sabato 3 agosto 2013

Codice digitale come infinito attuale: una immagine


Fare un gesto, prendere la penna in mano, e iniziare a scrivere su un foglio bianco. O prendere il pennarello e mimare il gesto di scrivere qualcosa sulla lavagna bianca.
Tutto sta nel gesto dello scrivere. Si è aperta con la digitalizzazione -questo è il nuovo campo aperto dal computing- una fenditura, un enorme sconfinato mondo. Si è aperta una fenditura dentro il gesto, si è aperto una fenditura nello spazio tempo: una di quelle situazione racchiuse in un attimo che la science fiction coltiva. E’ un approfondimento abissale del gesto dello scrivere.
Se scrivo sul foglio, sul supporto piano, immediatamente l’utensile graffia o incide il supporto. Se invece vedo il gesto dello scrivere nel contesto della cultura digitale, vedo aprirsi un mondo di passaggi e di processi.
Posso sfiorare uno schermo di iPad o posso scrivere come ora sulla tastiera. Così facendo, come nel caso della tradizionale scrittura su supporto piano, graffio o incido un supporto, lascio traccia su un supporto: un disco, o un supporto allo stato solido. Ma scrivendo su carta vedo il supporto, vedo l'incisione, la tracciatura nel suo farsi. Nel caso della codifica digitale, invece, il supporto è remoto e sempre invisibile. E sopratutto mi è invisibile lo ‘sfondamento’ nello spazio tempo: il segno può incidersi immediatamente sul disco fisso del mio device, o viaggiare nella Rete e depositarsi sul disco del server di una remotissima server farm. Il testo che ho scritto, inciso, memorizzato, non è la preview che ora vedo sullo schermo. La preview infatti risiede solo sulla Ram, non sul disco. Il testo è ciò che ciò che 'si sta scrivendo' in quell'attimo sul disco. Il testo è ciò che quel disco lontano e invisibile restituirà poi in lettura a me o a chiunque altro.
La scrittura digitale un processo istantaneo di cui nulla vedo. E’ una espansione infinita del gesto dello scrivere.
Se scrivo con una penna, o se stampo tramite una macchina da stampa, produco immediatamente il codice. Vedo il codice: i segni tracciati sul supporto. Così come sono in grado di scriverlo, sono in grado di leggerlo.
Se scrivo tramite computer il codice si produce invece in un luogo remoto, attraverso una serie di passaggi -di nodo in nodo della Rete, di macchina in macchina, da disco a disco- passaggi che sfiorano l'infinito. Il codice si forma su quel disco, quel supporto invisibile e remoto, ma è un codice astruso. Solo una macchina è in grado di scrivere quel codice, solo una macchina è in grado di leggere quel codice, solo un a macchina è in grado di renderne a me o ad altri lettori una traccia intellegibile su uno schermo.
Il foglio bianco ricoperto di segni, vergati dalla penna o stampati da una macchina, appare certo e rassicurante. Perché non c'è niente di mezzo tra la mano dotata di penna e il foglio; tra i caratteri di piombo e il foglio; tra la lastra incisa e il foglio. La codifica digitale avviene invece in un luogo remoto, si manifesta in una profonda oscura fenditura dello spazio-tempo. Perciò inquieta.
La codifica digitale è la ‘scrittura’ di cui parla Derrida - sebbene Derrida fosse lontano dal comprendere che stava parlando di ciò che il computing ha reso possibile. La scrittura digitale colloca il testo nell’Ungrund di Böhme: un luogo che è infinito sfondamento, inconoscibile trascendente: l'antitesi appunto di quel ground, di quel solido terreno, collocato nell'ordinaria realtà, che è il supporto piano, il visibile foglio, la pagina del libro.
Un iperspazio, una abissale fenditura si apre dentro il gesto dello scrivere/leggere, dentro un continuum che conoscevamo come certo ed evidente ed indiscutibile. Quello che scrivo, oggi, con la codifica digitale non è più lì, sul foglio o sulla lavagna. Quello che scrivo 'va a a finire' immediatamente in un luogo remoto. Di laggiù, da quest'abissale fenditura tornerà il testo che potremo leggere.
Il testo cioè, nel dominio della codifica digitale, 'va a finire', per poi di là eventualmente tornare, in quello spazio-tempo sul quale si interrogavano i filosofi e i matematici, Aristotele o forse già Parmenide, e poi Plotino: l'infinito attuale. Un infinito presente nell'attimo. Quell'infinito che Cantor cercò di descrivere.
Non a caso il computing discende direttamente dai tentativi di descrivere formalmente che matematici e filosofi portarono avanti tra la fine del 1800 e i primi trent'anni del Ventesimo Secolo.

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