lunedì 8 ottobre 2018

Macchina, Engine. Artefatto, Utensile, Strumento, Device

Macchina, Engine. Artefatto, Utensile, Strumento, Device: parole necessarie per arrivare a intendere appieno il senso della parola Computer (che trovate raccontata su questo stesso blog, qui).
Le voci che seguono sono tratte dal libro: Francesco Varanini, Nuove parole del manager. 113 voci per capire l’azienda, Guerini e Associati, 2011.

Macchina
Dante nel Convivio (Trattato Quarto, IX) si interroga -nel quadro ordinatore di Aristotele e San Tommaso- a proposito di cosa è “naturale” e su cosa è “umano”.
Parla dunque delle “maniere d’operazione” per le quali la nostra ragione è predisposta. Ci sono le operazioni che la ragione può considerare, ma non fare direttamente: le cose naturali e soprannaturali e le matematiche. Ci sono le operazioni che la ragione contempla e che traduce in atto, “le quali si chiamano razionali”, come l’arte di parlare. Ci sono infine le operazioni che la ragione considera “e fa in materia di fuori di sé, sì come sono arti meccanice”.
In greco mekhanikós, e in latino mechanicus stanno per ‘inerente alla macchina’. Ecco così in greco la mekhaniké téchne, e in latino l’arte mechanica. In greco attico la parola per ‘macchina’ era mekané. Al latino machina si giunge attraverso il dialetto dorico makaná.
Si trattava di ingegni tecnici usati nelle costruzioni e nei trasporti, e tipicamente in guerra. Ma l’osservazione di questi artefatti che l’uomo stesso aveva costruito, porta a proporre una visione del cosmo come un sistema regolato da leggi e sottratto ai capricci degli dei: è questo il senso della Machina Mundi immaginata da Lucrezio (De Rerum Natura, Libro V, verso 96).
Possiamo dunque collocare la macchina -per come essa era concepita in epoca classica, e poi nel Medioevo- proprio sul confine, che resta sfumato, tra le cose naturali e soprannaturali, le matematiche, e ciò che la ragione umana “fa in materia fuori di sé”.
Non a caso Roberto l’Anglicano scrivendo nel 1271 il suo commento al Tractatus de Sphera Mundi di Giovanni Sacrobosco che “Non è ancora possibile per qualsivoglia orologio seguire il corso del firmamento con completa accuratezza”. Gli orologiai, nota, stanno cercando di realizzare una ruota che dovrebbe fare una rivoluzione per ogni circolo equinoziale, ma non sono riusciti ancora “a perfezionare abbastanza i meccanismi”.
Nel mentre si immaginava la Machina Mundi, comunque, si continuavano a costruire macchine utili per la vita quotidiana. Ne è testimone la macina. La parola, un derivato di machina, usato nel latino parlato, designa la mola del mugnaio.
Mola, così come molinum, derivano dal verbo molere, che discende da una radica indeuropea mele, che sta appunto per ‘macinare’. Da molinum l’inglese mill, che non a caso nel 1800 -ne troviamo traccia nei saggi di Babbage e nei romanzi di Dickens- designava ogni grande macchina.

Engine
A Londra, nel 1800, vive e pensa e inventa un eccentrico genio che vede oltre. Progetta con grande acume -e tenta vanamente di costruire- macchine che oggi chiamiamo computer. In un’epoca in cui le grandi macchine sono comunemente definite mill, alla lettera ‘mulini’, a Babbage viene naturale parlare di engine.

Quando, sul finire del 1837, Babbage descrive nei suoi appunti l'Analytical Engine, la regina Vittoria è salita al trono da pochi mesi. E' la Londra di Darwin e FitzRoy, di Thomas Henry Huxley. La Londra di Dickens, fango e sterco di cavallo nelle strade, fumo che cala dai camini formando una pioggia sottile, morbida e nera. Città in trasformazione: si aprono grandi strade, si scavano fognature e gallerie per la ferrovia metropolitana.
Dickens e Babbage errano legati da amicizia. Ritroviamo Babbage nel nel personaggio di Daniel Doyce, in Little Dorrit (1857) vittima di un Governo poco disposto a sostenere l'innovazione; sconfitto a causa della scarsa protezione legale delle invenzioni.
Ada Lovelace, figlia del poeta Byron, scrive nel 1843 a proposito dell’Analytical Engine.The engine, from its capability of performing by itself all those purely material operations, spares intellectual labour, which may be more profitably employed. Thus the engine may be considered as a real manufactory of figures”. L’engine, in virtù della sua capacità di svolgere da sé le operazioni puramente materiali, risparmia lavoro intellettuale; le capacità umane possono così essere più proficuamente impiegate.
Engine porta con se l’idea di ‘macchina’, certo, e anche di ‘motore’. Ma proprio le caratteristiche innovative del congegno di Babbage ci fanno appare appropriato il termine engine.
Manufactory of figures: potremmo tradurre ‘fabbrica di simboli’ o ‘macchina che produce codice’. Possiamo però anche seguire la suggestione proposta da figura: dal latino fingere ‘plasmare’, da cui anche finzione e fiction. Non c’è in origine in questa idea negazione del reale; l’accento è posto sul creare ciò che non c’è ancora.
Engine, non a caso, discende dalla radice gene, ‘generare’, da cui, genio, genitore, gente, generazione, germe, gene, genetica, indigeno, progenie, nascere, nazione.
Il latino ingenium -da cui anche ingegneria- stava in inglese nel 1200 per ‘espediente’, ma anche ‘macchina da guerra’. Dal 1300, ‘strumento meccanico’, dal 1600 ‘macchina complessa’, poi specialmente steam-engine, ‘macchina a vapore’.
Potremmo forse tradurre congegno, incrocio di ingegnare e combinare. O meglio apparato, apparecchio. Perché il verbo latino parare, ‘produrre’, rimanda ad una radice che -con senso affine all’idea di gene- ci parla di ‘mettere al mondo’.

Artifact
La tékhne della Grecia classica, da cui la moderna tecnica e la modernissima tecnologia, si traduce in latino ars: 'arte', 'mestiere'. Si trova qui un senso che ritroviamo negli arti umani, e anche all'inglese arm, 'braccio', e all'arma -utensile, prolungamento del braccio alle mani. Un riferimento all'agire congiunto della mente e del corpo dell'essere umano. Alla base sta la radice indeuropea are, che -si veda anche anche il greco artys, 'unione'- ci parla di 'articolare', 'ordinare', 'unione', 'adattamento': di qui anche armento: 'insieme di animali'.
L'artefatto è arte factus, ‘fatto con arte’.  L’artifex è dotato di perizia tecnica, conosce il mestiere,
In latino troviamo anche artificium, artificialis, artificiosum. Le espressioni passano alle lingue romanze. In italiano, già ai tempi di Dante il senso è consolidato. Arte: 'attività umana regolata da accorgimenti tecnici e fondata sullo studio e sull'esperienza'. Artificio: 'espediente ingegnoso diretto a supplire alle deficienze della natura'.
In latino artificialis e artificiosum sono sostanzialmente sinonimi. Ma prendono poi nelle lingue romanze un senso divergente, che è utile qui ricordare. In artificiale è implicita l'opposizione al naturale: 'frutto del lavoro umano' – un esempio è la memoria artificiale: artificio, tecnologia, abilità, attraverso la quale greci e latini espandevano la capacità della mente umana di conservare conoscenza, utilizzando come supporto fisico il proprio cervello. In artificioso appare invece l'idea di 'affettazione', 'malizia', 'inutile ricercatezza', cammino lungo una strada che ci porta all'inganno e alla falsità. Chiara la differenza, l'ambiguità resta: la moderna tecnologia è al contempo artificiale -utile prodotto dell’homo faber- e artificiosa -qualcosa che minacciosamente si oppone all’uomo-.
Arriviamo così all'inglese artifact, parola nuova, coeva e connessa a technology. Entrambe si affermano negli Stati Uniti in conseguenza della saldatura tra scienza e industria. Entrambe ci parlano di 'volontaria estensione di un processo naturale'.
Per l'Oxford Dictionary (edizione 1928) l'artifact -o artefact- è ancora, genericamente, “a thing made by art, an artificial product”. Nel Supplement del 1933 la definizione è più precisa: “Anything made by human art and workmanship, an artificial product”. Workmanship: 'lavorazione', 'abilità professionale', 'rifinitura'.
Nel Supplement nel 1987, infine, appare una significativa aggiunta: “in technical and medical use, a product or effect that is not present in in the natural state (of an organism, etc.) but occurs during or as a result of investigation or is brought about by some extraneous agency”.
E dunque, se prima della rivoluzione scientifica e tecnologica del Ventesimo Secolo vedevamo l’artifact come prodotto dell’homo faber, ora lo osserviamo come mera conseguenza di un un processo di continua modifica dell’ambiente – al quale sia l’uomo, sia gli aritfacts già esistenti contribuiscono. 

Utensile
Organo: il latino organum; e, prima, il greco organon, significavano genericamente 'strumento', 'utensile', dalla radice indoeuropea werg-, che esprime l'idea di lavoro (da cui il greco 
érgon, 'lavoro', 'opera' e ergazomai, 'lavorare'; così come en-ergeia, 'forza in azione', 'energia').

L'idea di organo naturale, biologico, è dovuta al fatto che nessuna macchina appariva all'uomo complessa ed articolata come il suo stesso corpo. Forse la macchina più sofisticata costruita nell'antichità classica era lo strumento musicale a canne -macchina, organo per eccellenza.

Protesi, dal francese prothèse, alla fine del 1600 'apparecchio sostitutivo'. Il francese è dal latino tardo e dotto prothesis, 'aggiunta di una lettera all'inizio di una parola', dal greco próthesis, 'esposizione' , 'anticipazione', dal verbo prothítenai, 'porre innanzi', da pro, 'davanti', thítenai 'porre'.

Strumento: dal latino instrumentum, verbo struere 'costruire' (da cui anche structura) a sua volta dalla radice ster 'stendere'.
Dispositivo, dal francese dispositif: 'che prepara', dal latino dispositus, nel senso di ‘preparare al lavoro’, ‘preparare gli strumenti per il lavoro’.
Tool: protogermanico tolan, antico inglese tawian, ancora nel senso di 'preparare'. Strumento per eseguire o facilitare operazioni manuali, attrezzo, arnese.
Attrezzo: nel 1100 in antico francese atrait, alla lettera: 'attratto'. In italiano dalla seconda metà del 1600 'arnese necessario allo svolgimento di una attività'. Attrezzatura: nel 1800 'insieme di strumenti e pezzi di cui è corredata una nave', e poi nel 1900 complesso di arnesi, macchine, impianti destinati uno scopo.Equipaggiamento: dal france équiper, forse risalente allo scandinavo skipa, 'allestire una nave'.
Arnese: provenzale arnes, francese antico herneis, 'armatura del cavallo'.
Herramienta, in spagnolo ‘strumento’, utensile’. Dal latino ferramenta, plurale neutro di ferramentum, ‘arnese di ferro’.
Possiamo forse sintetizzare guardando all’utensile. Nel senso di strumento, arnese da casa o da officina, arriva in italiano nel 1600 attraverso il francese dotto ustensile, che si affianca al popolare outil. In origine, il latino utensilis, aggettivo per ‘utile’, ‘necessario’. E utensilia, ‘cose utili’; dal verbo uti, 'usare' – ma con un senso che resta ampio, ben oltre i confini del lavoro, come si legge in Tito Livio: “divina humanaque utensilia”, ‘oggetti relativi al culto e alla vita’.


Device
Un antichissimo concetto indeuropeo: widhewa significa ‘colei che è priva’, ovvero la ‘vedova’ (ne troviamo traccia precisa nel tedesco Witwe). La radice è weidh, ‘separare’, ‘dividere’, da cui il verbo latino dividere - dove il di rafforza l’idea di sottrazione.
Dividere sta dunque in latino per per ‘separare’, ‘distaccare’, ‘fendere’, ‘spaccare’. Anche per ‘distribuire’, ‘ripartire’, ‘dispensare’. E, in senso lato, ‘abbellire’, ‘far risaltare’, ‘ornare’ - ma anche qui resta sullo sfondo l’antica idea di vedovanza: irrimediabile mancanza, allontanamento dolorosamente subito.
Continuando ad esplorare questo campo semantico segnato dalla privazione, troviamo subito un
altro verbo, derivato da dividere, già usato nel latino volgare: divisare. Di qui l’antico francese, da cui l’italiano. Diviser, poi deviser, dal 1100 ci parla ancora di separazione, ma introduce l’idea di un proposito, una determinazione ad andare oltre: ‘mettere in ordine’, ‘fare la parte di’, ‘condividere’, ‘raccontare’. Quindi: ‘esaminare punto per punto’, ‘esporre minutamente’. E poi: ‘ideare’, ‘immaginare’, ‘inventare’.
Da deviser, nel 1400 devise, ‘azione di dividere’, e dunque segno distintivo, da cui da noi divisa, la veste che serve a distinguere un casato, uniforme che serve a distinguere un esercito. E la divisa nel senso di ‘titolo di credito’, ‘moneta cartacea’.
Prima però, già nel 1200, devis. ‘Separazione’, ma anche ‘disposizione’, ‘desiderio’, ‘proposito’. E quindi: ‘schema’, ‘piano’. Ancora oggi in francese devis è ‘stato dettagliato dei lavori da eseguire con la stima dei prezzi’, ‘preventivo’.
Da qui, nello stesso 1200, l’inglese devise (la grafia devise o device rimane incerta fino alla fine del 1800): maniera in cui qualcosa è divised o framed, con riferimento al progetto. C’è anche un rimando al subdolo, al malvagio. Ma poi anche qui entrano in gioco will, piacere, inclinazione. E quindi device è ‘ingenious or clever expedient’, ‘innovazione’.
Ecco così il ‘congegno destinato ad uno specifico scopo’. Prima meccanico e poi elettronico.
Alla tremenda solitudine della vedova, così come alle divisioni tra persone si risponde divisando: immaginando e realizzando strumenti capaci di aiutare a vivere con agio anche in stato di isolamento; strumenti utili a creare relazioni, oltre la divisione sociale.
Se il digital divide -la divisione, il divario che separa chi dispone di strumenti informatici e chi ne è escluso- si pone oggi come problema, electronic devices alla portata di tutti -calcolatrici tascabili, telefoni cellulari, computer palmari- semplici da usare ed efficaci, si presentano come soluzione. 

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