lunedì 16 dicembre 2019

L'imperfezione dei linguaggi. Machine Translation e lingua Aymara

(Ripubblico qui un articolo che avevo pubblica su www.bloom.it il 27 agosto 2003. Mi pare ancora attuale. Anche se racconta di software degli Anni Ottanta del secolo scorso),

Mi ricapita in mano un libro di Umberto Eco dedicato alla ‘lingua perfetta’.1 Ragionando attorno all’idea di Europa, ci si può interrogare sulla differenza delle lingue, ponendo l’accento sulle difficoltà organizzative che ne conseguono. E naturalmente potremmo anche generalizzare: la globalizzazione dell’economia, così come il World Wide Web ci impongono l’esigenza di una unica lingua.
Questa esigenza deve convivere con il fatto che le lingue corrispondono in fondo alle culture, corrispondono a diversi atteggiamenti di fondo e a diverse letture del mondo, atteggiamenti e letture del mondo che non possono essere rimossi, non possono essere ridotti ad unità ‘per legge’, o per volontà politica.
Ecco quindi la necessità di ‘tradurre’: lo scambio da un mondo linguistico ad un altro porta con sé sempre una perdita di senso; potremmo dire anche che, al limite, la traduzione è una operazione impossibile: rendere veramente il significato in un’altra lingua è una operazione che può dare risultati solo parziali, si può esprimere il significato espresso in un lingua straniera solo attraverso analogie, come quando i primi spagnoli giunti in America non trovarono di meglio che chiamare ‘pigna’ uno strano, ignoto frutto del Nuovo Mondo, l’ananasso.
Si può dunque dire che una vera traduzione sarebbe possibile se non traducessimo da una lingua all’altra, ma traducessimo da ogni lingua in una lingua terza, idioma puramente veicolare, destinato mai a sostituirsi, ma semplicemente ad aggiungersi alla lingua originaria di ognuno.
Solo la lingua originaria è veramente portatrice di senso, la lingua veicolare si aggiunge e permette lo scambio tra diversi. Uno scambio efficace per garantire una prima comprensione, ma consapevolmente insufficiente, come accade quando si traduce la poesia: si lascia sempre accanto il testo nella lingua originale, perché è dato per scontato che la poesia è in fondo intraducibile, la traduzione non può rendere tutto. Ora, noi usiamo come lingua veicolare l’inglese, o meglio, appunto un basic english. Lo facciamo in mancanza di meglio. Perché l’inglese non nasce come lingua veicolare –come ogni vera lingua nasconde veri significati dietro l’apparenza– e quindi è in fondo inadatta allo scopo. Più adatto sarebbe l’esperanto, o simili lingue.
Insomma, secondo Eco (ed altri) una lingua veicolare ‘ottima’ è una lingua artificiale. Pensata già in origine come lingua aggiuntiva: come è stato detto, una LIA, Lingua Internazionale Ausiliaria. Risultano evidenti i vantaggi: pensiamo alla Babele delle lingue che è l’Unione Europea, pensiamo alla complessità organizzativa ed ai costi legati alla traduzione di ogni testo ufficiale nelle diverse lingue degli stati membri. Pensiamo al fatto che la traduzione di tutto ‘solo’ in inglese costituirebbe una semplificazione, un vantaggio pratico, ma un ingiustificato privilegio per uno degli stati membri.
Resta, naturalmente, la difficoltà insita nel progettare una simile lingua. E resta, ancora più grave, la difficoltà insita nell’imporre, politicamente e culturalmente e praticamente, l’uso di una simile lingua.
Si può poi aggiungere, a complicare il quadro, un ulteriore aspetto: se si pensa ad una lingua veicolare, intesa non come sostituzione ma come aggiunta, tesa a rendere comprensibile un contenuto a chi non conosce la lingua nella quale il contenuto è originariamente espresso, allora si deve potere ritener percorribile, almeno in linea di principio, la via della ‘traduzione automatica’, affidata al software. In questo caso l’interlingua potrà essere pensata come una lingua estremamente formalizzata, nel senso dei ‘linguaggi di programmazione’, una lingua cioè destinata ad essere compresa dal computer. Una lingua di natura algoritmica, capace di tradurre i concetti espressi in ogni lingua naturale, anche le sottigliezze, senza bisogno di fastidiose perifrasi.
Non senza fondamento dunque Ursula K. Le Guin –che è qualcosa di più di una scrittrice di fantascienza, potremmo dire una antropologa di un possibile futuro – immagina un domani in cui la lingua veicolare “lingua franca dei commercianti di tutto il mondo, dei viaggiatori e di quanti intendevano comunicare con persone di un’altra lingua madre” è proprio un evoluto linguaggio di programmazione.2
Si potrebbe pensare che questa lingua, di indiscutibile utilità, possa forse essere immaginata, ma sia difficile o impossibile da progettare. Non è così. Di fatto, già oggi la questione si pone con grande forza: notevoli investimenti sono dedicati allo sviluppo di machine translation system. Esempi in qualche misura efficaci sono disponibili a tutti noi come complemento ai motori di ricerca.
Ma c’è davvero bisogno di inventare qualcosa di nuovo? Studiosi –per primo il matematico e computer scientist boliviano Iván Guzmán de Rojas– sostengono di no. Questa lingua, forse, esiste da quattromila anni, è l’idioma di indios andini, abitanti nei pressi delle rive del lago Tititcaca, l’aymara.
C’è però un paradosso: l’ aymara (ci riferiamo qui in particolare alla sua versione formalizzata da Iván Guzmán de Rojas, l’Atamiri3), come forse ogni possibile ‘interlingua’ – può esprimere ogni concetto espresso in lingue mutuamente intraducibili – ma proprio a causa della sua ‘perfezione’ questa lingua risulta poi difficilmente traducibile nei nostri imperfetti, e diversamente sfumati linguaggi naturali.
Cosicché anche per questa via si torna alla circostanza fattuale che vuole ogni traduzione niente più che una più o meno soddisfacente perifrasi. Insomma, siamo in grado di comunicare, ma sempre in maniera imperfetta. Questo vale per la comunicazione tra uomo ed uomo, ma anche tra uomo e macchina, e tra macchina e macchina.
Proprio per questo divengono sempre più importanti le metafore e la ridondanza. Comunichiamo attraverso una Babele di linguaggi: la probabile comprensione, più che attraverso una possibile ‘esattezza’, passa attraverso l’accettazione della complessità, della possibilità del fraintendimento. Meglio abbondare, meglio ripetere, meglio conservare anche quello che appare scarto, meglio esprimere lo stesso contenuto attraverso modalità differenti. Forse le perifrasi non vanno considerate un fastidio, ma una necessità. Forse lì, dove si deve ricorrere a perifrasi, si annida il senso più profondo.

1 Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta, Roma-Bari, Laterza, 1993. (Appartiene alla collana ‘Fare l’Europa’ prodotta in coedizione insieme ad altre quattro casi editrici europee). Avevo snobbato questo libro, un po’ perché secondo me dopo il Trattato di semiotica e Il nome della rosa aveva esaurito la sua vena migliore, un po’ per un limite specifico che attribuisco alla La ricerca della lingua perfetta: non contiene nemmeno una citazione di un personaggio che a mio modo di vedere in questa storia non dovrebbe mancare: l’umanista spagnolo Elio Antonio de Nebrija. Negli stessi giorni in cui Colombo perorava la sua causa di fronte regina Isabella, Nebrija perorava un progetto diverso ma complementare. Spiegava alla regina che per edificare un impero insieme alla spada, e prima della spada, serve la lingua. Una lingua normalizzata, intesa come strumento di dominio e di controllo. Lo spagnolo nacque così: lingua ‘moderna’ in quanto codificata, imposta per legge, fondata su una grammatica ed un dizionario chiusi, stabiliti dall’autorità.
2 Ursula K. Le Guin, Always Coming Home, 1985; trad. it.Sempre la valle, Mondadori, 1986. E’ il TOK “che poteva essere pronunciato, oltre che battuto sulle tastiere”.
3 Esperti di machine translation system e di interlingue formalizzate hanno messo in discussione il legame tra aymara e Atamiri. In effetti, l’Atamiri è frutto delle capacità progettuali di Guzmán de Rojas, matematico. Ma è proprio Guzmán de Rojas ad affermare che la stuttura profonda dell’Atamiri è la struttura profonda dell’aymara. Per sconfermare questa affermazione si dovrebbe conoscere l’aymara meglio di Guzmán de Rojas. In lingua aymara, Atamiri significa “comunicatore”. http://www.aymara.org/biblio/5RepMatrC.pdf ; www.atamiri.cc/es/AtamiriSolution/History/ .

venerdì 6 dicembre 2019

Come narrare l'Intelligenza Artificiale al cittadino

Una narrazione in sei passi. E' la traccia che ho seguito il 3 dicembre 2019, nel primo dei due incontri sul tema L'Intelligenza Artificiale come risorsa civile o come furto di cittadinanza, presso la Casa della Cultura di Milano. Qui il video dell'incontro.

Uno. Il cittadino è un essere umano. Non un organismo vivente, non un animale, non una macchina.  Sembra un'affermazione scontata, ma non lo è.
C'è infatti la pretesa, già nella cibernetica, di imporre una unica definizione -organismi- capace di abbracciare alla stessa stregua esseri umani e macchine. Accettare questa definizione significa togliere le basi per qualsiasi discorso relativo alla cittadinanza.

Due. Il latino cives, 'cittadino', da una radice che parla di 'insediamento': processo, percorso verso un luogo.
Oggi questo modo di intendere la cittadinanza è particolarmente vero. Siamo tutti gettati in un novo mondo digitale, un mondo sconosciuto. L'ansia è inevitabile. L'ansia accettata, elaborata può trasformarsi in responsabilità. Responsabilità di scoprire come essere cittadini nel mondo digitale.
Questo vale anche per i tecnici, costruttori di strumenti e mondi digitali. Eppure tecnici e costruttori, salvo eccezioni, lavorano 'fuori dal mondo', considerandosi esentati dalle responsabilità del cittadino.

Tre. Intelligenza Artificiale: è una espressione ombrello che copre ambiti differenti.
Possiamo fissare due punti. Primo punto: l'Intelligenza Artificiale nasce alla metà degli Anni Cinquanta del secolo scorso come 'imitazione e simulazione dell'intelligenza umana'. Secondo punto: l'Intelligenza Artificiale appare sessanta anni dopo come ambigua oscillazione tra l'aiuto all'essere umano e la  sostituzione dell'essere umano.

Quattro. Il senso dell'intelligenza umana può essere avvicinato a partire dalla storia della parola. Il latino legere è 'raccogliere'. Ancestrale attività umana. L'essere umano ancestrale, cacciatore-raccoglitore, è rappresentato da due verbi latini: capere, 'afferrare la preda', da cui capire, e appunto legere. Raccogliere frasche. Inter legere. Inter: tra. trascegliere, scegliere tra le frasche raccolte. Sottilmente diverso è il verbo ex legere, da cui eleggere, ma anche scegliere. Ex: tirar fuori, estrarre.
Il verbo latino intelligere si accompagna a vari verbi che contribuiscono a dare il senso dell'umana intelligenza. Cogitare: agitare insieme, dove agitare riprende in modo più intenso il senso del verbo agere, 'agire. Considerare: 'stare con le stelle': astronomia e astrologia come vie per conoscere. Contemplare: 'osservare uno spazio celeste delimitato'. Pensare: derivato da pendere... Fino a putare,
da cui computazione, computer.
Il putare , tra tutti questi verbi, ci parla di uno solo tra i tanti diversi aspetti del pensiero umano, testimoniato dai diversi verbi. Ci parla solo di di riduzionismo e razionalità. Sta infatti per 'potare': quindi progettare come la pianta sarà, piegare per così dire la natura al disegno, considera ridondante, e quindi destinato all'eliminazione ciò non appare immediatamente legato ad una funzione.

Cinque. Si può ritenere che l'Era Digitale è la fase storica in cui si invera definitivamente l'Illuminismo. Illuminismo come ragione tecnica. Tecnica figlia della ragione.
Proprio nei tempi digitali la via dell'affidamento ai lumi della ragione mostra i suoi pericoli: le macchine sono più razionali degli esseri umani; la pura ragione porta alla sostituzione dell'essere umano con la macchina. La storia e la cultura dell'essere umano mostrano come serva controbilanciare la ragione con la saggezza. Se la macchina a suo modo intelligente può essere più razionale dell'essere umano, all'essere umano conviene cercare una via impraticabile per la macchina: la via della saggezza.
Si può ricordare il percorso di Goethe, che incapace di arrendersi a una lettura esclusivamente 'razionale' dell'Illuminismo torna a leggere Shakespeare, e sopratutto Spinoza. Nel decennio 1770-1780 appare il concetto dell'Illuminismo e allo stesso tempo si afferma la Rivoluzione Industriale. La natura appare materia prima da sfruttare. Spinoza, cent'anni prima aveva ricordato agli esseri umani il loro appartenere alla Natura.
Se si sente oggi necessità di 'sostenibilità' è perché l'ansia di progresso -visibile oggi in forma estrema nell'innovazione digitale- ha rotto un equilibrio al quale l'essere umano era abituato.

Sei. Nel 1945 Vannevar Bush scriveva As we may think. Immaginava come l'essere  umano avrebbe potuto pensare, se supportato da una macchina in grado di sostenerlo fornendogli fonti, permettendogli di connetterle tra loro, incrementando l'umana capacità di costruire reti di senso, e di muoversi nel conoscere come si muove il pioniere nel bosco, seguendo tracce.
Nel 1950 Alan Turing propone l'altra via. Scrive, in conclusione del suo articolo Computing Machinery and Intelligence: "We may hope that machines will eventually compete with men in all purely intellectual fields". Tante parole sono state spese a proposito di Intelligenza Artificiale. Tante vie si sono seguite nel tentare di svilupparla. Ma già qui, nell'articolo che apre il campo, si dice già che l'Intelligenza Artificiale si presenta forse anche come aiuto all'essere umano, ma è, fin dalle origini, potenziale sostituzione dell'essere umano.
Se il terreno 'puramente intellettuale' porta a dover competere con la macchina, converrà all'essere umano coltivare altri terreni, come quello della saggezza, dove la macchina non si propone come competitore. Perché la macchina di Turing, di Leibniz, si propone di imitare l'essere umano, o di competere con lui, sul piano della ragione, del riduzionistico potare. La macchina di Turing non si candida ad essere saggia. Invece di imporre a noi stessi di stare sugli stessi terreni su cui può stare la macchina, a noi esseri umani conviene scegliere i terreni sui quali la competizione della macchina è assente. Ci conviene per questo giocare sul terreno della saggezza.

giovedì 28 novembre 2019

I limiti della macchina imposti all'uomo. Un modo di intendere l'Intelligenza Artificiale


Se alla cibernetica poteva essere imputata la presunzione filosofica -comprendere e formalizzare le regole che presiedono alla vita-, alla computer science può essere imputato il comodo riduzionismo. Nel solco di Cartesio e di Leibniz -ma in assenza della finezza che caratterizzava il pensiero di Cartesio e di Leibniz- la computer science su una spettacolare serie di riduzioni.
Scrive Alan Turing nel 1950: “L’idea che sta alla base dei calcolatori digitali può essere spiegata dicendo che queste macchine sono costruite per compiere qualsiasi operazione che possa essere compiuta da un calcolatore umano. Si suppone che il calcolatore umano segua regole fisse; egli non ha l’autorità di deviare da esse in alcun dettaglio. Possiamo supporre che queste regole siano fornite da un libro, che viene modificato ogni volta che egli viene adibito a un nuovo lavoro”.1
Insomma: si assume che dell’agire e del pensare umano si debba prendere in considerazione solo una specifica attività: il calcolare. Si assume che del calcolare si debba prendere in considerazione solo una parte, il computare. Si assume che l’essere umano ridotto a ‘computatore’ sia costretto ad operare seguendo regole fisse, scritte in un Libro delle Regole, senza poter deviare da esse in alcun dettaglio.
C'è dunque, nel progetto di Turing, e quindi in tutta la computer science, un vizio originario: si propone sostituire l'uomo con la macchina. Con una macchina, però, di cui sono descritti i precisi limiti. Siccome la macchina può funzionare solo eseguendo un 'libro delle regole', un programma, si finisce così per assumere che anche il lavoro umano dovrà essere inteso come mera esecuzione di un programma. E' esclusa la creatività, la libertà, l'innovazione.
Cinque anni dopo la pubblicazione dell'articolo di Turing, appare il termine Intelligenza Artificiale. “Il tentativo è quello di procedere sulla base della congettura che ogni aspetto dell'apprendimento o qualsiasi altro aspetto dell’intelligenza può in linea di principio essere descritto in modo tanto preciso da poter essere simulato da una macchina”.2
Come apprende l'essere umano? In mille modi che qui possiamo ricordare per minimi accenni: apprende dalla propria storia, facendo esperienza, scambiando conoscenze con altri esseri umani, sperimentando, lanciandosi nell'ignoto... L'affermazione di principio su cui si basa l'Intelligenza Artificiale porta quindi a dire si tratta di insegnare ai computer ad imitare l'apprendimento umano. Non a caso oggi, sessant'anni dopo l'annuncio dell'Intelligenza Artificiale, con motivo si sostiene che più che di Intelligenza Artificiale sarebbe corretto parlare di Machine Learning, capacità delle macchine di apprendere.
Ma come si svolge il Machine Learning? L'originaria contraddizione del computing è ancora attuale. Si vuole imitare tramite computer il comportamento umano, ma si deve fare i conti con i limiti del computer, con ciò che la macchina è in grado di fare. Così la vasta e sfumata capacità di apprendere è ridotta dai computer scientist a tre sole modalità: apprendimento sorvegliato, apprendimento non sorvegliato, apprendimento rinforzato.
Ogni macchina digitale ha precisi limiti. Non ci sarebbe problema, per noi umani, se non fosse che siamo bombardati da una martellante propaganda: confida nell'intelligenza della macchina, fidati della macchina più di te stesso.


1   Alan Turing, “Computing Machinery and Intelligence”, Mind, Vol. 59, Number 236, October 1950, pp. 433-460. Poi in Alan Mathison Turing, Mechanical Intelligence, edited by Darrel C. Ince, North-Holland, Amsterdam-London-New York-Tokio, 1992; trad. it. Intelligenza meccanica, Boringhieri, Torino, 1994. Prima trad. it. “Macchine calcolatrici e intelligenza”, in Johann von Neumann, Gilbert Ryle, C. E. Shannon, Charles Sherrington, A. M. Turing, Norbert Wiener e altri, La filosofia degli automi, a cura di Vittorio Somenzi, Boringhieri, Torino, 1965, pp. 116-156.
2   John McCarthy, Marvin L. Minsky, Nathaniel Rochester, Claude E. Shannon, Proposal for the Dartmouth Summer Reaserch Project on Artificial Intelligence, August 31, 1955; vedi in: AI Magazine 27, 4, 2006, pp. 12-14.

giovedì 24 ottobre 2019

Scrivere è cancellare


Una studentessa durante una lezione del mio corso di Tecnologie dell'informazione e produzione di letteratura mi ha detto: 'Ma allora, seguendo questo ragionamento, scrivere è cancellare'.
Una delle novità più significative dell'epoca digitale consiste nel modo con cui ogni persona costruisce conoscenza.
L'epoca della stampa era caratterizzata dalla scarsità. Scarse le conoscenze documentate attraverso la stampa. Scarsa l'accessibilità alle fonti. Limitato nel numero di coloro che possono accedervi.
L'epoca digitale è invece caratterizzata dalla sovrabbondanza, dalla ridondanza, dal rumore, dalla libertà d'accesso.
Nell'epoca pre-digitale il lavoro di conservazione della conoscenza è condizionato dalla pochezza di mezzi ed è faticoso. E' faticoso scrivere, disegnare. Nell'epoca digitale disponiamo, senza bisogno di nessuno specifico lavoro, tracce di qualsiasi cosa accada: ogni parola detta può essere registrata e quindi anche facilmente trasformata in scrittura. Ogni evento può essere fotografato o filmato.
Nelle epoche pre-digitali esisteva una netta differenza di ruoli sociali tra scrittore e lettore – e possiamo facilmente proporre un'analogia: la distanza tra scrittore e lettore è la distanza tra docente e discente.
Nell'epoca digitale esiste in partenza per ogni cittadino la possibilità di essere al contempo lettore e scrittore.
Nell'epoca pre-digitale la pubblicazione esigeva un processo tecnico complesso e costoso. Nell'epoca digitale la pubblicazione consiste in una operazione semplicissima alla portata di ogni cittadino. Possiamo infatti considerare pubblicato ogni testo che abbiamo salvato sul disco del nostro personal computer o smartphone.

Possiamo insomma dire che in epoca digitale ci troviamo di fronte ad un enorme, sconfinato testo già scritto. Tutto è già scritto. Conoscere significa focalizzarsi su ciò che serve in questo momento, concentrarsi su una zona, su alcuni nodi dello sconfinato testo. Cioè conoscere significa cancellare mentalmente ciò che non serve in questo momento.

Da ciò deriva una netta discontinuità nella competenza chiave necessaria per costruire conoscenza.
Nelle epoche pre-digitali la competenza consisteva nel trarre il massimo profitto dalle poche fonti a cui si riesce ad avere accesso.
Nell'epoca digitale la competenza consiste nel non soccombere alla sovrabbondanza, ovvero nel saper selezionare, nel saper scegliere, nel saper attribuire autorevolezza scegliendo tra fonti simili. Saper scegliere in modo differente in considerazione di di diverse esigenze. Saper scommettere, tentando un'interpretazione personale.
E' compito della formazione della scuola, dell'università e della formazione degli adulti cogliere l'importanza di questa discontinuità. Oggi serve insegnare a scegliere da soli, assumendosene la responsabilità.

Nota. Ho trattato lo stesso argomento -in modo meno sintetico, più analogico e letterario, e forse anche più efficace- in questo post di dieci anni fa.

giovedì 20 giugno 2019

Per una cittadinanza digitale

Il ragionamento che guarda alla cittadinanza digitale può essere articolato a partire da tre parole.
Cittadinanza, partecipazione, digitale. Il ragionamento sulle tre parole porta, alle fine, ad aggiungerne un'altra: infrastruttura.
Partecipazione: il latino particeps è composto da pars e dal tema del verbo capere, 'prendere': partecipe è chi 'prende parte'. Interessante però soffermarci qui su pars, da cui in italiano parte. Pars è nome d'azione del verbo parere, 'produrre', il cui senso sta nel modo di 'produrre' umanamente più ricco: il partus, parto. Siamo portati a considerare la parte come qualcosa di dato, come se all'origine stesse una separazione: se, indicatore di separazione, parere. Ma in l'etimologia ci suggerisce una lettura più profonda. Ogni essere umano è parte, nel senso che è stato partorito. La separazione è solo la separazione del parto. La separazione sociale sta piuttosto nel verbo dividere, dove il senso originario sta nel vid:  'mancante di'. La figura sociale esemplare che ci parla del senso della 'divisione', ovvero della forzata separazione dal corpo sociale è la vedova, colei che è 'mancante di', 'costretta alla separazione'. E' così che la saggezza umana, in qualsiasi cultura, consiglia di preoccuparsi nella reintegrazione nel tessuto sociale delle vedove e degli orfani. Possiamo chiederci come la tecnologia possa sostenerci nel reintegrare nel tessuto sociale chi è costretto alla separazione. La parola device ci parla di questo: dalla consapevolezza della divisione emerge il tentativo di superarla, espressa dal verbo francese diviser, 'divisare'. Di qui l'inglese device.
Cittadinanza: il latino cives, 'cittadino', discende da una radice indoeuropea che sta per 'insediarsi'. L'insediamento è un processo, o meglio è frutto di un passaggio. L'origine sia del migrare che del mutare è ben raccontata dal verbo latino meare: 'passare per una data via'.  Il 'passaggio al digitale' è una migrazione verso una nuova cittadinanza. Importante notare che il cives prende in latino un significato giuridico. Ma il senso originale dell'espressione è più vasto e più profondo. Ne è testimonianza in fatto che dalla stessa radice discendono in sanscrito espressioni che stanno per 'caro'. Dunque la cittadinanza è una relazione tanto giuridica quanto affettiva.
Del senso della parola digitale, ho parlato e scritto in varie occasioni, per esempio qui. In fondo la parola digitale è deludente. Digitale non vuol dire altro che 'numerico'. La parola quindi ci ammonisce, chiamandoci a non ridurre la cognizione di noi stessi a ciò che è visibile tramite 'dati' espressi in numeri. L'umana capacità di conoscere non si riduce al 'pensiero calcolante'.
Nell'intento di guardare alla 'cittadinanza digitale', conviene chiamare in causa anche un'altra parola. Siamo chiamati a vivere su piattaforme, o meglio a vivere in infrastrutture. Meglio usare la parola infrastruttura, più ricca di senso ed istruttiva. Infrastruttura: in origine sta la radice indeuropea ster, che ha il senso di 'stendere'. Da questa radice in greco antico stratos, 'esercito schierato', e strategôs, 'capo dell'esercito'. Questa è quindi anche l'origine di strategia.
Dalla radice ster discende il verbo struere significa in latino 'disporre uno strato sopra l'altro'. Da struo il concetto astratto: structura. Anteponendo il cum, che porta in senso di vicinanza e compiutezza, si ha il verbo construo, da cui costruisco, e quindi costruzione, construction. Ed anteponendo il dis, che sta per separazione, dispersione, si ha il latino destruo, distruggo, e quindi distruzione, destruction. Dal verbo struere, ancora, il latino stratum, da cui anche strada. E' proprio lo strato, dunque, a dirci dell'originario senso della struttura: un continuo tentativo di assestamento, che avviene attraverso il sovrapporre in modo differente gli strati uno sopra l'altro, cambiando ad ognuno la posizione, o aggiungendo o togliendo strati. L'infra rafforza ulteriormente il senso: infra è in origine 'sotto', ma poi sta anche per 'dentro', 'fra', 'all'interno'.
Il rischio che corriamo nel vivere in infrastrutture è  ben rappresentato dalla differenza tra l'essere cittadini ed essere utenti. Se ci limitiamo a vivere in infrastrutture già costruite saremo ridotti a utenti. Saremo cittadini solo se parteciperemo alla costruzione dell'infrastruttura.

sabato 30 marzo 2019

Push vs. Pull. Appunti sulla libertà e sul controllo sociale ai tempi della Rete



Agli albori del nuovo secolo, e del nuovo millennio, la novità digitale trovava nella Rete, o World Wide Web, la sua manifestazione esemplare ed insieme il suo simbolo. Si faceva un gran parlare allora di due possibili modi di intendere la Rete. O meglio: di due diversi atteggiamenti degli esseri umani appetto della Rete. Ovviamente si faceva uso di due termini inglesi: pull e push.
Pull: applicare forza in modo da causare il movimento verso la fonte della forza. Portare a sé. Estrarre, tirar fuori. Forse da un originale senso di sbucciare, sgusciare, raccogliere frutta o fiori.
Push: applicare forza contro qualcosa o qualcuno. Spostare, colpire, guidare, premere, schiacciare. Spingere, imporre.
Pull: la Rete, galassia di fonti, è il luogo da cui l’essere umano può liberamente attingere, mosso dalla propria curiosità, dai propri bisogni e dai propri desideri.
Push: la Rete, sistema più o meno strutturato di informazioni, è la base a partire dalla quale le informazioni saranno saranno trasferite, nel dovuto momento, nella mente e nel corpo di ogni essere umano.

Nel suo primo apparire, l'alternativa Pull vs. Push riguarda il marketing: disciplina nata nel Ventesimo Secolo con l'affermarsi della società dei consumi. Non basta il pull, la libera scelta di acquistare. Serve il push: la domanda di beni e servizi dovrà essere forzata tramite varie forme di rèclame, advertising, propaganda, sempre più specializzate per ambito merceologico, pubblico destinatario, tecnologie adottate. La domanda dovrà essere forzata anche attraverso la sempre più attenta predisposizione di canali e punti di vendita.
Il marketing definisce una figura sociale: il cliente. Il cliens, nell'antica Roma, era il membro di un gruppo sociale bisognoso di protezione. Il verbo cluere e la radice indeuropea retrostante stanno per 'ascoltare', 'ubbidire'. Il cliente, incapace di pull, incapace di soddisfare autonomamente i propri bisogni, vive del push del patronus. Patronus è pater, 'padre', discendono dallo stesso etimo e stanno per 'protettore e nutritore'. Il patronus sceglie a nome del cliens, sa cosa è meglio per lui. Nella logica del push il fornitore impone al cliente ciò che dovranno apparire come i suoi stessi bisogni.

Il marketing sembra trasformarsi, attorno all'Anno Duemila, in Customer Relationship Management. Con l'apparire sulla scena della Rete, i cultori del marketing sembrano convertirsi,. La Rete, secondo le prime entusiastiche letture, pone al centro la persona. Ogni singola persona è un nodo della Rete così come la Ford o la Coca Cola. Sembra cambiare l'ottica: è la persona a scegliere, a eleggere, confrontando offerte dirette, il proprio fornitore. Al posto del cliente sembra così apparire una nuova figura, l'eroe del pull: il customer. Il customer è il libero cittadino visto dal punto di vista del fornitore. Qui il fornitore lascia che sia il cittadino a scegliere. Il fornitore scommette sulla speranza che il cittadino per propria iniziativa, voglia consolidare l'abitudine, la consuetudine, il costume, di acquistare i suoi prodotti e servizi. La scommessa, basata sulla fiducia, va oltre. Si immagina un patto dove fornitore e customer cooperano: il prodotto o servizio sarà, in questa prospettiva, sempre più, frutto di un progetto condiviso dai due attori.
Ma questa epoca d'oro dura poco. Il marketing torna presto al suo originario orientamento al push. Le piattaforme digitali cessano di essere luogo di libera scelta, e passano al contrario ad essere il luogo del più feroce e invasivo push. L'ambiente nel quale il cittadino si trova a vivere, ambiente che è una interamente costruita macchina digitale, orientata al push.
Ciò che è più grave è che si tratta di piattaforme universali, che ogni cittadino sembra obbligato ad usare in ogni momento della propria vita. La pressione prima esercitata per spingere all'acquisto di beni di consumo è, nell'era della digitalizzazione del tutto, esercitata per imporre idee, modi pensare, scelte politiche. Il cittadino è ridotto a utente di servizi imposti. Le piattaforme digitali, per via push, dettano legge.

Già negli Anni Ottanta, quando inizia a crescere la massa di documenti accessibili tramite Internet, Rete che connette tra di loro diversi archivi e documenti conservati in luoghi ed in modi diversi, si fa viva la necessità di indici e sommari e schedature. L'avvento del World Wide Web rende via via più necessario uno strumento che permetta di orientarsi e di scegliere.
Appaiono così, negli Anni Novanta, i search engine, motori di ricerca. Il motore di ricerca è lo strumento principe del pull , la risorsa digitale attraverso la quale l'individuo, il singolo libero cittadino afferma il proprio desiderio di conoscere e di sperimentare.

Ma nel nuovo millennio, nel primo quarto di secolo, il push torna a prevalere sul pull. Lo stesso motore di ricerca è divenuto strumento di push. Nonostante ciò che scriviamo nella finestra di ricerca, le fonti proposte in risposta sono filtrate da una macchina che penalizza l'orientamento alla scoperta, anteponendo alle nostre scelte, scelte sue proprie. La macchina ci riproponendoci qui ed ora ciò che abbiamo cercato in passato, quando eravamo mossi da uno stato d'animo certo diverso da quello che ci muove oggi, quando vivevamo in un momento storico diverso. La macchina, a fronte della nostra domanda, ci propone in risposta ciò che qualcuno -impresa commerciale, lobby, partito politico- intende imporci. La macchina esegue gli interessi di un qualche ente orientato al dominio. La libertà di scelta è conculcata.

Anche le reti sociali sono nate come strumenti pull. Strumenti tesi a potenziare l’umana capacità di entrare in relazione con altri esseri umani. Spazi dove ogni essere umano può esprimere il proprio pensiero. Possiamo osservare come però hanno finito per divenire i più efficaci strumenti push: luoghi dove la manipolazione e la propaganda impongono pensiero unico al popolo inerme.

La facilità d'uso, la riduzione della fatica e dell'impegno personale sono la chiave per trasformare il pull in push. L'essere umano insicuro, in soggezione di fronte ad ogni autorità, ed ogni macchina, accetta di buon grado strumenti che semplificano la vita. L'inevitabile complessità è rimossa. Appare all'essere umano solo ciò che enti interessati al push ritengono opportuno far vedere.
L'esempio più evidente sono gli strumenti digitali che passano sotto il nome di App. Con i loro automatismi ignoti all’utente, con le notifiche che annunciano alla persona ciò che nel progetto dell'app si è previsto che la persona debba vedere e fare, sono lo strumento principe del push.

Dalla parte del pull sta il comportamento dell’essere umano che è cittadino adulto e responsabile e consapevole di sé, fiducioso in sé stesso. La scelta della fonte, e la sua interpretazione, sono azioni personali, così come la scelta del rappresentante in una elezione democratica. Dalla parte del push sta invece l’essere umano ridotto ad indistinto elemento del popolo. Umanità ridotta a massa. Un norma che si vuole ineludibile è spinta nella mente e nel corpo di ogni anonimo componente del popolo. Quel comando, quel senso di rassicurante dipendenza che prima passava attraverso i raduni nazisti o stalinisti, passa ora attraverso le risposte manipolate dei motori di ricerca, attraverso le notizie truccate pubblicate sulle reti sociali da agenti della propaganda nascosti dietro una maschera, attraverso le notifiche emanate dalle App.

Il push è l’arma nelle mani di una classe politica, una élite variegata nelle più diverse posizioni ideologiche, ma unita e solidale nell'esercizio del potere. Il push è arma usata contro i cittadini, e contro il concetto stesso di cittadinanza. Non c’è cittadinanza digitale, non c’è cittadinanza in senso lato se non è rispettata la sfera di autonomia e di privatezza. Se l’essere umano è continuamente osservato e controllato. Il push è, in fondo, la possibilità, garantita dalla tecnica, di penetrare nella sfera privata. Qui il dominio si sposa al controllo: gli stessi strumenti tesi ad imporre comportamenti agli esseri umani, dovranno sorvegliare i comportamenti degli esseri umani.
Un disegno certo non nuovo, agli occhi degli storici, dei cultori delle scienze umane, e sopratutto agli occhi dei letterati, degli artisti, sommi indagatori dell'animo umano. Possiamo ben rileggere la storia come contrasto tra esseri umani: la prevaricazioni di pochi si impone alle moltitudini.
Questo ben noto disegno trae nuova forza dall'inusitata potenza degli strumenti digitali.

domenica 3 marzo 2019

Bitcoin-Blockchain: un avvicinamento storico, politico e culturale. O tracce per un seminario

Molti si occupano oggi di Blockchain. Per quanto mi riguarda, anche in questo caso il mio approccio è storico, politico, culturale.  Satoshi Nakamoto, chiunque egli sia, è l'erede di una duplice ricchezza: un consapevole profondo pensiero politico-economico-sociale e una grande competenza tecnica. La competenza tecnica, da sola, mai avrebbe potuto portare a scelte progettuali così originali.
Questo è il pensiero che mi guida nei seminari che dedico a questo argomento.  Per i tecnici, è molto importante inquadrare la novità nella storia. Per manager e in genere cittadini è importante capire, affinché la novità politica e culturale non sia azzerata da sguardi miopi, esclusivamente tecnici o speculativi.
Di seguito la traccia usata in un seminario. Non tutto risulterà chiaro. Ma credo si coglierà il senso di un percorso. Del resto, è lo stesso percorso di senso che seguo nella Prefazione a Nicola Attico, Blockchain. Guida all’Ecosistema. Tecnologia, Business, Società, Guerini Next, 2018, a cui ho dedicato l'articolo precedente.

1889 Macchina di Hollerith: l'Informatica del Mainframe
Anni 30 IBM in Germania
1936 Turing: Macchina di Turing, Programma
1945 Computer digitale: percorso che porta alla cosiddetta Intelligenza Artificiale
Anni 60 Engelbart, Nelson, Licklider
1970 Nelson: Computer Lib/Dream Machine. Jobs, Gates.
Anni 80 Cyberpunk, Chypherpunk: Manifesti; Gibson, Stephenson; Crittografia- Anonimato contro Oligarchia.
Anni 2000-... Amazon, Google, Facebook, Cloud

Emerson, Nietzsche

2008-... Satoshi Nakamoto. Hal Finney. Nick Szabo: Shelling Out, Smart Contract, Bit Gold

Anonimato
Firma digitale: soluzione parziale
Democrazia dei computer accesi
Peer to Peer: no terze parti garanti; decentramento, non distribuzione
Crittografia asimmetrica: Hellman 1976;  chiave pubblica e chiave privata; firma digitale; no intermediari
Hash, Hashing: insieme di dati qualsiasi trasformato in stringa di lunghezza fissa: Digest o Hash Value
Mining: blocco chiuso da orologio, costo di transazione, numero di transazioni al secondo, Proof come sigillo
Proof of Work vs. Proof of Stake: una scelta politica

Transazioni
Catena e biforcazioni
Blockchain vs. Database
Database: scaffale gestito da terzo dove si mette e si toglie, sempre e solo in posizioni predefinite
Blockchain: archivio storico di transazioni andate a buon fine, immodificabile, disponibile a tutti gli attori, ogni transazione connessa ad ogni altra
Accessibilità e privatezza: si mostra ciò che serve, quando serve, a chi serve

Transazioni
Smart Contract
DAO, Decentralized Autonomous Organization
Nick Szabo vs. Vitalik Buterin

Casi esemplari: Pay Roll, Logistica, Banche

venerdì 11 gennaio 2019

Un avvicinamento alla Blockchain

Questo testo è la Prefazione al libro di Nicola Attico, Blockchain. Guida all'Ecosistema. Tecnologia, Business, Società, Guerini Next, 2018.


Nel momento più acuto della crisi finanziaria -scoppio della bolla immobiliare, crisi dei mutui subprime, fallimento della banca Lehman Brothers- il 31 ottobre 2008 appare sulla Cryptography Mailing List del sito metzdowd.com il paper firmato da Satoshi Nakamoto: Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System.
Per cogliere il senso dell'evento dobbiamo risalire a venti anni prima. Attorno alle metà del 1988 un gruppo di giovani programmatori dotati di una precisa coscienza politica diffonde The Crypto Anarchist Manifesto. "A specter is hauting the modern world, the specter of crypto anarchy". Nel marzo del 1993 le tesi sono ribadite in A Cyberpunk's Manifesto. Appariva già allora chiaro a questi giovani esperti una situazione oggi evidentissima: il Personal computer -e possiamo aggiungere, anche lo smartphone, il Personal Computer in miniatura che ognuno di noi ha in mano- mentre da un lato è strumenti per essere sé stessi, per essere liberi cittadini, dall'altro è strumenti tramite i quali ogni cittadino è osservato, sorvegliato, controllato. Ogni comportamento può essere tracciato; i dati prodotti da ognuno diventano ricchezza nelle mani di grandi player globali. La sfera personale del cittadino è costantemente soggetta alla minaccia di violazioni. Dunque: "Privacy is necessary for an open society in the electronic age". I Cyberpunk -ma è forse meglio usare la definizione più precisa: Cypherpunk- propongono una risposta: "Privacy in an open society requires cryptography".
Così la crittografia, arte della quale questi giovani programmatori sono appassionati cultori, non sarà più strumento delle mani dei governi ed enti pubblici, oligarchie e grandi imprese. La crittografia si trasformerà in strumento per proteggere la libertà individuale. In modo da permettere ad ogni cittadino di svelare di sé di volta in volta, quello che serve, quando serve, a chi serve. La crittografia può essere usata come maschera che garantisce l'anonimato. "We the Cypherpunks are dedicated to building anonymous systems. We are defending our privacy with cryptography, with anonymous mail forwarding systems, with digital signatures, and with electronic money".
Diverse voci si sono levate a criticare il fatto che coloro che vent'anni dopo hanno reso disponibile la criptomoneta bitcoin non abbiano rivelato la propria identità. Varie inchieste hanno tentato vanamente di svelare chi si nasconde dietro lo pseudonimo 'Satoshi Nakamoto'. Ma si tratta delle voci di giornalisti in cerca di scoop, o di programmatori poco avvezzi allo sguardo storico. O, peggio, di esponenti degli enti che non intendono rinunciare a controllare e sorvegliare. Eppure, varie tracce legano 'Satoshi Nakamoto' ai Cypherpunk. Che già vent'anni prima avevano sostenuto la virtù politica dell'anonimato. La scelta di restare anonimi va dunque intesa come scelta di serietà e di coerenza.
Il progetto è ambizioso, utopistico. Dato per scontato che ogni cittadino disponga di un proprio Personal Computer, si tratta di permettere ai cittadini di scambiarsi beni e servizi, e di essere giustamente ricompensati per questo, senza nessun intervento da parte di "financial institutions serving as trusted third parties".
Eccoci così alla Blockchain: è il ledger, libro mastro, registro permanente, immodificabile, di tutte le transazioni avvenute. Registro che non risiede su un unico server centrale, è invece distribuito: risiede sui computer di tutti coloro che utilizzano la moneta digitale.
Dall'ottobre 2008 sino passati solo dieci anni. Si può con molti motivi ritenere che il successo di bitcoin come moneta, e la reputazione guadagnata dalla blockchain come alternativa ai consueti database, abbiano sorpreso gli stessi membri del gruppo di progetto. Un esperimento tecnologico -fondato sulla crittografia- e politico -orientato in senso antioligarchico- si è trasformato in un fenomeno di enorme portata. Paragonabile, per le sue potenzialità, all'accoppiata Internet-World Wide Web.
Come è normale che accada, coloro che cavalcano la nuova onda -speculatori finanziari, sviluppatori, startupper- ignorano la storia, anzi, la ritengono trascurabile. Poco importa loro dei precursori. Eppure, solo risalendo alle origini, come si preoccupa sempre giustamente di fare l'autore del libro che vi accingete a leggere, si possono cogliere appieno le potenzialità di un sistema tecnologico. Le stesse trusted third parties -istituzioni finanziarie, enti pubblici- tutte impegnate ogni a sviluppare la propria blockchain, trarranno giovamento dal ricordare gli intenti dai quali l'originaria blockchain è nata.
Perciò questo libro costituisce un avvicinamento efficace. L'autore, come i Cyberpunk, è mosso dalla passione per l'informatica intesa come substrato di una nuova vita sociale. Ma la sua passione è mitigata dalla formazione scientifica.
Nicola Attico, formatosi come fisico, conserva lo sguardo del ricercatore: uno sguardo imperturbabile, capace di muoversi con grande capacità di lettura in una sovrabbondante massa di informazioni che quotidianamente si accumulano, e di descrivere quindi con equanime rispetto scelte tecniche radicalmente differenti, senza mai lascia influenzare dagli eccessi di certe opinioni di parte. Riesce così a descrivere con efficace sintesi questo nuovo ecosistema con il quale ogni manager, ed in genere oggi cittadino, dovrà imparare a fare i conti.
Ogni lettore, così, avrà modo di formarsi una propria personale opinione.