Google street view car:
l’automobile dotata di antenne e telecamere che lentamente percorre
ogni strada del mondo, passa di fronte alla porta della casa di
ognuno di noi, tutto registrando, fotografando la nostra casa e al
contempo memorizzando ogni segno della nostra vita digitale,
cogliendo ogni traccia dei nostri viaggi nel Web.
E’ una immagine inquietante. Una
immagine sintetica che in fondo racchiude in sé il senso di un
coerente agire, forse ancor più inquietante - perché occulto,
sotterraneo, segreto, invisibile all’occhio: il muoversi dei
crawler, o spider, nei meandri del Web. Tutto ciò che ‘mettiamo in
rete’ è osservato, registrato da Google – con acribia, con
meticolosa precisione. Nella sua sterminata server farm di Google
dobbiamo pensare sia conservata, forse, copia di tutto. Ed ancora, è
preoccupante l’alone di mistero che circonda l’algoritmo in base
al quale Google ci restituisce risposte alle nostre domande –
intermediando così i nostri quotidiani tentativi di costruire
conoscenza.
Ma comunque, questo non è
Broadcasting. Non è Gatekeeping – che è morto, da quando ognuno
di noi può essere presente nel Web allo stesso modo di come sono
presenti i potenti del mondo. Google non è il Grande Inquisitore,
orientato a trattare ognuno di noi come parte insignificante di un
gregge bisognoso di cura, ed anzi desideroso di controllo. Google non
è nemmeno un Panopticon, perché non pretende di ridefinire
l’architettura del mondo.
Le
torri sono cadute
Non più grandi cattedrali di
dati, non sta lì il potere. Le vecchie forme di controllo -bloccare
le vie di accesso, stabilire difese perimetrali, filtrare i passaggi
di soglia- non valgono più nel pervasivo e diffuso mondo del Web,
seamless, adattivo. Con il Web, la complessità sprofonda in basso.
Viene meno la centralità del dato. Viene meno necessità del modello
dei dati come fonte di un ordine necessario. Google asseconda questa
evoluzione. Offre a noi cittadini digitali dà strumenti per muoverci
in questo mondo.
Google non ci impedisce di
pubblicare sul Web. Non pone divieti. Non abbiamo bisogno di passare
al vaglio di Google per essere tra coloro che hanno il diritto ad
esprimersi. Google non ci impedisce di mettere in rete i nostri
oggetti di conoscenza, non pone limiti alle nostre interazioni. Anzi,
Google ci restituisce potenziati i risultati del nostro agire: nel
passaggio da lingua a lingua proposto dal traduttore, godiamo dei
risultati di ogni traduzione tentata da ognuno di noi. E ci offre
gratuitamente strumenti sui quali basare il nostro essere cittadini
digitali: il motore di ricerca, la posta elettronica, le mappe di
ogni luogo.
Google accetta gli standard della
Rete, ed anzi promuove la loro diffusione. Accetta un linguaggio
comune, il linguaggio che c’è, il linguaggio ordinario. Non impone
un proprio linguaggio. Se si trova a a proporre un proprio
linguaggio, ne mette a disposizione il codice. Google non cerca di
imporre al mondo una propria struttura. Né sostiene l’esigenza di
subordinare tutto e tutti ad un’unica struttura. Non propone
uniformazione, ma all’opposto accetta ogni variante. Non persegue
un ordine, ma accetta l’accumulazione caotica. Accetta le liste
aperte. Non cerca una analisi fine degli insiemi: si accontenta
invece di accorpamenti grossolani, sempre provvisori.
Spazio
etico
Street view car: non è l’occhio
di Dio del Panopticon, che ci guarda dall’alto. L’auto si muove
sulle nostre stesse strade. Nemmeno l’occhio del satellite
cartografo è l’occhio di Dio: si tratta sempre del nostro occhio,
sia pur spostato in un altrove. Google, semmai, è il mostro che vive
con noi, è l’esemplare attore di un mondo camaleontico,
contaminato, dove il male convive con il bene in un continuum
sfumato; un mondo dove deboli e forti, cooperatori e profittatori
sono condannati a convivere.
Google ci ricorda che il male è
in noi stessi, il male germina nelle nostre intenzioni. La scelta
cooperativa e la scelta utilitarista sono separate da una soglia
sfumata. La scelta tra il dono e il furto resta aperta per ognuno di
noi. Google, ente mostruosamente surdimensionato, ipertrofico, resta
comunque uno di noi, uno degli abitatori della Rete.
Dobbiamo essere consapevoli dei
rischi che corriamo, e dell’impossibilità di evitarli. Dobbiamo
forse anche imparare a vivere una nuova forma di libertà: siamo
chiamati a vivere in case di vetro; siamo chiamati a muoverci con
cautela, scoprendo il cammino strada facendo, passo dopo passo,
biforcazione dopo biforcazione, emergenza dopo emergenza.
Google ha finito per contraddire
nella pratica una parte non trascurabile dei propri presupposti
etici. Questo è accaduto quando ha accettato il profitto ed il
valore del titolo in Borsa come misura del proprio successo, del
proprio complessivo ‘stare al mondo’. Ma anche in questo abbiamo
motivo di considerare Google vicina a noi. Come Google, anche noi, a
causa di una competizione drogata da valori distruttivi e disumani,
siamo spinti ad esaltare i nostri lati peggiori.
La presenza straniera di street
view car sulle nostre strade -così come il permanente strisciare del
crawler nei meandri, così come i lati oscuri dell’algoritmo del
Page Rank- danno corpo al nostro timore di complotti. Ma in questo
c’è una virtù: siamo spinti a ricordare che la soluzione dei
dubbi, la possibilità di trasformare credenze e le dicerie in
conoscenza è un processo sociale che non può che passare attraverso
l’interazione. La possibile ‘verità’ è attinta per
approssimazioni successive, per tentativi ed errori – ne è esempio
il lavoro collaborativo appoggiato sul wiki: il ‘veloce’
succedersi di prove ripetute in una arena aperta a tutti. La presenza
di Google, anche in questo senso, può esserci alla fin fine utile:
ci abitua a muoverci nel mondo come è.
Spinoza
e Böhme
Il timore che proviamo nei
confronti di Google, perciò, è il timore dei nostri lati oscuri. Si
preferiscono i nemici evidenti, si preferisce un male lontano da noi.
Si preferisce un mondo ‘razionale’, con gerarchie evidenti e
ruoli definiti; un mondo dove è chiaro chi sta sopra e chi sta
sotto; un mondo dove l’evidenza ci aiuta a scegliere. Ma nel Web
non vale l’aut aut. Al paradigma dell''aut aut': bianco/nero,
buono/cattivo, alto/basso, si sostituisce il paradigma 'e e'. Siamo
tutti connessi in piccole e grandi reti, siamo tutti meticci, siamo
tutti docenti e tutti discenti. L'illusione di una organizzazione
gerarchica e meritocratica, certa, giusta ed autorevole, creata da
terzi, data una volta per tutte, è negata dal mondo che la Rete pone
sotto i nostri occhi. L'organizzazione è un mondo possibile che noi
stessi, insieme agli altri, contribuiamo a creare istante dopo
istante.
Se per capire l’informatica
strutturata bastano Kant e Hegel, per capire il Web, e per intendere
il senso del potere segreto di Google dobbiamo appoggiarci alla
filosofia del Ventesimo Secolo. Freud, Nietzsche, Wittgenstein,
Husserl, Heidegger, Derrida, Deleuze. Ma forse, ancor più pertinente
ed istruttiva sarà per noi una rilettura di Spinoza e di Böhme.
Con il Web, viene meno l’idea
del potere trascendente. Il potere si manifesta nell’immanenza.
In luogo dell’essere
sopra/sotto, in luogo della gerarchia, il Web ci propone l’‘essere
dentro’, l’essere tutti coinvolti e tutti partecipi, tutti
appartenenti ad un insieme senza forma, ognuno di noi così come
qualsiasi ente a cui residue abitudini ci spingono a considerare
responsabili di ogni cosa.
“Lo studente disse: ‘Questo
luogo è vicino o lontano?’. Il maestro rispose: ‘È dentro di
te. Se riuscissi a mettere a tacere ogni desiderio e pensiero per
un’ora, udiresti le ineffabili parole di Dio’. (Jakob Böhme,
Sulla vita soprasensibile, Sesto Trattato).
Così, siamo chiamati ad
abbandonare fallaci speranze di controllo, e a muoverci invece con
gelassenheit: serenità, abbandono, calma, placidità,
tranquillità. Ci muoviamo in un Un
grund, ‘senza fondo’. Non sarà la ragione a guidarci nel
Web, ma l’attitudine a perdonare e abbracciare -questo è in
origine il ‘legame debole’, la connessione-; l’attitudine ad
accettare i momenti oscuri del cammino.
Il Web ci propone di partecipare a
scelte collettive, ad un potere ‘costituente’ che dissolve
istante dopo istante le forme spettrali dei poteri già costituiti.
Siamo tutti co-creatori del mondo, siamo tutti responsabili e tutti
‘come Dio’.
Con il Web, viene meno l’illusione
o la speranza di un rassicurante ordine – e siamo chiamati tutti
chiamati a cercare di dare ordine, in un processo incessante, ai dati
affastellati nell’Ungrund
Ognuno di noi è co-autore del
Web; ognuno di noi è co-autore insieme a Google.
Libertà
primordiale
Non possiamo dimenticare che -così
come vuole l’epistemologia che si afferma nel Ventesimo Secolo, e
così come ci propone l’esperienza empirica della nostra ‘vita
nella Rete- l’osservatore fa parte dell’oggetto di indagine, ed
influisce sempre sull’oggetto di indagine. Ma anche dove si voglia
intravedere una immagine di Google come ente ‘diverso-da-noi’,
osserviamo un potere ben diverso dal potere del Gatekeeper. Il
potere, ora, sta nella capacità di muoversi in basso, terra terra
come street view car, o ‘sottoterra’, in un Ungrund, in un luogo
senza fondo dove strisciano i crawler, in un magma di dati.
Un nuovo potere con il quale
dobbiamo convivere – e dal quale dobbiamo imparare a difenderci. Un
potere che ci impone di essere cittadini adulti. E siccome non si
nasce adulti, serve immaginare una nuova educazione, una
alfabetizzazione. Non una educazione alla mera pratica, all’uso del
mezzo. Una educazione, invece, riguardante la filosofia, la ricerca e
la sperimentazione, la scoperta e la messa in atto di una personale
epistemologia.
Quel sotterraneo mondo visitato
dai crawler nasconde segreti. L’Ungrund, lo sfondamento in basso
propostoci dal Web, ci obbliga a confrontarci in fondo con quest’idea
di libertà primordiale. Libertà è assoluta, ab soluta,
'sciolta da', in origine libera da ogni vincolo. Un nel quale quale
stabilire regole, a partire dal nostro proporre ad ogni altro attore
relazioni, ovvero accoppiamenti strutturali. Etica ed estetica sono
chiavi di lettura del come e del con chi e del perché
mi connetto.
Del resto, ben sappiamo che il
computing è nato da un intreccio inscindibile, inestricabile, di
interessi diversi, militari e civili, intenti di intelligence e di
liberazione umanistica. La presenza di Google nel nostro mondo non fa
che riproporci questa complessità. E se l’informatica tradizionale
ci riproponeva il concetto di codice, il Web ci impone di
tornare allo ius, in origine incitamento, augurio di buona
fortuna, da cui anche l'idea di giusto e giustizia.
Lo
scandalo di Facebook
Per tutto questo trovo che,
piuttosto che l’ambiguità di Google, dovremmo considerare fonte di
scandalo -ostacolo, inciampo, insidia- il rozzo gioco di Facebook.
La proposta di Facebook è,
appunto, rozza: non è che il ritorno -solo in apparenza dentro la
Rete- del Panopticon, del Broadcasting, del Gatekeeping. Panopticon:
in Facebook, siamo osservati da qualcuno che che non accetta di
essere anche oggetto di indagine, osservati da qualcuno che si
colloca all’esterno. Broadcasting: la scelta di ‘mettere in onda’
dipende da un terzo, altro da noi. Gatekeeping: tutto è scritto in
un codice proprietario - col che siamo espropriati delle nostre
conoscenze
Ma -e qui sta il pericolo e la
fonte di scandalo- il rozzo gioco di Facebook in fondo ci ‘lascia
tranquilli’. Siamo tanto abituati al Grande Fratello, tanto
abituati a subire l’unica conoscenza contenuta nelle proposte del
Broadcaster di turno, da sentirci liberi in Facebook. Eppure lì, in
Facebook, le nostre conoscenze sono svilite, trasformate in
‘contenti’, perché forzosamente racchiuse in forme date a
priori. Abituati a contentarci di un ruolo passivo, finiamo per
sentirci a proprio agio in Facebook. Lì nessun pericolo ci minaccia.
Ma ciò accade perché il potere è già indiscutibilmente affermato.
Siamo gentilmente ospitati in una casa che non è la nostra.
La pagina di Facebook è una
pagina i Facebook. In cambio, la home del mio sito esposto sul Web è
la home del mio sito.
La street view car potrà anche
spiare dentro, ma posso forse chiudere qualche finestra. E comunque
la mia casa resta la mia casa.
Nessun commento:
Posta un commento