venerdì 25 marzo 2016

Cosa c’entra Richard Rorty? Non basta Terry Winograd? Ovvero: sei consapevole di essere un ermeneuta?


Dopotutto, l’informatica si occupa della costruzione, della conservazione e della diffusione di conoscenza. Proprio l’ambito di attività che da noi, in Occidente, è stato coperto da figure chiamate ‘filosofi’. Oggi, sostengo nel mio libro Macchine per pensare, assistiamo ad un passaggio di mano. L’informatica prende il posto della filosofia. L’informatica è la prosecuzione della filosofia con altri mezzi. Per muoversi nell’enorme massa di informazioni di cui disponiamo, massa che si incrementa istante dopo istante, serve all’uomo l’ausilio di macchine che ci siamo abituati a chiamare computer.
Perciò, con il mio libro, propongo una riflessione filosofica sulle macchine dette computer. Non penso di portare una qualche verità. Ma intendo mostrare come si può ragionare su questi temi. Vorrei così sostenere gli amici -informatici, computer scientist, o social data scientist, chiamatevi come volete- che scelgono di pensare da sé. E che scelgono di percorrere la strada dell’assunzione di responsabilità personali a proposito delle loro ricerche. E che cercano anche, doveroso ricordarlo, di percorrere la strada della responsabilità personale rispetto a come in quanto docenti formano gli studenti ad essere a loro volta ricercatori responsabili.
Un semplice esempio. Sostengo che è rilevante per chi si occupa oggi di computing il passaggio proposto da Richard Rorty: dall’epistemologia all’ermeneutica. Ma mi si dice: che c’è di nuovo in tutto questo? Non c’è bisogno di Rorty. Basta Winograd, anche lui parlava di ermeneutica. Winograd fa parte del canone informatico, Rorty no. Che bisogno c’è di uscire dal canone?
Andando a guardare, possiamo osservare che Winograd non cita Rorty. Ma ponendo un po’ di attenzione al contesto nel quale i due si muovono, risulta evidente il fatto che Rorty scrive prima di Winograd, lo anticipa. E’ Rorty a sostenere nel dibattito filosofico degli Anni Settanta, che non vale più la pena di cercare di edificare sistemi di conoscenza ben strutturati, e che conviene invece cercare la conoscenza nelle conversazioni: negli scambi, nelle interazioni, nelle reti.
Winograd viene dopo. Perché allora limitarsi a Winograd. Perché non risalire a chi ha portato scandalo, contrapponendo direttamente e polemicamente l’ermeneutica all’epistemologia.
Ma se proprio non si vuol leggere Rorty, fatene a meno. Alla fin fine, io che adesso qui sostengo l’importanza della sua lezione, in Macchine per pensare non lo cito nemmeno una volta. Se volete restar fedeli alla pista indicata da Winograd, leggete Heidegger, Wittgenstein, Gadamer. Ma uscite dal recinto della letteratura di settore. Cercate fuori dal recinto riferimenti filosofici, concettuali, a partire dai quali costruire, in piena libertà e responsabilità, la vostra ricerca.

Un semplice esempio, ho scritto qui sopra. Ma non un esempio a caso. Il passare dal lavorare con dati strutturati al lavorare con dati destrutturati porta con se il transito dall’epistemologia all’ermeneutica.
Chi lavora oggi nel campo dell’informatica, in particolar modo chi fa ricerca, si trova a doversi allontanare dal consolidato terreno dei dati strutturati. E’ chiamato, invece, ad avventurarsi sull’incerto terreno dei Big Data, masse di dati di cui si ignora la struttura, o che comunque debbono essere usati a prescindere dall’originaria struttura.
E’ un lavoro del tutto diverso. Chi è abituato ad affidarsi ad algoritmi di riconosciuta efficacia, può essere portato a dimenticare che l’efficacia è conseguenza della struttura. Dove la struttura non c’è, e dove la ricerca non è governata dalla mera applicazione di algoritmi, il ricercatore, per abitudine, potrà magari illudersi che ‘le cose si mettono a posto da sole’. Così, per esempio, il ricercatore può osservare l’emergere, dalla sovrapposizione di diversi corpora testuali, un sistema di regole grammaticali, sintattiche, semantiche. In apparenza, senza aver fatto nulla.
Ma in realtà, cosa ha fatto il ricercatore? Ha svolto, magari senza averne piena consapevolezza, un lavoro ermeneutico. Ha lavorato formulando ipotesi interpretative, e quindi applicandole ai dati.
Il ricercatore ha lavorato come il filologo che collaziona manoscritti diversi, varianti, alla ricerca del senso implicito nel testo.
Scrivevo qui su Dieci chili diperle, nell’articolo precedente: masse di dati destrutturati appaiono sorde. Sembrano non dire nulla. Ci sfidano, chiedendoci di provare a coglierne in senso. Ci sfidano ad interpretarli. Ci chiedono, cioè, di essere ermeneuti.
Per questo è importante il campo condiviso che chiamiamo ‘informatica umanistica’ - dove l’umanista può mettere a disposizione dell’informatico la propria esperienza di interprete di testi e di linguaggi. Ovvero, di ermeneuta.
Insomma: la domanda ‘perché chiamare in causa Rorty?’ può essere rovesciata in un’altra domanda. Tu, ricercatore, computer scientist al lavoro con dati destrutturati, sei consapevole di essere un ermeneuta?

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