domenica 24 luglio 2016

La selezione naturale è un processo meccanico, algoritmico, mindless? Possiamo essere d'accordo con Dennet e Dawkins?


Newton era allo stesso tempo scienziato, alchimista e teologo. Non credo che questa singolare pluralità infici i risultati del suo lavoro di scienziato. Newton sapeva convivere con il suo essere ibrido.
La compresenza, nella mente del pensatore e nella vita del pensatore, di diversi approcci alla conoscenza, non limita l’accesso alla conoscenza, anzi la facilita, tenendo lontano il pensatore da ogni fondamentalismo. L’essere umano pensante che si muove in, tra molteplici discipline è spinto ed esplorare i propri limiti, ad evitare l’autocensura. Possiamo anche dire: l’essere umano pensante pone così se stesso nelle condizioni di convivere con i propri fantasmi. Con le proprie paure e i propri dubbi e le proprie contraddizioni.
Dobbiamo dubitare invece di coloro che non sanno convivere con la pluralità , con l’ibrido e l’ambiguo. Latino hybrida: bastardo. Abbiamo forse timore di essere bastardi? Meticci? Figli illegittimi o senza padre o senza madre?
La matematica è innocenza: non c’è colpa nella matematica, la matematica mostra una sincerità disarmante, la matematica indica la via verso la purezza e la limpidezza. Ma proprio per questo la matematica, proprio per questa sua predisposizione a separare la res cogitans dalla res extensa, la mente dal corpo, proprio per questa sua purezza, usabile come fuga da ogni impurezza, proprio per questo la matematica finisce per essere la metafora -‘veicolo’- per conoscere il mondo necessario per chi cerca di tener lontana da sé il proprio essere ibrido, la propria ambiguità, il proprio terribile inconscio.
Dobbiamo quindi dubitare di coloro che usano la matematica -strumento adattissimo allo scopo- per cercare chiavi descrittive del mondo prive di ogni ogni ambiguità, mondate da ogni impurezza. Dobbiamo dubitare di chi cerca tramite la matematica un sistema di regole indefettibile, superiore ad ogni debolezza ed incertezza umana. Non è in gioco qui il ‘come è fatto il mondo in sé’. Qui è in gioco il ‘come io, soggetto pensante, sono in grado di osservare e descrivere il mondo’.
Questo bisogno di matematica, quando la matematica con Gödel critica se stessa, rinasce come bisogno di informatica. E’ questo il passaggio compiuto da Alan Turing. Passaggio che porta direttamente a sostituire l’uomo che pensa con una macchina - priva dei difetti che lo stesso costruttore di macchina riconosce in se stesso. Passaggio che porta anche a immaginare il mondo come macchina – macchina lontanissima dall’uomo. Rispetto alla macchina-mondo l’uomo è entità minuscola e irrilevante.
Proprio qui Walter Pitts si oppone a Turing. Pitts usa la matematica come linguaggio sempre connesso alla sfera affettiva: ‘traduce’ in forma matematica il pensiero degli amici, e dei padri. Usa la matematica come linguaggio bastardo, corsivo, per ri-narrare e perpetuare ciò che pensano gli amici e i padri.
La matematica strumento di difesa dal mondo è rovesciato nel suo opposto. E’ trasformata dal solitario e diverso Walter in strumento per descrivere il mondo, inteso nella sua ambiguità e complessità. Accettato nella sua assenza di fondamenti.

All’opposto di Newton, scienziati e filosofi di oggi, dei giorni in cui scrivo: Dawkins e Dennet, si mostrano incapaci di convivere con i propri fantasmi. Finendo non a caso col considerare se stessi robot, e l’universo una macchina, un computer che perpetua l’esecuzione di un algoritmo. Comodo pensare che Darwin offre la via d’uscita al confrontarsi con la complessità. l’incertezza, l’assenza di fondamenti e l’inconscio. Comodo pensare che, in accordo con Darwin, la natura è un processo mindless, meccanico, regolato da un algoritmo che trascende l’uomo. Mindless: se temo la mia stessa mente, mi è conveniente nascondermi dietro la scienza, anzi la Scienza. Affermando per via scientifica che la mia povera mente è irrilevante.
E’ così difficile assumersi la responsabilità di essere umano che ‘esiste’? Essere umano che non si limita ad essere, ma si interroga sul ‘cosa ci faccio qui’, sul come influisco sul mondo-che-ho-intorno. Molto meglio appellarsi a Darwin, ed affermare per via di legge scientifica che l’uomo non conta nulla nella scenario dell’evoluzione. Cosa c’è di meglio, per allontanare da sé ogni dilemma etico, ogni carico legato all’ermeneutica -l’arte di interpretare i segni-, cosa c’è di meglio che affermare l’inesistenza dell’uomo. L’uomo, infatti, per Dawkins e Dennet, non esiste. Non è che un ospite irresponsabile e innocente di geni egoisti. No conta nulla la vita umana. L’essere umano non è che un accidentale costrutto. Conta solo la vita dei geni.
Comodo sostenere, come fa Dennett, che essendo la vita un algoritmo, anche la morale sia un algoritmo. Comodo aggiungere che è opportuno non coltivare troppe speranze nell’umana capacità di scoprire l’algoritmo che porti a ‘fare le cose giuste’. Si tratta, nelle migliore delle ipotesi, di scoprire una ‘legge di natura’, e di adattarvisi.

Penso ed ora scrivo da una posizione umana. Sono un essere umano. Per l’essere umano laicità e libertà stanno nell’accettare stili di vita e di pensiero diversi, sta nell’accettare di essere al contempo teologi e alchimisti e scienziati. Sta nell’accettare la presenza di culture diverse. Sta nell’accettare la compresenza, nello stesso luogo dove vivo, di esseri umani differenti da me per razza e per storia, per bisogni e per sono. Dalla mia posizione di essere umano cerco quindi di immaginare macchine in grado di aiutarmi ad essere più umano.
Facile al contrario affermare, trasformando alla fin fine Darwin in Garante dell’Alibi, che il punto di vista umano non conta nel gran disegno della natura. Facile dire che anche la cultura e la storia, che gli uomini credono proprio costrutto, frutto del proprio lavoro, non sono altro che manifestazione delle intenzioni e dell’agire dei geni egoisti.
Facile in fondo, dal punto di vista umano, costruire la propria carriera di scienziati sull’assenza di responsabilità dell’uomo, e quindi dello stesso scienziato.
Facile anche provare soddisfazione nell’affermare: ‘io sono un robot’, l’universo è un omincomprensiva macchina, un computer che esegue algoritmi contro i quali nulla posso. Facile e comodo, dal punto di vista umano, affermare che non si tratta di una scappatoia che scelgo per me, ma di una legge universale. Facile evitare così, lo ripeto, evitare di confrontarsi con i propri fantasmi e il proprio inconscio.
Siccome c’è spazio per tutti nel mondo, e ci sono certo sotto il cielo cose
Il punto chiave, il luogo del pensiero dove Dawkins e Dennet, e altri come loro, svelano la meschinità della propria posizione, è il loro fondamentalismo. Il loro bisogno di assoluto ateismo.
Newton accettava se stesso accettando la compresenza di modi diversi di essere. Le leggi scientifiche che Newton porta alla luce convivono con ricerche alchemiche e con speculazioni teologiche. Newton resta lontano da ogni fondamentalismo. Dawkins e Dennet sono invece i portabandiera di un irrinunciabile fondamentalismo. La posizione darwiniana potrebbe essere sostenuta senza assolutismi. Ma Dawkins e Dennet hanno bisogno invece di un Unico Assoluto. Nessuno lo chiedeva loro, non ce n’è bisogno logico, non ce n’è esigenza razionale. Eppure loro legano indissolubilmente la posizione scientifica darwiniana all’ateismo. Non c’è laicità qui. C’è sussunzione alla norma. Non c’è osservazione di un algoritmo in base al quale funziona la natura. C’è bisogno di un algoritmo, una superiore indiscutibile e comunque efficace legge che esima dall’umana responsabilità del dubitare e dello scegliere.
In superficie, l’ateismo potrebbe apparire come libertà rispetto a un Dio che determina il mondo. Ma l’ateismo indissolubilmente legato al darwinismo, all’affermazione di una superiore legge che determina il mondo, è peggio di una fede in un Dio. E’ la sussunzione ad una religione. Ad una regola deresponsabilizzante.
Osservando la campagna in pro dell’ateismo condotta da Dawkins e Dennet, ed altri come loro, si ha sotto gli occhi un atteggiamento identico a quello di altri fondamentalismi: le argomentazioni -apodittiche, assiomatiche- di Dawkins e Dennet in pro dell’ateismo sono del tutto analoghe a quelle delle loro bestie nere, i creazionisti. Non c’è differenza tra le due posizioni. Dire che tutto dipende da inconoscibili scelte di Dio, o da inconoscibili scelte del gene egoista, è dire la stessa cosa. In entrambi i casi l’uomo si chiama fuori.

Abbiamo motivo di ritenere che per Turing fosse molto difficile accettare la propria differenza. La propria omosessualità. E che quindi proiettasse questa difficoltà nell’immaginare un mondo dove i confini fossero netti, di qua o di la, uomo o donna, bianco o nero, interruttore aperto o interruttore chiuso, stato a o stato b. Possiamo supporre che questa esigenza abbia contribuito a portare Turing ad immaginare una macchina siffatta: una macchina per discriminare in modo netto gli stati del mondo. Una macchina funzionante in base a un algoritmo, un algoritmo indefettibile, privo delle umane debolezze.

Newton aveva in mente l’orologio: la macchina che, ai suoi tempi, più si avvicinava a rappresentare, per analogia, la complessità della vita. La cibernetica, in fondo, si collega direttamente alla fisica newtoniana, la supera senza discontinuità. Intorno alla metà del Ventesimo Secolo l’immagine dell’orologio appare ormai vecchia. Alla singola immagine dell’orologio si sostituiscono una pluralità di immagini: sono ‘macchine cibernetiche’ sia l’organismo vivente - anche lo stesso essere umano, sia il computer, macchina nuova che appare sulla scena in quegli anni. In ogni caso la cibernetica, stando alla stessa radice greca dell’espressione, ci parla di ‘governo del mondo’. Nelle Macy Conferences si parla di autoregolazione dei sistemi, ma anche di governo, di possibile ruolo attivo, spazio per l’uomo. McCulloch e Wiener si interrogano, dubitano e coltivano la multidisciplinarità.
Dawkins e Dennet tornano indietro. Tornano alla Scolastica. Un solo rassicurante e totalizzante sapere.
Possiamo riconoscere in differenti pensatori evoluzione del pensiero, l’accettazione del dubbio, con il conseguente faticoso abbandono di una posizione fondamentalista: questa è, per vie diverse, ma in fondo convergenti, l’esperienza di Frege e di Russel, di Wittgenstein, dello stesso Putnam.
Dawkins e Dennet no. Dennet, filosofo, sembra dubitare. Le svolte del suo pensiero sono anche affascinanti, per questo ci delude più di Dawkins, puro scienziato. Dennet ci delude perché torna sempre lì. Al suo bisogno di Legge Universale. Alla necessità di un ateismo dogmatico.
Ci parla con accattivante vis polemica di coloro che cercano spiegazioni attraverso skyhooks, ganci per salire in cielo. In quanto esseri umani capaci di ermeneutica, capaci di leggere tra le righe, possiamo cogliere nella sua critica di coloro che cercano skyhooks un disperato bisogno. L’ateismo, il concepire il mondo come l’esecuzione di un algoritmo sono skyhooks. Dennet, comprensibilmente, bisognoso di fondamenti, propone come alternativa agli skyhooks i cranes, solide gru ben piantate per terra. Sostiene, giustamente, che non conviene cercare miracoli, serve piuttosto un intelligent design. Ma la posizione è invalidata dalla preconcetta affermazione dell’impossibilità, per l’uomo, di un intelligent design diverso dal comprendere, adeguandovisi, ciò che è già definito dall’algoritmo dell’evoluzione.
Secondo Dennet l’uomo non può muoversi se non on the ground of physical science. Ovvero dentro una macchina che esegue un algoritmo ignoto all’uomo e immodificabile per l’uomo.
Ciò che deve importarci di Daniel Dennet non sono i suoi ammonimenti all’umanità. Non dobbiamo lasciarci abbagliare dalla sua autorevole barba. Non siamo tenuti a badare alla insistente campagna in pro dell’ateismo, sua e dei suoi compari. Il loro considerarsi emarginati per le proprie posizioni atee fa parte di uno spettacolo al quale non siamo obbligati a partecipare. Certo, gli omosessuali seppero liberarsi da definizioni vili autonominandosi gay. Ed ora Dennet e sodali ci chiedono di di essere chiamati bright. Roba di poco conto.
Ciò che ci può importare non sono le pubbliche esibizioni durante le quali si dichiara un robot, nient’altro che un ospite di geni egoisti. Ciò che ci può importare sono i suoi tentativi di Dennet vivere la propria umanità. Viverla senza fondamenti. Senza dogmi.
Il vecchio Böhme, parlandoci di Ungrund, ci indica la strada.
Per Böhme né la presenza, né l’assenza di Dio sono già date. Non c’è bisogno di dichiararsi atei. Il ground of physical science non è l’unica risposta ai bisogni umani. L’uomo vive in uno spazio di possibilità.
Dennet non si limita a dire ‘non ce la faccio’. Ha bisogno di affermare che l’uomo non ce la può fare. Così, ciò che è probabilmente vero per la persona Daniel Dennet -il bisogno di una norma a cui attenersi- è proposto come verità e come vincolo universale. La scienza avrà pure le sue leggi dimostrate, leggi che travalicano la pochezza umana. L’uomo esiste comunque. La filosofia, e in senso più lato l’umana esperienza, l’arte e la letteratura, ci mostrano una porta che Dennet non vuole aprire, non sa aprire, non accetta di aprire: il vivere senza fondamenti, il vivere consapevoli dell’Ungrund.
Forse, accompagnato da macchine amichevoli, l’uomo ce la può fare. Vivere, per esempio, formulando oscure congetture e trovando nel Web la possibile risposta.