di programmazione. Il primo passo per rendere percepibile la pericolosa situazione sta invece nello studio del concetto di codice. A partire dalla sua triplice funzione. Il codice è innanzitutto un supporto - sia si tratti di una tavoletta di cera, di un foglio di carta, o una piastrina di silicio. Il codice è un sistema di segni, un linguaggio di scrittura. Il codice è un testo scritto tramite un linguaggio sul supporto.

Così, alla luce di una riflessione del triplice mostrarsi del codice, potrà essere proposta la riflessione su sul codice digitale: una lingua pensata rivolgersi a macchine è infine imposta come nuova, più evoluta lingua, agli stessi esseri umani.

La discontinuità digitale

Di fronte all'insistente propaganda dell'innovazione, del progresso, della crescita esponenziale, dell'hype, serve -come bilanciamento e chiave di lettura- una attenzione alla storia. Serve saper vedere la storia di lungo periodo, per smitizzare apparenti novità, e serve anche consuetudine con la storia centrata sugli eventi, per cogliere le vere discontinuità.

In particolare, appare necessario soffermarsi su una discontinuità. E' una novità del Ventesimo Secolo il progetto di sostituire in toto l'essere umano con una macchina. Macchine progettate per pensare al posto degli esseri umani. Macchine progettate per prendere il posto degli esseri umani in ogni lavoro.

Un programma di educazione civica digitale rivolto agli esseri umani non potrà ignorare questa novità. Siamo infatti di fronte ad un bivio. O preparare gli esseri umani a convivere, a interfacciarsi, a entrare in simbiosi con macchine, algoritmi, Intelligenze Artificiali. O preparare gli esseri umani ad essere più pienamente sé stessi, consapevoli della propria storia, e allo stesso tempo delle proprie potenzialità. Timidezze o ambiguità nella scelta tra le due opzioni rendono vana l'educazione. In questo programma si opta per la seconda via.

Tre vie per essere cittadini oggi

Di fronte alle novità e agli interrogativi che le nuove tecnologie impongono a noi esseri umani, possiamo individuare atteggiamenti necessari. L'educazione civica digitale dovrà preparare ad assumere questa posizione.

Non rinviare nel tempo

Ci dobbiamo preparare ad evitare la più comoda, ma anche la più grave ed irresponsabile, delle vie di fuga.

Non si può ignorare la presenza di ricerche riguardanti temi critici, come -per fare solo due esempi- la sostituzione di ogni lavoro umano o le armi autonome dotate di Intelligenza Artificiale.

E' facile dire: sì, esistono potenziali rischi e problemi, ma non sono così imminenti. E' facile dire: ce ne occuperemo a tempo debito. O peggio dire: se ne occuperanno i nostri nipoti.

Meschina appare l'opinione di chi si consola rinviando nel tempo la questione, considerando che gli effetti più perversi si manifesteranno solo in tempi futuri. Ingenuo e disinformato chi minimizza.

Evitare la sottrazione incrociata

Scienziati e tecnici si sottraggono dal farsi carico dei possibili usi di ciò sperimentano e sviluppo dicendo: a noi compete ricercare e innovare, delle conseguenze dei nuovi ritrovati si deve occupare la politica. Il cittadino si sottrae dicendo a sé stesso: non posso capire, non sono all'altezza. C'è sempre qualcun altro che deve occuparsene; con il risultato che non se ne occupa nessuno.

La responsabilità sociale e l'azione politica nascono sempre dal non rifiutare di assumersi responsabilità personali. Dovremo quindi evitare una seconda via di fuga, consistente nell'attribuire la responsabilità ad un soggetto diverso da noi stessi, quale che sia il nostro ruolo.

Non nascondere il male dietro il bene

Di fronte ad ogni novità tecnologica si potrà sempre facilmente dire: questo ritrovato serve a salvare vite umane. Così è, per fare solo due esempi, per le automobili a guida autonoma come per la connessione tra cervello umano e computer tramite nanofili di silicio.

Dovremo apprendere, tramite l'educazione civica digitale, ad evitare anche questa via di fuga. Chi sostiene che il ritrovato tecnologico è utile a salvare vite umane, sta nascondendo a sé stesso e agli altri che quello stesso ritrovato comporta anche, e spesso in maggior misura, il rischio di danni gravissimi non solo agli esseri umani, ma in senso lato a ciò che chiamiamo 'vita' e 'natura'.

L'educazione civica digitale dovrà quindi fare appello non tanto alla ragione o all'intelligenza, ma a quella umana attitudine che chiamiamo saggezza.

Questo articolo è stato pubblicato su Agenda Digitale il 22 aprile 2021 con il titolo Educazione civica digitale: cosa insegnare e perché è necessariaQui l'articolo.

mercoledì 14 aprile 2021

Onlife

 On life: se non avessimo perso l'abitudine a cercare il senso nelle espressioni in lingua straniera che ormai usiamo senza pensare, ci potrebbe venire in mente “sulla vita”: si tratta forse di un pensiero rivolto alla vita sulla terra, alla natura, alla vita umana?

Si tratta invece di un neologismo creato, o comunque diffuso, da un personaggio di pubblica notorietà, che ha eletto sé stesso a profeta o divulgatore di una nuova cultura digitale ai quali i cittadini tutti dovranno adattarsi.

Il neologismo è calcato sull'espressione inglese on line. Facilissima da tradurre con una identica espressione italiana: in linea.

Linea è una bella parola che ritroviamo in ogni lingua moderna, rimanda a una pianta usata da noi esseri umani fin da tempi remoti: il lino. L'idea di linea discende dall'osservare il filo di lino. Essere on line, in linea, è essere connessi tramite un filo. C'è della poesia nell'immagine che ci vede tutti connessi tramite sottili fili di lino. Più pesante, incombente, è un sinonimo di online: wired. L'inglese wire, discende da una radice protogermanica che sta per 'metallo'. Dunque un filo di ferro, che può essere torto e piegato.

Basterebbe dunque dire che viviamo nell'era della connessione. Tramite strumenti digitali, noi cittadini del pianeta siamo connessi l'uno all'altro.

Ma dire questo non basta al noto divulgatore. Egli intende educare il popolo, condurlo ad una disciplina. Cosa significa essere umani nell'era digitale? Si dovrà dunque far credere a noi esseri umani di essere oggi sbalzati in una dimensione dove le dicotomie fra reale e digitale, e tra umano e macchina non sono più definibili in maniera nitida.

Ecco dunque il noto divulgatore coniare la nuova espressione, buona per far capire il concetto al cittadino, considerato incapace di pensare in proprio e veramente comprendere. Il divulgatore constata: viviamo in nuovo ambiente, fatto di esperienze online e offline: esperienze vissute a prescindere da connessioni, e esperienze che sono conseguenza di connessioni. E fin qui possiamo facilmente essere d'accordo con lui.

L'umana consapevolezza può ben esserci di aiuto nel distinguere i momenti della vita, scegliere quali strumenti usare, decidere il come usarli, quando e dove. L'essere umano può scegliere quando e come perché, e con quali cautele usare una piattaforma digitale. Certo, questo richiede educazione, attenzione, senso di responsabilità. E' importantissimo oggi lavorare a formare questa nuova coscienza sociale e politica. Ma cosa dice invece il noto divulgatore: state vivendo in un'ibrida onlife. La condizione è data per fatale e per ineluttabile.

Ricalcando on line, si dice: on life. Una comoda assonanza tra due parole inglesi permette di un salto concettuale: un filo di lino non è nulla rispetto alla complessità della vita; eppure lì dove si parla di connessione, si vuol far pensare che si parli di vita intera.

C'è un esempio che il noto personaggio porta in ogni occasione. La società dell'informazione è la società delle mangrovie. Le mangrovie crescono nel delta del fiume, dove l’acqua dolce (l’analogico) si confonde con l’acqua salata del mare (il digitale). Ed è in questa dimensione ibrida, in questa acqua salmastra, che crescono le mangrovie, il mondo onlife.

Possiamo ripeterlo: la complessità della vita è ridotta ad una opposizione: analogico o digitale. Badate bene: analogico e digitale sono aggettivi che descrivono macchine. Certo, possiamo intendere l'essere umano come una macchina, e confrontare l'essere umano con altre macchine, e cercare la convivenza tra esseri umani e macchine. Ma è questo che vogliamo? Vogliamo considerare noi stessi come macchina, intendendo per macchina un computer, o magari una 'intelligenza artificiale'? C'è una ricchezza nell'essere-in-connessione degli esseri umani, nella società umana, nella vita umana, che la parola nuova onlife ci porta a dimenticare, o a considerare irrimediabilmente persa.

Le metafore, del resto, vanno usate con cautela. Sono narrazioni: dobbiamo accettare che ci dicano più di quanto appare a prima vista. O ancora: dobbiamo accettare che, al di là delle intenzioni dei noti divulgatori, parlino in modo differente ad ogni essere umano.

Un'arte tipicamente umana è il narrarsi storie. Ecco dunque cosa mi evoca la parola onlife, spiegata attraverso la metafora della mangrovia.

Ho vissuto e lavorato in un luogo la cui conformazione geofisica è la foresta di mangrovie. Il confondersi dell'acqua salmastra con l'acqua dolce non è che un aspetto. La marea sale e il suolo fangoso scompare alla vista e di questo intrico emergono ormai solo le chiome verdi. I rami si trasformano in radici. Il confine è sempre mutevole, non solo tra le acque, ma ancor più tra le terre. Isole emergono e scompaiono. Impossibile dire dove sta, tra San Lorenzo e Tumaco, tra Ecuador e Colombia, dove sta la frontiera.

Lì ho visto svolgere i lavori più disumani che abbia mai conosciuto in vita mia. Donne e bambini a raccogliere nel fango conchas prietas, apprezzati frutti di mare.



Ed oggi la zona è uno dei luoghi del mondo più crudeli, invivibili per gli esseri umani. Terra in mano alla malavita, a commercianti fuorilegge di droga e di armi.

Le mangrovie, e dietro le mangrovie l'onlife, parlano dunque anche di un pericolo, di una minaccia. Potremo certo muoverci su questo terreno. Ma ciò è possibile solo se ci manteniamo vigili.

La lezione che traggo da tutto questo è che a noi esseri umani compete la responsabilità di rispettare la natura e la vita. Ed anche la responsabilità di migliorare la natura e la vita, se possibile, ma sempre consapevoli del nostro farne parte.

Ci conviene pensare che l'onlife non è altro che una parte della vita che quotidianamente viviamo. Un terreno che possiamo esplorare.

Questo testo è stato pubblicato il 6 aprile 2021 sul blog Oltrepassare.

lunedì 12 aprile 2021

Essere umano o macchina. Un dilemma

È troppo facile dire: vogliamo un’Intelligenza Artificiale allo stesso tempo “robusta e benefica”. Di fronte alle implicazioni morali di innovazioni tecnologiche che minacciano la salute collettiva e il futuro del pianeta e il senso stesso della vita, è sconsiderato dire: la libertà di ricerca e l’etica possono andare a braccetto. Non è degno di esseri umani responsabili dire: l’etica consiste nel cercare “il giusto mezzo”. Perché ci sono momenti in cui le scelte si impongono. Giunti al dunque, non si può andare contemporaneamente in due direzioni: si deve scegliere una strada. 
Questo è in fondo l’insegnamento di quell’antica modalità di pensiero che gli antichi greci chiamavano dilemma: scelta tra due contrastanti soluzioni, quando ogni altra via d’uscita sia esclusa. La virtù formativa del dilemma si basa dunque sul togliere spazio agli alibi, alle vie di fuga, ai compromessi. Cercherò di argomentare qui a proposito di un dilemma: uomo o macchina. Forse è anzi meglio dire: essere umano o macchina, per ribadire che è una questione che riguarda ogni persona, non solo i maschi.
Conviviamo con macchine da tempi remotissimi: da quando usiamo l’aratro, il tornio e la fresa. 
La modernità ha portato con sé una significativa novità. Alla fine del Settecento. Sono entrate allora in campo macchine capaci non solo di accompagnare l’uomo nel lavoro, ma di sostituirlo: caso esemplare i telai meccanici governati da schede perforate e mossi dal vapore. Ma la rivoluzione che stiamo vivendo è più radicale. Più drastica. 
Nell’Ottocento, e nella prima metà del Novecento, la macchina accompagnava l’essere umano, lo sostituiva in attività faticose e ripetitive. Oggi siamo alle prese con la cosiddetta trasformazione digitale, il cui senso in fondo si riassume in questo: l’essere umano può essere sostituito dalla macchina in toto, in ogni attività mentale e fisica. Questa, infatti, è la promessa dell’automazione, della robotica, dell’Intelligenza Artificiale. 
È qui che si pone con drammatica evidenza il dilemma, che contrappone essere umano e macchina. Un difficile argomento. Una accurata propaganda tende a far apparire retrogrado, nemico del progresso e dell’innovazione chi prova a leggere in luce critica il passaggio al digitale. 
La narrazione più comune è appunto quella consistente nel sostenere che si può dare al contempo un colpo al cerchio e uno alla botte: un colpo al cerchio dell’etica e un colpo alla botte dell’innovazione senza limite. 
Ma il rigore logico del dilemma ci ricorda che non si può tenere il piede in due scarpe. Ci sono situazioni in cui si deve scegliere. Di fronte al dilemma si sono trovati i ricercatori impegnati nello sviluppo delle armi nucleari. Non dissimile è la situazione dei ricercatori impegnati sul fronte dell’automazione, della robotica e dell’Intelligenza Artificiale. 
Personalmente, sono appassionato esploratore di nuove frontiere tecnologiche. Provengo da una formazione umanistica, ma ho anche lavorato da professionista nel campo dell’informatica. Per tanti anni ho scritto cercando di mostrare gli indiscutibili, non sempre ben compresi, aspetti positivi, delle tecnologie digitali. 
Il personal computer, anche sotto forma, oggi, di smartphone, allarga l’area della coscienza di ogni essere umano; offre nuovi spazi di libertà e di relazione interpersonale. Ma proprio per questo non voglio chiudere gli occhi di fronte alle minacce. 
Oggi il dilemma essere umano-macchina non può e non deve essere eluso. Scrivo di questo in Le Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati 2020. Mi limito qui a sottolineare quello che mi pare un passaggio chiave, che nel mio libro cerco di illustrare. 
La tanto celebrata cultura scientifica, tecnica, ingegneristica e matematica, STEM, come si dice con una sigla entrata nell’uso comune, nasconde questo pericoloso risvolto. I tecnici dicono: noi facciamo ricerca, questo è il nostro lavoro, questo è il nostro impegno etico, innovare e ricercare comunque. Delle conseguenze e degli usi delle nostre ricerche, altri dovranno occuparsene: i politici, i cittadini. 
Il tecnico, insomma, si chiude in laboratorio, e qui crea macchine. Il tecnico cessa di sentirsi cittadino. I cittadini così, a loro volta, si trovano costretti nel ruolo di sudditi, o più precisamente di utenti, deprivati di spazi di libertà, obbligati a usare macchine sulla cui costruzione, sui cui scopi nulla hanno potuto dire.
Si torna dunque alla necessità, all’urgenza di una formazione adatta ai tempi. Rivolta ai cittadini e ai lavoratori, tesa a far sì che si affermi un controllo civico, pubblico, diffuso sulla progettazione delle macchine. Rivolta a tecnici, ricercatori, scienziati, tesa a ricordare loro che essi non appartengono ad una casta, a una comunità a parte, ma sono anch’essi niente altro e niente più che esseri umani, e cittadini.

Questo articolo è apparso il 15 settembre 2020 su FormaFuturi, magazine di Asfor e Apaform.

sabato 3 aprile 2021

Quale filosofia per i tempi digitali

Sommario

Di fronte alla 'novità digitale', dove sembra che l'umana capacità di pensare possa essere trasferita ad una macchina, la filosofia è sempre più necessaria. Ugualmente è necessaria filosofia di fronte alla conoscenza scientifica, settoriale e specialistica, fondata su linguaggi escludenti.

Purtroppo ciò che vediamo accadere è invece la genuflessione della filosofia di fronte alla 'novità digitale', alla scienza ed alla tecnica.

Ma più che di morte della filosofia si deve parlare di resa dei filosofi. 

Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome. Possiamo anche affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione. Possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell'essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi e la propria saggezza.



Il filosofo non è il sapiente, è l'amatore di sapienza. Non chi ha acquisito la sapienza, ma chi tende ad essa. Chi desidera attingere a conoscenza. Il filosofare è il pensiero che va oltre limiti e costrizioni, cercando il sapere al di là di ogni conoscenza settoriale. Per questo si arriva a proclamare la morte della filosofia: di fronte al proliferare di discipline, una conoscenza multidisciplinare appare oggi inattingibile.
Abbiamo assistito negli ultimi secoli al trionfo del pensiero scientifico e tecnico. Scienziati e tecnici non sono filosofi, perché rinunciano a priori ad accettare la complessità, la rete che tutto connette, l'interlacciamento, il garbuglio che lega tra di loro i saperi specialistici. Non solo scienziati e tecnici di discipline diverse non sono in grado di parlare tra di loro, ma anche all'interno della stessa disciplina la ricerca procede per crescente specializzazione. Esemplare il caso dell'informatica: chi conosce un codice non conosce l'altro, chi lavora su una tecnologia ignora del tutto l'altra. 
Si potrebbe da questa situazione dedurre che la figura del filosofo acquista oggi, nell'Era Digitale, una nuova centralità. Si potrebbe sostenere che più che mai servono oggi filosofi: esseri umani liberi pensatori tesi oltre ogni conoscenza settoriale, specialistica. Disposti a cercare il 'dischiudimento': la conoscenza narrata andando oltre i linguaggi escludenti degli addetti ai lavori. Disposti al rischiaramento: l'illuminazione che rende chiaro l'oscuro. Disposti a svelare il senso nascosto, quel senso che ogni scienza nomina e descrive a suo modo. Si potrebbe pensare al filosofo come al miglior compagno per il cittadino che cerca una via per addentrarsi nella novità digitale. 
  
Filosofie digitali 
Ciò che vediamo accadere, è qualcosa di diverso. Più che di morte della filosofia, possiamo forse parlare di resa dei filosofi. 
E' in fondo una resa quella dei finissimi pensatori che restano legati al passato, e lo proiettano sul presente che resta incompreso, non studiato né veramente accettato. L'antico esercizio si ripete uguale, si rileggono i classici e alla loro luce tutto si spiega. Bellamente si evita così di prendere in esame il mondo che si ha sotto gli occhi, di esercitarsi a comprendere ciò che in tempi recenti è accaduto ed emerso. Scienza e tecnica, ai loro occhi, nulla di differente mostrano, tutto è giù stato visto e detto. Tantomeno rilevante appare al loro sguardo la novità digitale. Non c'è non c'è discontinuità, catastrofe che non venga ricondotta a ciò che la storia in tempi andati ha già mostrato. Si evita così di osservare la novità che interroga. 
Basta citare un aspetto della novità: mai prima degli ultimi cent'anni, mai prima dell'apparire sulla scena della macchina digitale si era immaginato che potesse essere progettata da un umano una macchina in grado di prendere il posto dell'umano. Sostituendolo, come propone Turing, anche nel suo agire più alto e più nobile: il pensare. La novità è evidente – eppure si sceglie di non vederla. 
Altri filosofi di gran traiettoria hanno invece accettato la discontinuità: scienza e tecnica hanno ormai trionfato. Hanno accettato il fato avverso: la filosofia è ormai obsoleta. Con un misto di invidia nei confronti degli scienziati e di rimpianto per il tempo che fu, questi filosofi continuano a esercitare il loro pensiero finissimo, ma rivolti al passato, ripassando la storia, distinguendo filoni. Umiliati dagli abbaglianti successi della scienza e della tecnica, dubbiosi si interrogano, e cercano di ritagliarsi spazi sul terreno ormai così solidamente occupato. Se andrà bene, d'ora in poi la filosofia sopravviverà come epistemologia, studio dei metodi e dei fondamenti della scienza. Eppure qualcuno di questi filosofi coraggiosamente cerca di trovare ancora motivi per non rinunciare all'antica vocazione al pensiero senza confini: si inchina ai suoi successi della scienza e della tecnica, ma osserva come ogni disciplina sia chiusa nella propria stretta cultura, chiusa proprio lessico. Conclude quindi che forse resta aperto un possibile ruolo: il 'traduttore', dedito a promuove il dialogo tra famiglie professionali di scienziati e tecnici. 
Altri filosofi ancora, anche in età matura o avanzata, si avventurano invece con giovanile baldanza nelle nuove terre scientifiche e tecniche. E soprattutto, con speciale entusiasmo, si dichiarano abitatori della terra promessa digitale. Proclamano allora la loro dedizione a far proprio il nuovo verbo. Osservano giovani generazioni per imitarne i comportamenti; leggono e citano con reverente attenzione testi che cantano la bellezza e le virtù di algoritmi e di intelligenze artificiali. Finiscono così per essere ingenui ed acritici apologeti di una nuova indiscussa verità. 
C'è poi il nutrito gruppo di filosofi che da subito hanno incassato la sconfitta, e che su questa sconfitta, con abile giravolta, hanno costruito la propria carriera. Privi di qualsiasi nostalgia o rimpianto per un ruolo perduto, semplicemente badano a crearsene uno nuovo. Essi hanno rinunciato sotto ogni aspetto al pensiero senza limiti e costrizioni. Si sono fatti al contrario sacerdoti di un singolo, settoriale, escludente campo di ricerca. Hanno rinunciato ad essere 'filosofi', per essere invece 'filosofi di ...'. Non una, ma enne filosofie. Ognuna commenta e celebra la storia di una disciplina, la sua pretesa autonomia, ognuna si fa custode di un lessico specifico, di un metodo di ricerca. Filosofie di servizio, al servizio, abbelliscono così il panorama di ogni disciplina. 
Di queste filosofie fattesi ancelle di singoli rami della scienza e della tecnica, sono caso esemplare le varie filosofie, ognuna delle quali accompagna una sfaccettatura della ricerca e dello sviluppo nel campo della computer science. Filosofie con l'aggettivo, dove 'digitale' è solo uno dei diversi aggettivi usati. 
Il filosofo qui ha un ruolo di complemento; ruolo che può essere esercitato con un grado di libertà non concesso agli addetti ai lavori: tecnici, imprenditori e finanziatori. Il tecnico è impegnato a costruire strumenti e sistemi che funzionino davvero. L'imprenditore e il finanziatore cercano il ritorno dell'investimento. Il filosofo si limita a cantare le gesta. Storia e tradizione ci ricordano il filosofo che attraversava terre incognite alla ricerca di conoscenza, il filosofo che sondava l'oscuro alla ricerca della luce. Ma ora il pensiero che conta e quello degli scienziati e dei tecnici; il filosofo si limita ad accompagnarli. Ma in questo accompagnamento, il ruolo della filosofia appare rovesciato. Il vecchio filosofo cercava il rischiaramento. Il nuovo filosofo cerca l'oscurità. Neologismi e gerghi, abbondantemente usati, hanno un preciso scopo: confondere il cittadino, intimidirlo, mostrando la forza e la superiorità della tecnica digitale. E quindi, anche, la necessità del nuovo filosofo-accompagnatore. 
  
Spiacevoli costanti 
Le filosofie digitali appaiono accomunate da due spiacevoli costanti. Questa costante è la terzietà. 
La prima costante consiste nell'ambito di indagine e nell'ampiezza dello sguardo. Questi nuovi filosofi guardano esclusivamente al terreno digitale. Ciò che esiste al di fuori, al di là, del terreno digitale -la vita, la natura- è ignorato o rimosso. La storia del pensiero degna di essere presa in considerazione inizia con Alan Turing. Di quel vasto e sfumato esercizio umano che possiamo definire con la parola 'pensiero' sembra degno di restar vivo solo ciò che computabile, cioè calcolabile tramite una macchina. 
La seconda costante della filosofia dell'era digitale è la terzietà. Sul terreno digitale, si afferma, esistono due 'agenti ': l'essere umano e la macchina. Di fronte alla duplice presenza, il filosofo sceglie di seguire la via del fair play indicata da Alan Turing: offrire ad entrambi gli agenti le stesse chances, le stesse probabilità di successo. 
Il nuovo filosofo si pone nella posizione di estraneo, imparziale osservatore privo di interessi in comune con entrambe le parti in causa. Ci sono certo accenti diversi. C'è il filosofo digitale che mostra compassionevole interesse per gli esseri umani, e c'è il filosofo digitale che scommette sull'avvento di nuovi esseri digitali, di macchine morali che saranno migliori degli esseri umani. Ci sono filosofi che di fronte ad ogni innovazione tornano a dichiararsi sostenitori di una tecnologia Human-centered. E ci sono filosofi che invece si lanciano decisamente sullo scenario post-umano. 
Ma in ogni caso il nuovo filosofo considera doveroso produrre il massimo sforzo soggettivamente possibile per allontanare da sé ogni umana inclinazione; considera doveroso allontanarsi dal proprio essere umano.

Turing, Heidegger, Wittgenstein 
Insomma, nel Ventesimo Secolo si afferma una filosofia che guarda con lo stesso distacco ad esseri umani e macchine. Celebra infatti Turing, che era mosso dalla speranza di poter costruire una macchine migliore di lui stesso. 
Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein rispondono a Turing. Come ho mostrato in Macchine per pensare. L'informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi, entrambi avevano ben presente in cosa consistesse quella novità che oggi comunemente riassumiamo tramite il termine digitale. Heidegger ci parla del senso dell'esperienza umana: si impara ad usare il martello nel martellare. Ma qualcosa cambia quando l'essere umano è privato della possibilità di fare esperienza, perché gli sono proposte o imposte esperienze già confezionate, progettate da tecnici nel chiuso dei loro laboratori. Come mostro nelle Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale, questo è ciò che accade nell'odierna situazione digitale. 
E' sempre Heidegger a ricordarci che l'agire umano pienamente inteso consiste nell'accettare di trovarsi sbattuti a vivere in una terra sconosciuta, nell'essere nella condizione di chi si trova ad avventurarsi in luoghi dei quali nulla sappiamo veramente. 
Ora, proprio questo appare essere l'atteggiamento più conveniente per noi esseri umani di fronte alla novità digitale. Ci conviene pensare che ci avventuriamo nell'ignoto. Ignoto per tutti. Nessuno dei tecnici dediti a progettare un qualche aspetto della scena digitale ha una visione d'insieme. Nessuno di loro sa veramente cosa sta facendo. Anche i cosiddetti 'nativi digitali' si avventurano su un terreno nuovo - e nel farlo non dispongono nemmeno dell'esperienza di chi ha vissuto nel tempo precedente, e ha visto emergere la novità digitale. Heidegger ci dice: vivere è sentire su di sé il peso di una ansiosa preoccupazione, ed è solo da questa inquietudine che può nascere l'agire efficace e allo stesso tempo responsabile. Questo vale per ogni essere umano, ma innanzitutto per chi oggi progetta strumenti o mondi digitali. Heidegger ci ricorda che il progettare è sempre connesso al progettare sé stessi; è connesso alla personale ricerca di consapevolezza, alla personale saggezza. 
Facile notare come i filosofi digitali scelgono invece la via opposta. Non chiamano il progettista a fare i conti con la responsabilità personale. Al tecnico è chiesto solo di sviluppare nuove tecniche. 
Il filosofo digitale si rivolge semmai al cittadino, invitandolo a non dubitare, a fidarsi, a prendere per buona ogni innovazione. 
Wittgenstein non è tanto lontano da Heidegger quando ci invita a considerare che pensare significa superare quei umilianti momenti in cui siamo costretti ad ammettere: 'non mi ci raccapezzo', 'non so che strada prendere', 'non so come venirne fuori'. In questi momenti, forte è la tentazione di rinunciare, e di lasciare alla macchina il compito di pensare al nostro posto. 
Dice ancora Wittgenstein: noi siamo, quando filosofiamo, come uomini primitivi, come dei selvaggi, che ascoltano le espressioni di uomini civilizzati, le fraintendono, ma sanno poi sanno andare oltre, e trovare un senso. 
In effetti oggi è difficile, all'apparenza impossibile, mantener vivo l'approccio trans-disciplinare, multi-disciplinare, disposto alla complessità. Difficile abbracciare l'enorme e sempre crescente massa, l'intrico di conoscenze. Difficile anche accettare l'abisso della propria ignoranza, la povertà degli strumenti di cui disponiamo. 
Noi umani nel pensare ci muoviamo a tentoni, privi di certezze, guidati da deboli congetture. Ma proprio questo è il filosofare: sondare l'oscuro. E proprio qui sta l'amore per la sapienza: io, essere umano, nonostante tutto ci provo, e in questo tentativo sta la mia etica. 

Pensiero critico 
Questo umano pensare responsabile, riflessivo, per quanto possibile saggio, non rifiuta certo il progresso e l'innovazione. Possiamo guardare anzi con appassionata, affascinata attenzione a tutto ciò che di nuovo scienza e tecnica propongono. 
Eppure possiamo ritenere inutile una 'nuova filosofia' che si fa paladina della scienza e della tecnica. Possiamo sostenere, al contrario, che serva oggi una filosofia che si ponga come costruttiva critica della scienza e della tecnica. 
Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome. Possiamo anche affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione. Possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell'essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi. 
Non importa se si tratta forse di una 'posizione di minoranza'. Di minoranza, perché lontana dalla posizione di scienziati e tecnici, che avanzano nella ricerca senza porsi troppe domande. Di minoranza, perché il mainstream della filosofia si è inginocchiato alla scienza. Di minoranza, perché i filosofi digitali hanno scelto la terzietà, l'indifferenza tra l'umano e il macchinico. In un senso più ampio, di minoranza anche perché forse Intelligenze Artificiali e robot sovrasteranno l'essere umano, e una nuova capacità di ragionare surclasserà ciò che è umanamente possibile. 
Si può del resto sostenere che chi merita il titolo di filosofo si trova sempre in una posizione di minoranza. 
In ogni caso resta a noi essere umani la possibilità di fidarci di noi stessi. Quindi posso dire: anche quando, in un futuro forse non così lontano, esisteranno macchine più 'intelligenti' di noi umani, più capaci, più efficienti, magari anche più 'morali', continuerò, in quanto essere umano, a pensare. A filosofare. 

 Questo articolo è stato pubblicato su Agenda Digitale il 30 marzo 2021 con il titolo Perché l'era digitale ha bisogno di filosofia. Qui l'articolo. Lo ripubblico in questa sede perché nel testo che appare su Agenda Digitale sono presenti -sopratutto nella parte iniziale- alcune modifiche al mio testo originale nelle quali non mi riconosco.