sabato 28 agosto 2010

Hjelmslev e il prendere forma della conoscenza

Il modello di Hjelmslev ha un suo segreto fascino. Per la sua pulizia formale, e naturalmente sopratutto per il suo aspetto enantiomorfo. (Enantiomorfismo: 'Rapporto di uguaglianza inversa tra due enti che pertanto risultano simmetrici rispetto a un piano, in modo che l’uno dei due enti possa considerarsi come l’immagine speculare dell’altro').
Anche oggi, completamente tramontata la moda dalla semiotica, mi sembra che il modello continui a parlarci.
E questo nonostante il modello si fondi sull'opposizione complementare 'espressione' vs. 'contenuto', un'opposizione che appare malposta. Contenuto, o content, mi appare concetto fuorviante: il contenuto presuppone l'esistenza di un contenitore. Ma la conoscenza esiste a prescindere da un contenitore. Propendo quindi per l'opposizione 'espressione' vs. 'conoscenza'.
Una brevissima presentazione dell'Hjelmslev's Sign Model, e una provvisoria, ma indicativa, riflessione sul tema -orientata a legare semiotica e Knowledge Management- sta in questo mio breve testo.

martedì 3 agosto 2010

Coartata scientia iucunda non est. Ovvero: Nulla è superfluo nel costruire conoscenza

Mi è tornata in mente la frase di Ugo da San Vittore, filosofo e teologo vissuto attorno al 1100, dal mio punto di vista soprattutto maestro di quella disciplina che oggi chiamiamo ‘Knowledge Management’.
Rivolgendosi ai suoi studenti, scriveva Ugo nel suo Didascalcon: "sed dicis: ‘multa invenio in historiis, quae nullius videntur esse utilitatis, quare in huiusmodi occupabor?’ bene dicis. multa siquidem sunt in scripturis, quae in se considerata nihil expetendum habere videntur, quae tamen si aliis quibus cohaerent comparaveris, et in toto suo trutinare coeperis, necessaria pariter et competentia esse videbis. alia propter se scienda sunt, alia autem, quamvis propter se non videantur nostro labore digna, quia tamen sine ipsis illa enucleate sciri non possunt, nullatenus debent negligenter praeteriri. omnia disce, videbis postea nihil esse superfluum. coartata scientia iucunda non est."
Spero che abbiate provato a capire, guidati magari dal ricordo di studi lontani, e comunque dalla curiosità e dal fiuto. È proprio quello che Ugo si aspetta da noi. Comunque ora vi propongo una traduzione: “Qualcuno potrebbe dire: ‘Trovo molte cose nella storia sacra che non sembrano essere di alcuna utilità; perché dovrei occuparmene?’. Rispondo dicendo che vi sono effettivamente nella Bibbia molte informazioni che considerate in se stesse non sembrano avere interesse particolare, eppure se le si mette in relazione con altre con le quali sono strettamente connesse e si prende attentamente in esame tutto il complesso, ci si accorge che anch’esse erano convenienti e necessarie. Alcune cose devono essere conosciute in se stesse, altre, sebbene non sembrino meritare le nostre fatiche, non devono affatto essere trascurate per negligenza, poiché senza di esse nemmeno le prime possono venire conosciute profondamente. Impara tutto, ti renderai conto dopo che nulla è superfluo. Una conoscenza limitata non dà piacere.”
Ciò che per Ugo riassumeva la historia, era la Bibbia, il libro dove tutto è scritto. Noi, allo stesso modo, ci affacciamo sul Word Wide Web, questa immensa galassia che tutto potenzialmente contiene. Molte informazioni ci appaiono prive di qualsiasi utilità. Eppure se le poniamo in relazione con altre, e prendiamo consapevolezza della rete che ne emerge, ci accorgiamo che è così che si costruisce conoscenza. La capacità sta nel dar valore ai segnali deboli, alle circostanze apparentemente casuali che ci spingono a tentare nuove connessioni. Del resto, è così che funziona la nostra mente.
Ugo ammoniva i suoi studenti, e anche noi: “Prendi in considerazione tutto, vedrai che poi nulla è superfluo”.

(Il Didascalicon lo trovate qui.
Devo il mio interesse per il Didascalicon a Ivan Illich (In the Vineyard of the Text. A Commentary to Hugh’s Didascalicon, Les Editions du Cerf, Paris, 1991; trad it. Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Milano, Raffaello Cortina Editore 1994).

lunedì 2 agosto 2010

L'iPad è un vecchio libro e Steve Jobs un Gattopardo

In questa stagione di crisi, non può essere negato il plauso a chi -quasi fosse dotato di una bacchetta magica- trova ancora una volta una killer application. E quindi muove le acque, apre spazi di mercato.
Dunque onore a Steve Jobs e all’iPad. Ma che tristezza vedere intelligenti e curiosi e creativi tecnici e imprenditori muoversi pedestremente nella scia di Steve. E che tristezza nel cogliere il sospiro di sollievo che aleggia nelle case editrici -in particolare le più retrograde, abbarbicate al tradizionale modo di fare libri e periodici.
Steve Jobs, con l’iPad, offre la comoda via d’uscita dall’impasse in cui colpevolmente le case editrici si sono impantanate. L’iPad sembra cancellare l’arretratezza. L’iPad permette di illudersi: permette di credersi adeguati ai tempi – pur non avendo fatto nulla per capire e per cambiare.
Non critico l’orientamento a trarre profitto dalla situazione. Critico l’incapacità di guardare oltre la punta del proprio naso. Critico la pigrizia – da cui possono nascere solo business di poco respiro. Palliativi. Brodini caldi per tirare avanti qualche anno.
Chi produce conoscenza organizzata in testi -romanzi, poesie, saggi, articoli- si è trovato nelle condizioni di definire il proprio ruolo, il proprio modo di agire. Dico ‘chi produce’ sapendo di mettere in un mazzo figure diverse: autori, editor e redattori, editori, interpreti di varia natura: recensori e professori e via dicendo.
Il testo che ha sotto gli occhi l’autore mentre lo produce sul proprio computer è ben lontano dal testo ‘manoscritto’, a penna o con una macchina per scrivere. E’ un testo disancorato dal supporto, plastico, mutevole, sempre in fieri. Il testo riacquista la sua natura di tessuto, rete.
Mi limito qui a questi accenni. Ma è chiaro che da questa diversa natura del testo emerge un cambiamento nel ruolo dell’autore, così come, di seguito, del ruolo di editor e redattori, editori, interpreti di varia natura.
Non voglio considerare semplice il passaggio. Cambiare paradigma non è facile. Ciò è tanto vero che per descrivere il testo così come ci è messo a disposizione dal computer si è stati costretti ad inventare un nuovo temine ipertesto. C’è dell’ironia in questo: la parola testo dice già tutto, ci parla di rete e di connessioni potenzialmente infinite. Ma per noi testo è sinonimo di libro. Non riuscendo a concepire un testo disancorato da un supporto -anche se così è, appunto, disancorato dal supporto, il testo che abbiamo sotto gli occhi- identifichiamo il testo con il libro.
Non a caso si parla di content, o contenuto. Il contenitore, il libro, prevale sul contenuto, il testo. Così si continua a ‘vedere’ il testo come inevitabilmente ingabbiato in una forma data a priori, il libro. Obbligati dalla incombente presenza della forma libro si continua a pensare il testo come se fosse sequenziale, con un inizio ed una fine predefiniti. Si continua a pensare il testo come oggetto chiuso, non guardando alla realtà che vede il testo come oggetto di interazione, di lavoro collaborativo, tra soggetti diversi. I ruoli dell’autore, dell’editor, dell’editore, dell’interprete non riguardano né la letteratura né il testo: discendono dal dominio della forma-libro.
La resistenza a cambiare, lo capisco, è grande. A ciò contribuisce l’ignoranza, la scarsa curiosità tecnologica, e direi sopratutto la speranza di tutti ‘gli operatori del settore’ di riuscire a difendere rendite di posizione che il vecchio contesto tecnologico garantiva.
Ed ecco che arriva Steve Jobs con il suo iPad. Rendiamo merito a chi sa fare la mossa efficace nel momento meno sbagliato. (Certo il momento in cui si è mosso Jobs è meno sbagliato del momento in cui si è mosso Jeff Bezos. Eppure trovo in Kindle più meriti che nell’iPad).
Ma in cosa sta il gioco di Jobs. L’avvento dell’iPad mette comodi tutti gli attori del processo - autori, editor, editori, interpreti. Tranquilli, tutto è come prima. Una sola banale, scontata, già da tempo annunciata differenza. Gli stabilimenti di stampa e confezione sono morti. Per il resto, tutto uguale. Il testo chiuso in redazione è pubblicato anziché su carta, secondo la tecnologia nota dai tempi di Gutenberg, tramite una nuova modalità. Resta però un codice chiuso. Che rende indispensabile la mediazione dell’editore. Che garantisce la permanenza come prima dei ruoli degli editor e degli interpreti. Che risolve il complesso tema del ‘diritto d’autore’ nel vecchio modo: attraverso la mediazione dell’editore.
Con l’iPad, si perpetua l’equivoco tra libro e testo. Il testo digitale, liberatorio frutto del computing, ci appariva nativamente disancorato dal supporto, plastico, mutevole, sempre in fieri, tessuto, rete. Eppure non viveva la vita che la sua natura gli permetteva, perché era poi stampato, chiuso nella forma libro.
Oggi, con l’iPad -strumento che appare come meraviglia tecnologica, manifestazione di quello stesso computing che aveva liberato il testo dalla forma-libro- tutto resta come prima, o finisce per essere peggio di prima: il testo è chiuso nella forma proposta all’universo mondo da Steve Jobs.
Gli editori di tutto il mondo pendono oggi dalle labbra di Steve Jobs. E si fanno per il futuro schiavi o ancelle del business di Steve Jobs.
La letteratura resa possibile dalla codifica digitale dei testi sta comunque nascendo. Ma soccorsi da Jobs tutti coloro che non volevano vedere possono continuare a non vedere.