lunedì 1 novembre 2010

L’iPad e il nuovo modo di scrivere

Ho detto in due diversi post, qui e qui, di come l’iPad sia criticabile: perché riduce la novità del personal computer, depotenziandone e svalorizzandone caratteristiche chiave. L’iPad, così, offre il destro a restauratori e nostalgici del tempo perduto – il cui ruolo sociale tende a scomparire nel mondo svelato dal personal computer, e dalla Rete.
Detto questo, possiamo invece guardare ai meriti di questa macchinetta, e cioè agli aspetti per i quali l’iPad appare significativo passo avanti nella linea evolutiva alla quale il personal computer appartiene.
I meriti risiedono non tanto nel nuovo modo di leggere, la funzione sulla quale sembra fondarsi la fama dell’iPad. All’opposto, credo che i meriti si fondino su come l’iPad ci mostra, meglio di qualsiasi altro device, un nuovo modo di scrivere.
Lo scrivere è, in origine, un gesto violento. L’etimo sia di scrivere che di write rimanda in modo preciso ed inequivocabile al graffiare un supporto, all’incidere una superficie. Il supporto cambia nel tempo: pietra, pergamena, cera, carta. Con le lastre da stampa si torna addirittura indietro, alla pura incisione. Si evolvono gli utensili: una selce appuntita, un bastone di legno, uno scalpello, uno stilo, un pennino. Ma resta in tutti i casi il gesto violento.
E se nel tempo si aggiunge un senso a quello dell’incidere e del graffiare, si tratta di un gesto che implica ancora forza, violenza: il pressare, l’imprimere. Così in francese imprimer, presse. In spagnolo imprimir, prensa. In inglese print, press.
Possiamo leggere in questo modo di intendere la scrittura tradisce il timore dell’impermanenza, della vacuità. Il timore che non resti traccia. La ricerca dell’indelebilità. La lotta contro il tempo fondata su una forzatura, appunto, potrei dire, sul ferire il supporto.
Molti intellettuali ignoranti, od in malafede si chiedono: cosa ne sarà della parola scritta se affidata a supporti digitali? Qual’è la certezza che la parola digitalizzata permanga nel tempo?
Sono in malafede, attribuiscono ogni pericolo ed ogni limite alla tecnologia che non si sforzano di conoscere. Possiamo comprenderli solo ricordando che il loro atteggiamento è in origine, quale che sia la tecnologia, fondato sul timore di perdere la parola scritta. Sanno bene dei limiti della parola incisa sul supporto: i manoscritti ed i libri stampati si deteriorano con il passare degli anni e dei secoli; i manoscritti e i libri e le intere biblioteche possono andar persi e possono essere irrimediabilmente bruciati.
La scrittura come gesto violento è legata intrinsecamente al timore di perdere la parola scritta.
E infatti, altri intellettuali più intelligenti e acuti -ne cito due: George Steiner e Ivan Illich- parlano della paura di perdere il libro, del timore di un mondo senza libri scritti nel consueto modo. E Illich in particolare si sofferma sulla caratteristica che più ci pare necessaria e più ci rassicura: l’ancoraggio del testo alla pagina.
Come si può intendere un testo mobile e mutevole, in apparenza privo di luogo, un testo che compare e scompare su uno schermo. Come si può costruire con simili testi un sapere, una conoscenza dotata di sapore e di valore? Come emerge da questi testi in apparenza così labili una letteratura?
Non ho una risposta. Della letteratura avvenire possiamo vedere solo pochi indizi, pochi incerti passi. Ma posso vedere con chiarezza come il punto di partenza -il momento in cui si genera il testo: il gesto di chi scrive- presenta aspetti di novità. E posso notare come di questa novità l’iPad è testimone esemplare.
Ritorniamo alla violenza implicita nell’uso della penna e del foglio, violenza replicata in toto nella stampa. Ritorniamo al gesto violento rappresentato dal colpo inferto al foglio dal carattere della macchina da scrivere. Ritorniamo al gesto violento ancora implicito nel battere, nello schiacciare i tasti di una tastiera.
Ricordiamo ancora che una generazione di palmari, anche avendo a disposizione la funzione touch screen, presupponeva una simulazione del gesto della scrittura su carta: si usava uno stilo, esercitando con questo una adeguata pressione sullo schermo.
Un’altra famiglia di palmari tutt’ora in auge, caso esemplare il Blackberry, presuppone l’uso di una tastiera.
Poniamo attenzione alla fondamentale differenza.
Lontani dal paradigma che presuppone il graffiare, l’incidere, lo schiacciare, molti passi avanti nel nuovo terreno aperto dal mouse -che ci chiede gesti leggeri- con l’iPad, così come già con l’iPhone si scrive senza la mediazione di nessun utensile, con un gesto lontanissimo dal graffiare, dall’incidere, dal pressare, dallo schiacciare.
Si scrive con le mani, con le dita, con i polpastrelli. Si scrive sfiorando la superficie con un gesto lieve. Sfiorare: ‘toccare impercettibilmente la superficie’, cercando con essa un’intima sintonia. Così si interagisce con l’iPhone e con l’iPad.
Un gesto che ha intimamente a che fare con la sintonia, con il sentire. Interessante, per cogliere la differenza dalla tradizionale scrittura, il senso dell’inglese feel. La radice indoeuropea pol-/pal- sta per ‘toccare leggermente con la mano’, ‘accarezzare’. Di qui anche il greco psallein: ‘suonare l’arpa, toccandone lievemente le corde’. E nella nostra lingua, attraverso il latino, palpare e palpitare.
Le carezze, il tocco leggero delle dita sull’arpa, il palpitare del cuore. Se scrivere è, come è, esternalizzare la conoscenza che abbiamo in mente, darle forma, questa assenza di ogni forzatura, questa vicinanza tra mente e corpo e supporto, aprono un nuovo orizzonte.
Possiamo veramente pensare che una scrittura così priva di violenza, una scrittura che si manifesti con questa leggerezza, con questa ritmica misura, possa generare testi diversi.

Arbitrary Restriction of Goods Is the Future

Un amico mi dice che le apps per iPad hanno un loro senso. Le apps, applicazioni, programmi che girano solo su iPad si giustificano con la novità del device. L’iPad, utensile diverso da ogni altro, con una sua specifica proposta di interazione uomo-macchina, giustifica e anzi motiva programmi ad hoc. Altrimenti, si dice, non si sfrutterebbero le potenzialità della macchina. Insomma, come vuole la Apple, dovremmo plaudere a questo modo di combinare “the power of the Internet with the simplicity of Multi-Touch technology”.
E naturalmente, la strada aperta da Apple è subito seguita. Alle applicazioni create per iPod Touch, iPhone, iPad è subito percorsa da altri: si è lieti di far sapere che, pur ancora lontani dal numero di app reperibili presso Apple Store, esistono ormai oltre centomila applicazioni per Android, il sistema operativo per dispositivi mobili di Google.
Così, dietro l’ipocrita finzione di una semplificazione tesa a migliorare la vita all’utente, si nasconde il solito trucco: obbligare di nuovo a sottostare al comando di un intermediario che usa la tecnologia per limitare l’accesso alla conoscenza.
Sembreranno parole troppo grosse. Ma il punto è che non solo il fine, ma anche il percorso è sempre il solito: diseducare la persona tramite ogni forma di pubblicità, fare appello alla sua pigrizia e alle aspettative più superficiali, trattare ognuno da stupido rendendolo passivo consumatore.
E questo anche quando, tramite l’uso del personal computer, le persone hanno dato prove di non essere pigre, di saper scegliere da soli quello che gli serve. E quando tutti hanno provato come si vive meglio senza una pubblicità passivizzante e invasiva.
Un computer ha un costo sempre più basso. Nonostante le funeree previsioni di esperti che temevano troppo difficile l’uso, qualunque bambino, o qualunque persona non scolarizzata, chiunque impara da solo facilmente a interagire con la macchina e a fare ciò che gli pare e gli serve: giocare, scrivere, leggere.
I protocolli che presiedono al funzionamento di Internet e del World Wide Web sono trasparenti. Chiunque li può usare. Il Browser, sia Explorer di Microsoft o sia Firefox o sia Safari della Apple, rende accessibile la conoscenza ‘che c’è in Rete’ in modo trasparente, senza gerarchie e senza giudizi di valore e senza distinguere tra ciò che costa e ciò che è gratuito. Google, a fronte di una nostra domanda, mostra le fonti in una gerarchia che è conseguenza all’abilità di chi ha caricato le conoscenze, e al contempo è conseguenza della nostra capacità di cercare ciò che ci serve con acume e precisione.
Insomma, con i personal computer connessi in Rete il mondo è cambiato: produrre conoscenze, scambiarle, accedere a conoscenze non è mai stato così facile. Sempre più conoscenze sono prodotte senza l’intervento di professionisti della comunicazione: siamo tutti, sempre più, produttori e consumatori di conoscenze. Le conoscenze a tutti disponibili, senza intermediari, in gran misura gratuite, hanno cambiato il mondo. Così è smentita nei fatti l’ipocrita pretesa di chi vuole far credere che il costo sia una garanzia di qualità. Abbiamo sotto gli occhi la dimostrazione che il processo sociale di creazione di conoscenza funziona a prescindere da pubblicità, censure, controlli. In una parola, senza senza gatekeeper.
Così è smentita l’ipocrita pretesa di chi voleva far credere che troppe informazioni sono dannose, pericolose, ingestibili, fonte di paura. La situazione della persona che prima non aveva accesso a conoscenze, se non a fatica, se non pagando. Aveva a disposizione poco prima, ha molto adesso. Impara, senza paura, per tentativi ed errori a fruirne.
Gli unici che hanno paura, credo, sono i sacerdoti della mediazione. Loro, più di ogni altro, erano abituati a sistemi organizzati, gerarchici, stabili, controllati. La galassia informe e sconfinata capisco che possa sconcertarli.
Gravissimi problemi oggi per loro. Loro che hanno vissuto imponendo il loro ordine e il loro controllo, la loro mediazione. Loro che fondano il proprio ruolo sullo spiegare agli altri come accedere alla conoscenza. Loro che vivono traducendo per gli altri conoscenze appositamente espresse in modi incomprensibili ai più. Un gran mazzo di figure professionali è coinvolto in questo gioco, oggi sempre più difficile da giocare. Non me ne voglia nessuno se faccio qualche esempio: professori e giornalisti e editori e censori di professione. Dietro i professionisti, naturalmente, un’industria.
E’ l’industria che un tempo si chiamava dell’editoria e oggi qualcuno chiama, pensando di essere più moderno, del content. La parola è interessante, perché svela l’inganno: non interessa la produzione e la circolazione della conoscenza in sé. Si vuole che sia visibile ed accessibile solo la conoscenza ridotta a contenuto. La conoscenza chiusa in contenitori assoggettati al controllo dai mediatori.
Dunque: professionisti della comunicazione ed intellettuali di professione si sostengono nel resistere al cambiamento culturale che il personal computer, Internet ed il World Wide Web hanno reso possibile. Avrebbero potuto darsi da fare per ripensare il proprio ruolo alla luce del nuovo paradigma. Ma molto più facile appare loro tentare con ogni mezzo di ripristinare la situazione precedente.
Con una differenza non trascurabile. Il libro, il giornale, il Broadcasting radiofonico e televisivo: mezzi che si fondavano su una tecnologia che impediva di fare altrimenti. L’unico modo per diffondere conoscenza attraverso la stampa era passare attraverso un passaggio: la trasformazione del manoscritto in libro stampato. Operazione che poteva svolgersi solo tramite intermediari specializzati. E così anche la diffusione ‘via etere’. Mentre oggi ciascuno può editare. Ciascuno può ‘mettere in onda’. Come far ritornare il mondo indietro? Come tornare a quel tempo in cui -a tutto vantaggio dei mediatori di professione, e con loro, dei censori- la mediazione era tecnicamente necessaria?
Sembrava una guerra persa. Ma ecco dove vengono buone le app. La conoscenza accessibile via browser non è assoggettabile al controllo. Mentre invece è controllabile la conoscenza ridotta ad applicazione, o il cui accesso è subordinato all’uso di una specifica applicazione proprietaria. Ecco così che, dietro l’apparente facilitazione dell’accesso, si controlla l’accesso, fino a negarlo.
Ecco così che, persa la battaglia del personal computer, si lavora in ogni modo per non perdere la battaglia dei device più limitati e limitanti, più stupidi e instupidenti: i telefoni cellulari, i palmari, i lettori di eBook.
Di questa tendenza l’iPhone è il più glorioso esempio. E l’iPad è l’ultima incarnazione. Invece di proporre al mercato un personal computer più piccolo, dotato di tutti i vantaggi del personal computer, ecco un telefono cellulare più grosso, dotato di tutte le limitazioni del telefono cellulare.
Ai vantaggi sostanziali del personal computer, si contrappongono la facilità d’uso dell’iPad, il suo aspetto glamorous. I suoi limiti per quanto riguarda la produzione di conoscenza e l’accesso alla conoscenza sono nascosti dietro l’apparenza, dietro la “simplicity of Multi-Touch technology”.
Ho ridetto così, seguendo un percorso parallelo e convergente, quello che avevo detto in un precedente post: Steve Jobs è un Gattopardo, creando giocattoli per adulti come l’iPad lavora perché tutto cambi in apparenza, ma nulla nella sostanza. L’iPad è un inestimabile servizio offerto agli editori più retrogradi, agli intellettuali seduti sui loro vani allori.
A me piace dirla così. Altri, con buone ragioni, la dicono in in modo più brutale. Damiano Ceccarelli mi segnala un articolo apparso su Cracked.com. Con quel misto di satira e di estrema serietà che caratterizza il sito, si dice che “Arbitrary Restriction of Goods Is the Future”.
Arbitraria restrizione, sì: nel libro la restrizione -il passaggio attraverso i cancelli dell’editore- è legata all’impossibilità di fare altrimenti. Qui, dove esistono e sappiamo usare il personal computer, Internet ed il World Wide Web- la restrizione è più grave, perché puro arbitrio nascosto dietro pubblicità ingannevole.
Damiano Ceccarelli commenta, sintetizzando ulteriormente: con vari aggeggi e vari inghippi “è stato trovato il modo per rendere a pagamento quello che sul web è gratuito”.