martedì 22 dicembre 2020

Quale filosofia per i tempi digitali

Sommario

Di fronte alla 'novità digitale', dove sembra che l'umana capacità di pensare possa essere trasferita ad una macchina, la filosofia è sempre più necessaria. Ugualmente è necessaria filosofia di fronte alla conoscenza scientifica, settoriale e specialistica, fondata su linguaggi escludenti.

Purtroppo ciò che vediamo accadere è invece la genuflessione della filosofia di fronte alla 'novità digitale', alla scienza ed alla tecnica.

Ma più che di morte della filosofia si deve parlare di resa dei filosofi. 

Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome. Possiamo anche affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione. Possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell'essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi e la propria saggezza.



Il filosofo non è il sapiente, è l'amatore di sapienza. Non chi ha acquisito la sapienza, ma chi tende ad essa. Chi desidera attingere a conoscenza. Il filosofare è il pensiero che va oltre limiti e costrizioni, cercando il sapere al di là di ogni conoscenza settoriale. Per questo si arriva a proclamare la morte della filosofia: di fronte al proliferare di discipline, una conoscenza multidisciplinare appare oggi inattingibile.
Abbiamo assistito negli ultimi secoli al trionfo del pensiero scientifico e tecnico. Scienziati e tecnici non sono filosofi, perché rinunciano a priori ad accettare la complessità, la rete che tutto connette, l'interlacciamento, il garbuglio che lega tra di loro i saperi specialistici. Non solo scienziati e tecnici di discipline diverse non sono in grado di parlare tra di loro, ma anche all'interno della stessa disciplina la ricerca procede per crescente specializzazione. Esemplare il caso dell'informatica: chi conosce un codice non conosce l'altro, chi lavora su una tecnologia ignora del tutto l'altra. 
Si potrebbe da questa situazione dedurre che la figura del filosofo acquista oggi, nell'Era Digitale, una nuova centralità. Si potrebbe sostenere che più che mai servono oggi filosofi: esseri umani liberi pensatori tesi oltre ogni conoscenza settoriale, specialistica. Disposti a cercare il 'dischiudimento': la conoscenza narrata andando oltre i linguaggi escludenti degli addetti ai lavori. Disposti al rischiaramento: l'illuminazione che rende chiaro l'oscuro. Disposti a svelare il senso nascosto, quel senso che ogni scienza nomina e descrive a suo modo. Si potrebbe pensare al filosofo come al miglior compagno per il cittadino che cerca una via per addentrarsi nella novità digitale. 
  
Filosofie digitali 
Ciò che vediamo accadere, è qualcosa di diverso. Più che di morte della filosofia, possiamo forse parlare di resa dei filosofi. 
E' in fondo una resa quella dei finissimi pensatori che restano legati al passato, e lo proiettano sul presente che resta incompreso, non studiato né veramente accettato. L'antico esercizio si ripete uguale, si rileggono i classici e alla loro luce tutto si spiega. Bellamente si evita così di prendere in esame il mondo che si ha sotto gli occhi, di esercitarsi a comprendere ciò che in tempi recenti è accaduto ed emerso. Scienza e tecnica, ai loro occhi, nulla di differente mostrano, tutto è giù stato visto e detto. Tantomeno rilevante appare al loro sguardo la novità digitale. Non c'è non c'è discontinuità, catastrofe che non venga ricondotta a ciò che la storia in tempi andati ha già mostrato. Si evita così di osservare la novità che interroga. 
Basta citare un aspetto della novità: mai prima degli ultimi cent'anni, mai prima dell'apparire sulla scena della macchina digitale si era immaginato che potesse essere progettata da un umano una macchina in grado di prendere il posto dell'umano. Sostituendolo, come propone Turing, anche nel suo agire più alto e più nobile: il pensare. La novità è evidente – eppure si sceglie di non vederla. 
Altri filosofi di gran traiettoria hanno invece accettato la discontinuità: scienza e tecnica hanno ormai trionfato. Hanno accettato il fato avverso: la filosofia è ormai obsoleta. Con un misto di invidia nei confronti degli scienziati e di rimpianto per il tempo che fu, questi filosofi continuano a esercitare il loro pensiero finissimo, ma rivolti al passato, ripassando la storia, distinguendo filoni. Umiliati dagli abbaglianti successi della scienza e della tecnica, dubbiosi si interrogano, e cercano di ritagliarsi spazi sul terreno ormai così solidamente occupato. Se andrà bene, d'ora in poi la filosofia sopravviverà come epistemologia, studio dei metodi e dei fondamenti della scienza. Eppure qualcuno di questi filosofi coraggiosamente cerca di trovare ancora motivi per non rinunciare all'antica vocazione al pensiero senza confini: si inchina ai suoi successi della scienza e della tecnica, ma osserva come ogni disciplina sia chiusa nella propria stretta cultura, chiusa proprio lessico. Conclude quindi che forse resta aperto un possibile ruolo: il 'traduttore', dedito a promuove il dialogo tra famiglie professionali di scienziati e tecnici. 
Altri filosofi ancora, anche in età matura o avanzata, si avventurano invece con giovanile baldanza nelle nuove terre scientifiche e tecniche. E soprattutto, con speciale entusiasmo, si dichiarano abitatori della terra promessa digitale. Proclamano allora la loro dedizione a far proprio il nuovo verbo. Osservano giovani generazioni per imitarne i comportamenti; leggono e citano con reverente attenzione testi che cantano la bellezza e le virtù di algoritmi e di intelligenze artificiali. Finiscono così per essere ingenui ed acritici apologeti di una nuova indiscussa verità. 
C'è poi il nutrito gruppo di filosofi che da subito hanno incassato la sconfitta, e che su questa sconfitta, con abile giravolta, hanno costruito la propria carriera. Privi di qualsiasi nostalgia o rimpianto per un ruolo perduto, semplicemente badano a crearsene uno nuovo. Essi hanno rinunciato sotto ogni aspetto al pensiero senza limiti e costrizioni. Si sono fatti al contrario sacerdoti di un singolo, settoriale, escludente campo di ricerca. Hanno rinunciato ad essere 'filosofi', per essere invece 'filosofi di ...'. Non una, ma enne filosofie. Ognuna commenta e celebra la storia di una disciplina, la sua pretesa autonomia, ognuna si fa custode di un lessico specifico, di un metodo di ricerca. Filosofie di servizio, al servizio, abbelliscono così il panorama di ogni disciplina. 
Di queste filosofie fattesi ancelle di singoli rami della scienza e della tecnica, sono caso esemplare le varie filosofie, ognuna delle quali accompagna una sfaccettatura della ricerca e dello sviluppo nel campo della computer science. Filosofie con l'aggettivo, dove 'digitale' è solo uno dei diversi aggettivi usati. 
Il filosofo qui ha un ruolo di complemento; ruolo che può essere esercitato con un grado di libertà non concesso agli addetti ai lavori: tecnici, imprenditori e finanziatori. Il tecnico è impegnato a costruire strumenti e sistemi che funzionino davvero. L'imprenditore e il finanziatore cercano il ritorno dell'investimento. Il filosofo si limita a cantare le gesta. Storia e tradizione ci ricordano il filosofo che attraversava terre incognite alla ricerca di conoscenza, il filosofo che sondava l'oscuro alla ricerca della luce. Ma ora il pensiero che conta e quello degli scienziati e dei tecnici; il filosofo si limita ad accompagnarli. Ma in questo accompagnamento, il ruolo della filosofia appare rovesciato. Il vecchio filosofo cercava il rischiaramento. Il nuovo filosofo cerca l'oscurità. Neologismi e gerghi, abbondantemente usati, hanno un preciso scopo: confondere il cittadino, intimidirlo, mostrando la forza e la superiorità della tecnica digitale. E quindi, anche, la necessità del nuovo filosofo-accompagnatore. 
  
Spiacevoli costanti 
Le filosofie digitali appaiono accomunate da due spiacevoli costanti. Questa costante è la terzietà. 
La prima costante consiste nell'ambito di indagine e nell'ampiezza dello sguardo. Questi nuovi filosofi guardano esclusivamente al terreno digitale. Ciò che esiste al di fuori, al di là, del terreno digitale -la vita, la natura- è ignorato o rimosso. La storia del pensiero degna di essere presa in considerazione inizia con Alan Turing. Di quel vasto e sfumato esercizio umano che possiamo definire con la parola 'pensiero' sembra degno di restar vivo solo ciò che computabile, cioè calcolabile tramite una macchina. 
La seconda costante della filosofia dell'era digitale è la terzietà. Sul terreno digitale, si afferma, esistono due 'agenti ': l'essere umano e la macchina. Di fronte alla duplice presenza, il filosofo sceglie di seguire la via del fair play indicata da Alan Turing: offrire ad entrambi gli agenti le stesse chances, le stesse probabilità di successo. 
Il nuovo filosofo si pone nella posizione di estraneo, imparziale osservatore privo di interessi in comune con entrambe le parti in causa. Ci sono certo accenti diversi. C'è il filosofo digitale che mostra compassionevole interesse per gli esseri umani, e c'è il filosofo digitale che scommette sull'avvento di nuovi esseri digitali, di macchine morali che saranno migliori degli esseri umani. Ci sono filosofi che di fronte ad ogni innovazione tornano a dichiararsi sostenitori di una tecnologia Human-centered. E ci sono filosofi che invece si lanciano decisamente sullo scenario post-umano. 
Ma in ogni caso il nuovo filosofo considera doveroso produrre il massimo sforzo soggettivamente possibile per allontanare da sé ogni umana inclinazione; considera doveroso allontanarsi dal proprio essere umano.

Turing, Heidegger, Wittgenstein 
Insomma, nel Ventesimo Secolo si afferma una filosofia che guarda con lo stesso distacco ad esseri umani e macchine. Celebra infatti Turing, che era mosso dalla speranza di poter costruire una macchine migliore di lui stesso. 
Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein rispondono a Turing. Come ho mostrato in Macchine per pensare. L'informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi, entrambi avevano ben presente in cosa consistesse quella novità che oggi comunemente riassumiamo tramite il termine digitale. Heidegger ci parla del senso dell'esperienza umana: si impara ad usare il martello nel martellare. Ma qualcosa cambia quando l'essere umano è privato della possibilità di fare esperienza, perché gli sono proposte o imposte esperienze già confezionate, progettate da tecnici nel chiuso dei loro laboratori. Come mostro nelle Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale, questo è ciò che accade nell'odierna situazione digitale. 
E' sempre Heidegger a ricordarci che l'agire umano pienamente inteso consiste nell'accettare di trovarsi sbattuti a vivere in una terra sconosciuta, nell'essere nella condizione di chi si trova ad avventurarsi in luoghi dei quali nulla sappiamo veramente. 
Ora, proprio questo appare essere l'atteggiamento più conveniente per noi esseri umani di fronte alla novità digitale. Ci conviene pensare che ci avventuriamo nell'ignoto. Ignoto per tutti. Nessuno dei tecnici dediti a progettare un qualche aspetto della scena digitale ha una visione d'insieme. Nessuno di loro sa veramente cosa sta facendo. Anche i cosiddetti 'nativi digitali' si avventurano su un terreno nuovo - e nel farlo non dispongono nemmeno dell'esperienza di chi ha vissuto nel tempo precedente, e ha visto emergere la novità digitale. Heidegger ci dice: vivere è sentire su di sé il peso di una ansiosa preoccupazione, ed è solo da questa inquietudine che può nascere l'agire efficace e allo stesso tempo responsabile. Questo vale per ogni essere umano, ma innanzitutto per chi oggi progetta strumenti o mondi digitali. Heidegger ci ricorda che il progettare è sempre connesso al progettare sé stessi; è connesso alla personale ricerca di consapevolezza, alla personale saggezza. 
Facile notare come i filosofi digitali scelgono invece la via opposta. Non chiamano il progettista a fare i conti con la responsabilità personale. Al tecnico è chiesto solo di sviluppare nuove tecniche. 
Il filosofo digitale si rivolge semmai al cittadino, invitandolo a non dubitare, a fidarsi, a prendere per buona ogni innovazione. 
Wittgenstein non è tanto lontano da Heidegger quando ci invita a considerare che pensare significa superare quei umilianti momenti in cui siamo costretti ad ammettere: 'non mi ci raccapezzo', 'non so che strada prendere', 'non so come venirne fuori'. In questi momenti, forte è la tentazione di rinunciare, e di lasciare alla macchina il compito di pensare al nostro posto. 
Dice ancora Wittgenstein: noi siamo, quando filosofiamo, come uomini primitivi, come dei selvaggi, che ascoltano le espressioni di uomini civilizzati, le fraintendono, ma sanno poi sanno andare oltre, e trovare un senso. 
In effetti oggi è difficile, all'apparenza impossibile, mantener vivo l'approccio trans-disciplinare, multi-disciplinare, disposto alla complessità. Difficile abbracciare l'enorme e sempre crescente massa, l'intrico di conoscenze. Difficile anche accettare l'abisso della propria ignoranza, la povertà degli strumenti di cui disponiamo. 
Noi umani nel pensare ci muoviamo a tentoni, privi di certezze, guidati da deboli congetture. Ma proprio questo è il filosofare: sondare l'oscuro. E proprio qui sta l'amore per la sapienza: io, essere umano, nonostante tutto ci provo, e in questo tentativo sta la mia etica. 

Pensiero critico 
Questo umano pensare responsabile, riflessivo, per quanto possibile saggio, non rifiuta certo il progresso e l'innovazione. Possiamo guardare anzi con appassionata, affascinata attenzione a tutto ciò che di nuovo scienza e tecnica propongono. 
Eppure possiamo ritenere inutile una 'nuova filosofia' che si fa paladina della scienza e della tecnica. Possiamo sostenere, al contrario, che serva oggi una filosofia che si ponga come costruttiva critica della scienza e della tecnica. 
Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome. Possiamo anche affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione. Possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell'essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi. 
Non importa se si tratta forse di una 'posizione di minoranza'. Di minoranza, perché lontana dalla posizione di scienziati e tecnici, che avanzano nella ricerca senza porsi troppe domande. Di minoranza, perché il mainstream della filosofia si è inginocchiato alla scienza. Di minoranza, perché i filosofi digitali hanno scelto la terzietà, l'indifferenza tra l'umano e il macchinico. In un senso più ampio, di minoranza anche perché forse Intelligenze Artificiali e robot sovrasteranno l'essere umano, e una nuova capacità di ragionare surclasserà ciò che è umanamente possibile. 
Si può del resto sostenere che chi merita il titolo di filosofo si trova sempre in una posizione di minoranza. 
In ogni caso resta a noi essere umani la possibilità di fidarci di noi stessi. Quindi posso dire: anche quando, in un futuro forse non così lontano, esisteranno macchine più 'intelligenti' di noi umani, più capaci, più efficienti, magari anche più 'morali', continuerò, in quanto essere umano, a pensare. A filosofare. 

 

lunedì 7 dicembre 2020

La macchina che ci accompagna nella vita ci blandisce, ci lusinga, ci dice...

La macchina che ci accompagna nella vita ci blandisce, ci lusinga, ci dice: 'fai questo, è nel tuo interesse'. La nostra convinzione, la fiducia in noi stessi, ci permetterà andare contro questo invito, e di rispondere: 'no, non voglio'. Ci permetterà di considerare il computer che possediamo -ricordiamo che è computer anche un tablet, uno smartphone- bastone, bisaccia, scarpa vecchia. Ci permetterà, almeno in qualche misura, di usare il computer in modo aberrante. Uso aberrante: uso che apparirà pericolosamente strano, irregolare, anomalo. agli occhi di chi ha progettato, disegnato l'applicazione, costruito la macchina. 
Usare la macchina in modo aberrante è tornare ad essere pienamente cittadini, violando il dettato della Terza Legge che dice: riduci te stesso a passivo utente. 
Eppure in cuor nostro sappiamo che solo in qualche misura riusciremo a piegare il computer a mezzo proprio, mezzo che espande il personale modo di sentire e di volere. Sappiamo che le macchine di cui disponiamo sono lontane dall'essere strumenti che il libero essere umano può modificare attraverso l'uso, plasmare, adattare a sé, e magari anche riparare da sé. 
L'Era Digitale è appunto la stagione in cui una immane, potenza emana dalla macchina, schiacciando l'essere umano. Perciò il dettato della Terza Legge si rovescia veramente solo se i tecnici si riconoscono essi stessi cittadini prima che tecnici. 
La storia della bastone, della bisaccia e della scarpa vecchia è rivolta, in fondo, innanzitutto ai loro. Le narrazioni sono le fonti del progetto. Non c'è nessun definitivo motivo che obbliga a immaginare macchine che siano surrogati del destino, delle Leggi di Natura, della Provvidenza, della Grazia del Fato. Il tecnico non ha motivo per far proprio lo struggente desiderio di Turing: costruire una macchina migliore di sé stesso. 

Se osserviamo la scena e agiamo in quanto esseri umani, non basta certo intendere la relazione tra essere umano e macchina come una questione di interfacce. Non basta immaginare e progettare un accoppiamento tra due organismi -l'essere umano e la macchina- ai quali è riconosciuta pari dignità, pari autonomia o autodeterminazione. 
Non basta almanaccare attorno alla presenza di due diversi tipi di intelligenza. Non basta ricordare gli aspetti per i quali l'intelligenza umana prevale sull'intelligenza macchinica. Non basta dire che è prematuro preoccuparsi ora, perché i nodi verranno al pettine in un tempo futuro più o meno lontano. A un certo punto, ognuno è libero di fare scelte radicali e di dire: faccio appello alla mia saggezza; sto dalla parte dell'essere umano; sto dalla parte della specie cui appartengo. A valle di questa scelta risulta chiaro che esiste una discriminante precisa: o la macchina è un aiuto all'essere umano, o è una sostituzione dell'essere umano. Baloccarsi nella zona grigia, cercare sottili distinguo, proporre scenari dove la macchina e l'essere umano vincono insieme, tutto questo va inteso in fondo come partito preso: scelta di stare dalla parte della macchina. 

La storia della cultura digitale ci parla chiaramente. 
Nel 1950 Alan Turing scrive, in conclusione del suo articolo Computing Machinery and Intelligence: “We may hope that machines will eventually compete with men in all purely intellectual fields”. “Possiamo sperare che le macchine alla fine competano con gli uomini in tutti i campi puramente intellettuali”. Qui, nell'articolo dal quale prende il via ogni ricerca sull'Intelligenza Artificiale, a chiare lettera si parla a favore di una sostituzione dell'essere umano con una macchina. Se poi si limita il campo al 'puramente intellettuale', è ancora uno schiaffo all'essere umano: per l'essere umano il pensare e l'agire, la ragione e la saggezza sono sempre compresenti. Separare ed esclusivamente privilegiare il puramente intellettuale è un atto di violenza perpetrato contro l'essere umano. 
Ma cinque anni prima, nel 1945, Vannevar Bush propone l'altra via. Scriveva: As we may think. Immaginava come l'essere umano avrebbe potuto sperimentare, costruire conoscenza, se dotato di una macchina in grado di fornirgli fonti, di aiutarlo a connetterle tra loro, incrementando l'umana capacità di costruire reti di senso. Una macchina -scriveva Bush- adatta a ad accompagnare l'uomo nel pensare così come chi cerca tracce di vita in un terreno inesplorato. Così si muove il pioniere nel bosco, così si muove il viandante. La macchina immaginata da Bush -la chiamava Memex- è il prototipo del Personal Computer. E' una bastone, una bisaccia, una scarpa vecchia. 
 Ci conviene considerare che non c'è via di mezzo. O la via di Turing -affidare le proprie speranze alla macchina- o la via di Bush: fidarci di noi stessi.

Questo articolo è strettamente legato al precedente: Bastone, bisaccia e scarpa vecchia. Come raccontare il computer con le parole del mito. Ma ancor più di questo è legato al mio libro Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020. Si trova infatti qui un esplicito riferimento alla Terza delle Leggi di cui parlo nel libro: nell'Era Digitale il cittadino è ridotto a passivo utente. E si trova anche, in questo articolo, un implicito ma chiaro riferimento alla Seconda Legge, che recita, 'Preferirai la macchina a te stesso'. Nel mio libro invito a comprendere le leggi per poterle trasgredire. L'invito è rivolto anche a chi legge questo articolo.

Bastone, bisaccia e scarpa vecchia. Come raccontare il computer con le parole del mito

Come raccontare del computer con le parole del mito. Come comprendere il computer alla luce delle ancestrali narrazioni che accompagnano l'essere umano. Come raccontare a noi stessi cosa è il computer, tanto da convincerci che è per noi esseri umani un mezzo.
L'essere umano è un viandante, perennemente in cammino. Il presente è un momento nel viaggio dal passato al futuro, dal noto all'ignoto. E' l'esistere gettati in terre sconosciute. L'essere umano è debole nel corpo, debole nell'anima. Peccus: 'difettoso nel piede'. Claudicante. Di qui il peccato: incapacità di stare sulla retta via. Tendente ad errare: 'camminare senza meta'. Mancus: 'difettoso nella mano' - cosciente di come sa usare malamente il proprio corpo, cosciente dei limiti degli artefatti che la sua mente e la sua mano sanno creare. L'essere umano patisce di gravi mancanze; è dolorosamente consapevole dei propri limiti, delle proprie deficienze. 
Così l'essere umano finisce per affidarsi, abbandonarsi a potenze esterne. Facile ritenersi vittima del destino o totalmente assoggettato, soggiogato a Leggi di Natura. Facile affidarsi passivamente alla Provvidenza, attendere la Grazia divina o abbandonarsi al Fato. O affidare le proprie sorti a una Scienza o una Tecnica intesa intesa come potenza che autonomamente si svela. E' la china che porta nell'Era Digitale a fidarsi della macchina, a credere nell'Intelligenza Artificiale. Fino a non guardare più il cielo, le stelle, fino a non dar credito al proprio sguardo, e a fidarsi di una mappa digitale, ingannevole, manipolata rappresentazione del mondo. Fino a rinunciare al viaggio, a chiudersi in casa, e di ridursi a chiedere lumi a qualche oggetto tecnico, magari vestito di qualche aspetto antropomorfo, che con voce melliflua ci dice cosa fare, ci rassicura in merito a ciò che stiamo facendo, ci dice magari anche chi siamo. 

Eppure non è questo l'unico modo di esistere. L'essere umano che non rinuncia alla propria saggezza -Qohelet, Giobbe- a costo di enorme sofferenza, cammina solo sotto il cielo. Dio l'ha abbandonato, nessun carro della storia trascina in avanti, nessun soccorso esterno allevia la fatica. Eppure, pur costretto ad aiutarsi da solo, cammina. 
Il bastone, impugnato passo dopo passo, è il sostegno, il supporto al quale appoggiarsi, il compenso alla propria zoppia, e alla fatica dell'andare. E' anche il mezzo con il quale eventualmente difendersi. E' anche una compagnia. E' il segno della propria imperfezione, ma anche il segno, della propria potenza. Una potenza che nasce nel corpo e nella mente, e che si espande oltre il corpo: il mondo resta, sconosciuto, troppo vasto e alieno; ma l'essere umano cammina nonostante tutto speranzoso, fiducioso -per esperienze vissute- di poter affrontare situazioni che sembrano al momento superiori alla sue forze.
Porta con sé in una bisaccia leggera alimenti, indumenti, e insieme i pochi strumenti che gli sono stati utili in passato. Porta con sé anche poche povere cose che gli rammentano al sua identità, i propri ricordi. Eppure sa che le provviste che porta con sé presto termineranno. Sa che dovrà mettere nella bisaccia nuovi alimenti, nuovi indumenti, tratti dal mondo sconosciuto nel quale si sta addentrando. Sa che gli strumenti andranno piegati ad un nuovo uso, o forse anche si riveleranno del tutto inutili, ed andranno sostituiti con altri, nuovi. Sa dunque che via via il contenuto della bisaccia cambierà; ma sa anche che lascerà sempre posto nella bisaccia per ciò che gli è tanto prezioso quanto gli alimenti, gli indumenti, gli strumenti: i propri ricordi, la memoria della propria storia – sa che senza di questo rinuncerebbe ad essere umano. 
Ha ai piedi scarpe vecchie. Comode: corrispondenti alla conformazione del proprio corpo. Adatte: con l'andare, plasma sempre più il duro cuoio, rendendo la calzatura via via migliore: consona al proprio corpo, al proprio modo di essere in movimento. La qualità dei materiali, le intenzioni del calzolaio, tutto questo passa in secondo piano. La scarpa nuova non è buona, per divenire buona deve essere invecchiata insieme a chi la indossa. 
Il computer è un bastone. Ci conviene immaginarlo come il bastone con il quale il viandante si sorregge. Ci conviene considerarlo lo strumento al quale appoggiarsi. Lo strumento al quale ricorre per difendersi, e per aumentare il raggio e la potenza della propria azione. 
Il computer è una bisaccia. La bisaccia è leggera e può essere portata sempre con sé, anche nelle situazioni più estreme. Ma sia bisaccia, o zaino o valigia o baule, ci conviene immaginare il computer come involucro che permette di portare con sé ciò che è necessario, utile e piacevole nel viaggio che è la vita. Ricordi irrinunciabili e risorse e strumenti che migliorano ed approfondiscono, che rendono più piena l'esistenza. 
Il computer è una scarpa vecchia. Ci conviene considerarlo strumento che si adatta sempre più al personale modo di esistere, di pensare e di agire. Strumento plastico, che -quali siano i disegni del progettista e i vincoli imposti dal produttore e del fornitore di servizi- si allontana dal disegno e dai vincoli in forza della personale fiducia in sé stesso dell'essere umano che lo possiede e lo adopera. 

Sono particolarmente affezionato a questa 'descrizione mitica' del computer, inteso non come macchina che campeggia al centro della scena, ma come insieme di strumenti, dispositivo, device, che accompagna l'essere umano nella propria vita. 
Una versione ridotta di questa descrizione appare alle pagine 292-293 nel mio libro Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020. E comunque la descrizione mi sembra una sintesi di ciò che intendo dire con questo libro.
Questo articolo è strettamente connesso a quello che pubblico di seguito, con il titolo La macchina che ci accompagna nella vita ci blandisce, ci lusinga, ci dice...

venerdì 27 novembre 2020

Passaggio al digitale: l'editoria come caso esemplare. Cosa cambia nel ruolo del giornalista, dello scrittore e dell'editore

Il giornalista basa la propria autostima sulla convinzione di possedere la capacità di porre al cittadino la notizia attraverso la narrazione più efficace. La comunità sociale è costretta a considerare come un dato di fatto solo quegli eventi che il giornalista, in quanto rappresentante della propria cultura, ritiene veri. Le ultime incarnazioni del giornalista sono infatti il fact checker e il debunker. Il fact checker e il debunker credono di adottare un criterio oggettivo, ma stanno in realtà mettendo in campo la propria cultura, le proprie opinioni personali, i propri pregiudizi. 
Lo scrittore basa la propria autostima sull'illusione di scrivere qualcosa di nuovo, per primo. Qualcosa di mai scritto prima. L'illusione si basa sulla natura del codice cartaceo, che obbliga a considerare ogni libro e ogni giornale un oggetto a sé. 
L'editoria cambia con il passaggio dal codice cartaceo al codice digitale. 
Ogni cittadino, usando il codice digitale, scrive. I complicati passaggi tecnici che al tempo della codifica cartacea portano alla 'pubblicazione', nel tempo della codifica digitale si riassumono in un semplice passaggio: il 'salvare sul disco' ciò che si è scritto. Ogni testo salvato da ogni cittadino è 'pubblicato'. Non più appoggiato sul codice cartaceo, ma appoggiato su un codice digitale. 
Il codice digitale, a differenza del codice cartaceo, permette di mantenere vive le connessioni, ed evidente la complessità. Ted Nelson (1965): “Ho la visione filosofica di un tutto profondamente interconnesso. O, come mi piace dire, intrecciato [interwingled]. Non ci sono confini o campi, se non quelli che creiamo artificialmente, e siamo profondamente fuorviati dai confini e dalle descrizioni convenzionali”. 
Possiamo chiamare ‘testo’ qualsiasi narrazione che appare, ai nostri sensi. Ogni singolo testo non che una porzione, un sottoinsieme di una più vasta tela. La 'letteratura' è in fondo un unico tessuto, cui ogni testo appartiene: rete infinita di narrazioni, tessuta e incessantemente ritessuta dagli uomini per dare senso alla propria vita, per parlare delle cose del mondo, per parlare dei sogni e dei desideri. 
La nuova situazione tecnologica genera una innovazione sociale di grande rilievo. Ogni cittadino può pubblicare la propria opera: può essere autore. 
Cala così il rilievo sociale del giornalista e dello scrittore. Il giornalista appare ora come nient'altro che un narratore che racconta ciò che vede. Lo scrittore appare come niente di più che un rielaboratore di materiali già scritti. 
Guardando agli aspetti positivi dell'evoluzione dei ruoli del giornalista, dello scrittore e dell'editore, si può osservare che il nuovo ruolo del giornalista, dello scrittore e dell'editore consiste in questo: essere un cittadino che eccelle per autorevolezza personale, e che tramite questa autorevolezza pone un marchio di qualità a narrazioni e a testi scritti da chiunque. 
In cambio, invece, cresce pericolosamente il ruolo del tecnico digitale: solo lui conosce il codice tramite il quale tutto è scritto e tutto è conservato. 
Ciò che a quanto pare accade, è che giornalisti, scrittori ed editori, invece di cogliere il passaggio al digitale come un ritorno al proprio essere cittadini che scrivono e leggono, tendono ad avvicinare il proprio ruolo a quello del tecnico digitale. Si sceglie di cercare difesa del proprio ruolo sociale nella tecnica, invece di cercare di affermare la propria autorevolezza attraverso l'eccellenza del proprio agire.

Gli argomenti sono già trattati in vari post in questo blog -vedi in particolare i post marcati con l'etichetta 'come si scrive'-. Questo post è sintesi del mio articolo: “Innovazione nell’edizione. Ovvero come l’innovazione tecnologica si rispecchia nell’innovazione sociale”, 
Riflessioni Sistemiche, 22, che si trova qui. Si tratta di argomenti sviluppati -con specifico riferimento alle caratteristiche distintive del codice digitale- nel primo capitolo (Prima Legge: Ti arrenderai a un codice straniero) del mio libro: Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché ci conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020. Il nuovo apparire della letteratura ed nuovi ruoli soci dell'editoria dettati dal codice digitale saranno tema del terzo tomo del Trattato di Informatica Umanistica, il cui probabile titolo è Scrivere è cancellare.

martedì 13 ottobre 2020

La sfida di Juan Emar e le armi della critica digitale. Seminario di Cultura Digitale, Università di Pisa, 19 novembre 2014

Pubblico qui a sei anni di distanza la traccia di questo seminario. Il mio pensiero non è cambiato. La scrittura è legata al supporto, ovvero: codice. I giochi giocati attorno alla codifica cartacea cambiano con il cambiamento di codice. Scrittura digitale e critica del testo digitale sono arti nuovissime, ancora scarsamente sperimentate. 

Juan Emar (Álvaro Yáñez Bianchi,1983-1964), eccentrico scrittore cileno, anche pittore, propone un romanzo-mondo –Umbral (in italiano: Soglia)- che appare una sfida al lettore e all’interprete. Juan Emar -pseudonimo derivato dal francese “Je n’ai marre”: sono stufo, ne ho fin sopra i capelli di recensori che non recensiscono e di interpreti che male interpretano- giunto attorno ai quarantacinque anni decide di non pubblicare più un rigo, ma di dedicare comunque la propria vita alla scrittura. Scrive per venticinque anni, fino alla propria morte, l’Umbral, 5318 pagine dattiloscritte. Il romanzo è pubblicato in versione completa solo nel 1996. Si tratta di un testo che si propone di beffare ogni tentativo di interpretazione. Possiamo sostenere che Juan Emar vince la sua guerra con i critici. Ma la situazione cambia se il critico e il lettore dispongono del codice digitale – una ‘forma del testo’ che Juan Emar non poteva concepire. Ciò è già evidente se ci avviciniamo al testo attraverso quella versione banale e impoverita del codice digitale che è il formato pdf. Per questa via, si può mettere a fuoco la figura di un critico letterario capace di usare autonomamente le possibilità interpretative offerte dal codice digitale. Qualcosa di diverso sia dalla linguistica computazionale, sia dalla mera rappresentazione standardizzata di testi in forma digitale (TEI). Il ‘critico digitale’ è un bricoleur: di fronte ad ogni testo inventa soluzioni interpretative contingenti utilizzando e adattando strumenti differenti. 

sabato 18 luglio 2020

La Legge di Moore: mito fondativo o comoda scusa

Il testo che segue è un breve brano tratto dal mio libro Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, in libreria dal 10 settembre 2020.

Il cavallo di battaglia di tutti coloro che non vogliono guardare ai difetti della macchina che c'è, e che ogni giorno ci è data da utilizzare, e preferiscono invece saltare in fosso, e immaginarsi già in un mondo dove umani e macchine pari sono, ed anzi il computer è modello per l'umano, è la cosiddetta Legge di Moore.
Gordon Moore, tecnico specializzato in fisica applicata, direttore di un centro di ricerca, scrive nell'aprile 1965 che il numero di transistor contenuti in un circuito integrato appoggiato su una piastrina di silicio raddoppia ogni 18 mesi. "Cramming more components onto integrated circuits", recita il titolo dell'articolo che appare sulla rivista Electronics.1 Il verbo to cram discende dalla stessa radice indoeuropea da cui anche il latino grex, gregge. Non si possono radunare più di tante pecore in un recinto. Ma ora il progressivo sviluppo nel campo delle nanotecnologie garantisce una crescente miniaturizzazione dei componenti. I limiti apparenti della fisica possono essere continuamente spostati.
Mosso da questa visione, nel '68 Moore è uno dei cofondatori di Intel, Integrated Electronics, che presto si affermerà come leader nel mercato della unità di elaborazione centrale, i supporti fisici, l'hardware sul quale si appoggia la potenza di calcolo dei Personal Computer. Nel 1975, in vista del decennio successivo, Moore rivede la sua previsione, affermando che la potenza si raddoppierà ogni due anni. Potenza crescente a costi decrescenti. Su questa promessa di abbondanza si fondano le pretese certezze dell'Era Digitale.

La miniaturizzazione dei transistor che compongono i circuiti integrati in silicio si avvicina forse ad un limite invalicabile. Ma resterebbe comunque aperta a quel punto la via del Cloud, e della moltiplicazione delle macchine che lavorano in parallelo.
Si aggiunge una nuova via, che promette un salto in avanti nella potenza di calcolo disponibile: i computer quantistici. Basta qui dire che su questa frontiera si muovono, lontano dai riflettori della cultura digitale raccontata ai cittadini, non solo IBM, Google, Microsoft, Intel, ma anche -in un gioco geopolitico gravido di conseguenze- la NASA (National Aeronautics and Space Administration), negli Stati Uniti, così come centri di ricerca cinesi e russi.
Così, in un modo o in un altro, nel presente e nel futuro, si considera il fatto che disporremo di una sempre maggiore potenza, di una sempre maggiore velocità di calcolo come una sorta di Legge della nuova Natura Digitale.

Se prendiamo per buono questo trend, dovremmo anche ammettere che siamo di fronte alla più
Già nel 2000 Jaron Lanier, programmatore finissimo, ma anche musicista, osservava questo fideistico affidamento alla provvidenziale Legge di Moore. Scriveva: “i computer diventano sempre più veloci, ma non per questo ci mostriamo capaci di scrivere software migliore”. “Il software dei nostri computer continua a deludere”. Questa, diceva Lanier, è la Great Shame of computer science, Grande Vergogna dell'Informatica.2
Vent'anni dopo, avendo nell'orecchio le parole di Computer Scientist, imprenditori e guru e filosofi del digitale, il giudizio merita di essere ripreso. Se c'è una cosa sulla quale si trovano d'accordo questi apologisti del nuovo mondo, è il collocare i propri ragionamenti in un rassicurante contesto: viviamo su un tappeto mobile -la situazione determinata dalla Legge di Moore- che per nostra fortuna ci trascina in avanti. L'abbondanza di risorse, di potenza di calcolo, sempre crescente, giustifica i nostri errori presenti, e garantisce comunque un mirabolante futuro. Qualsiasi presentazione al popolo delle meraviglie dell'Era Digitale inizia con una slide: la curva che rappresenta la Legge di Moore sale verso il cielo.
“Che ci importa di una comprensione razionale quando invece si può contare su un feticcio?”, scrive Lanier commentando questo atteggiamento. “Il feticizzare la legge di Moore seduce i ricercatori all'autocompiacimento”. “Se si ha dalla propria parte una forza esponenziale, sicuramente si sarà all'altezza di qualsiasi sfida”.

Lanier richiama alla realtà, all'immediata concretezza e e alla responsabilità: facile nascondere magagne e difetti del codice che scriviamo quando si dispone di potenza di calcolo sempre maggiore. Finisce per importar poco la scelta del linguaggio, e la cura stessa con la quale il codice viene scritto.
Scrivendo nel 2000, Lanier non disconosceva i progressi visibili nella scrittura del codice: ricordava come esempi di significativi risultati raggiunti i software di riconoscimento vocale e di traduzione da una lingua naturale all'altra. Oggi, vent'anni dopo, possiamo notare che i risultati raggiunti in questi campi sono dovuti alla capacità di calcolo fornita dai supporti fisici, all'hardware via via più potente, molto più che alla qualità del codice.
Anzi, si deve notare un fenomeno inverso: buona parte della nuova potenza di calcolo via via disponibile è assorbita dal software, senza che ssi notino miglioramenti nelle prestazioni del software.
Le parole di Lanier sono chiare ed incisive: “c'è una legge inversa di Moore osservabile nel software: man mano che i processori diventano più veloci e la memoria diventa più economica, il software utilizza comunque tutte le risorse disponibili, diventando più lento e più gonfio”.

Basta ricordare l'esperienza di ogni cittadino. Ogni nuovo computer -o smartphone- che compriamo dispone di memoria e di potenza di calcolo notevolmente superiore alla macchina che possedevamo prima. Ma non notiamo nessun miglioramento nelle prestazioni.
Ogni cittadino ha ben presente il fastidioso modo di funzionare dei programmi di uso quotidiano, per esempio, Microsoft Word. Ogni nuova versione occupa più spazio in memoria. Ogni nuova versione di un programma fa rimpiangere la precedente: la nuova è più macchinosa, più lenta; costringe a cambiare abitudini, contiene nuove funzione inutili, mentre sono state eliminate possibilità d'azione che l'utente trovava utilissime. “La distanza tra i computer ideali che immaginiamo nei nostri esperimenti di pensiero e i veri computer che sappiamo offrire al mondo non potrebbe essere più amara”, nota Lanier.

1Gordon E. Moore [Director, Research and Development Laboratories, Fairchild Semiconductor division of Fairchild Camera and Instrument Corp.], "Cramming more components onto integrated circuits", Electronics, Volume 38, Number 8, April 19, 1965. https://newsroom.intel.com/wp-content/uploads/sites/11/2018/05/moores-law-electronics.pdf
2Jaron Lanier, “One Half a Manifesto”, con commenti di George Dyson, Freeman Dyson. Cliff Barney, Bruce Sterling, Rod Brooks, Henry Warwick, Kevin Kelly, Margaret Wertheim, John Baez, Lee Smolin, Stewart Brand, Rod Brooks, Lee Smolin, Daniel C. Dennett, Philip W. Anderson, Ray Kurtzweil, Edge, 10 novembre, 2000, https://www.edge.org/conversation/jaron_lanier-one-half-a-manifesto.

domenica 10 maggio 2020

Cosa posso fare accompagnato dalla macchina

Sto terminando di scrivere un libro, di cui su questo blog esistono varie tracce: Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché ci conviene trasgredirle. Sono anche grandemente in ritardo nella consegna del libro al mio editore, Guerini e Associati.
Il blog è una libera accumulazione di testi, il libro ha una struttura più  chiusa. Giunti verso la  fine della stesura del libro si toglie, si aggiunge, si lima. Questo testo era compreso nella Conclusione delle Cinque Leggi Bronzee. Ma ora l'ho tolto. Lo pubblico qui, Nel libro, di questo testo, ho tenuto buono solo un capoverso, quello che inizia dicendo: Inevitabilmente, è un mare ricco di insidie...

Cosa possiamo fare accompagnati dalla macchina che abbiamo sempre con noi - in tasca, sulle ginocchia, sul tavolo. 
Possiamo intanto scientemente ignorare e trasgredire le pressanti indicazioni provenienti in modo sempre più subdolo dalla macchina. Possiamo scegliere di non dar retta alle notifiche. Diffidare da ogni contenuto che la macchina spaccia come “consigliato per te”. Possiamo per quanto possibile evitare di farci dettare i tempi e le priorità dalla macchina. Lungi dal sentirci obbligati ad entrare ogni giorno, ogni ora nei cosiddetti Social Network -Facebook,Twitter, Instagram o qualsiasi altro- possiamo entrarci solo quando e se abbiamo un motivo per farlo legato alla nostra vera vita di persone in carne ed ossa. Nel muoverci all'interno di questi poveri simil-mondi -in realtà istituzioni totali dove ci è negata libertà- converrà fare il possibile per portare lì conoscenze nuove, temi, argomenti provenienti dal mondo. Per esempio, proporre link, legami che rinviano ad altri testi, documenti, fonti accessibili in qualche luogo del World Wide Web.
Non dobbiamo infatti dimenticare che esiste un abisso tra la libertà e l'apertura che -con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni- ci offre il World Wide Web e la chiusura che caratterizza i Social Network. Basta vedere come ogni regime dittatoriale osteggia e limita il libero accesso al Web, ed accetta invece l'uso dei Social Network. E anche che c'è da preferire in ogni caso un sito Web ad una App. Le App sono una gabbia. Dietro la semplicità d'uso c'è l'assenza di qualsiasi trasparenza su quali dati ci vengono fatti vedere, e quale uso viene fatto dei dati da noi prodotti, quale tracciamento di ogni nostra azione. Usiamo qualsiasi strumento digitale partendo dalla supposizione che tramite quello strumento siamo sorvegliati, controllati. Che qualsiasi cosa pubblichiamo in un qualsiasi luogo digitale è, come dice il verbo stesso, pubblica.
Teniamo presente che siamo stati drogati e che i processi di disintossicazione sono lenti e faticosi; che esiste una tecnocrazia che ha interesse a tenerci chiusi in questi simil-mondi; che siamo condizionati da spinte gentili, ma tese a forzare la nostra volontà, la nostra scelta.
Restimo consapevoli che le nostre umani relazioni -amicizie, affetti, amori- non sono quelle che appaiono nei luoghi digitali. La più grave minaccia risiede proprio nello spingerci a rileggere il nostro complessivo modo di essere umani alla luce dei modi di essere che ci sono concessi, offerti, imposti dai Social Network.

Converrà ricordare il perverso disegno politico che si nasconde dietro concetti come Infosfera e OnLife. Noi non viviamo nell'Infosfera. Perché i frutti del nostro pensiero, le nostre conoscenze -come ci ricordano i verbi latini- sono qualcosa di enormemente più ricco delle mere 'informazioni'. E perché la nostra appartenenza alla natura, e alla storia e alla cultura non vengono meno con l'avvento dell'Era Digitale. Dobbiamo saper guardare a come in ogni proposta di passaggio al digitale siano implicite riduzioni della vita materiale e spirituale, di ciò che è più nobile nell'essere umano. Le tecnologie nel campo della manifattura, l'automazione, la robotica tolgono all'uomo il vitale lavoro. Le cosiddette smart city sono luoghi dove ogni angolo di strada è sorvegliato. La digitalizzazione della medicina trasforma la cura, che è preoccupazione, attenzione per se stessi e per gli altri, in esecuzione di protocolli affidati a macchine. L'enfatica celebrazione dei dati significa espropriare agli esseri umani conoscenze per poi riproporle filtrate attraverso lo sguardo della tecnocrazia.
La nuova proposta di una vita digitale è minacciosa, perché l'imitazione del mondo che viene proposto a noi come luogo dove vivere non si appoggia su gandi visioni, sulla grandezza e sulla nobiltà umana: è frutto invece -da Turing a Yudkowsky- di progetti nati dall'insicurezza, dal dolore, dal bisogno di fuggire, dal rifiuto del vitale equilibrio tra maschile e femminile. Frutto di allontanamento dall'essere umani.
La nostra vita, per nostra fortuna, già ben entrati nel Nuovo Millennio, in scarsissima misura si esplica sul terreno digitale. Camminiamo per terra, ci muoviamo nei prati e nei boschi, nuotiamo nel mare. Ci alimentiamo di cibo e curiamo la nostra salute e abbiamo rapporti affettivi e sessuali fuori dalla sfera digitale. Questo è essere umani. Vi aggiungeremo volentieri qualcosa, se potremo. Tramite l'uso di sempre nuovi strumenti, come del resto l'essere umano ha sempre fatto nel corso della storia, potremo migliorare la nostra vita. Sempre ricordando che la dote che ci caratterizza è la saggezza, non la sola ragione. La sola ragione taglia via, pretende di far apparire semplice ciò che è complesso, sostituisce la vita con imitazioni. La saggezza è coltivare il piacere, il gusto della vita, l'armonia e l'appartenenza.
I tecnocrati e i tecnici e gli scienziati ritengono di essere più vicini alla ragione dei comuni cittadini: è vero, ma questo è un loro limite, non un pregio. Se la ragione è un'esclusiva dei tecnici, la saggezza è una dote di ogni essere umano. E' la saggezza che ci porta a dire: intuisco e sento che qualcosa che mi è giustamente caro viene violato. Che può dirci come muoverci sulla soglia che abbiamo di fronte: scegliere se restare noi stessi o preferire una macchina a noi stessi.

Cosa possiamo fare. Non dovremo preoccuparci di disporre dell'ultima versione o dell'ultimo aggiornamento. Sappiamo anzi per esperienza che dal personale punto di vista di ognuno di noi, ogni nuova versione farà rimpiangere la precedente. Non dovremo preoccuparci di quale sia l'uso esatto previsto per ogni macchina, ogni programma; per quanto possibile la risposta umana dovrà essere: non mi lascio guidare. La uso come strumento per essere più pienamente me stesso, per portare avanti miei progetti, mie azioni. Perché, abbagliati da novità vuote di senso, viziati da inutili automatismi, distratti da notifiche, ci siamo dimenticati quanto la macchina ci sia utile. Così, tornati a considerare la macchina un mero strumento, possiamo tornare a vedere con chiarezza i grandi vantaggi che ci porta.

Mi limito a qualche esempio tratto dalla mia esperienza personale. Del resto, ognuno di noi dovrà imparare da sé a usare la macchina come gli serve.
Se ci troviamo in un incontro, in una riunione, non ci sarà bisogno di spengere lo strumento. Possiamo evitare di lasciarci distrarre da ciò che ci propone; scegliere di restare concentrati e seguire lo sviluppo dell'azione collettiva a cui stiamo partecipando, godendo pienamente della relazione con i presenti. Lo strumento ci permetterà al contempo di accedere a fonti -documenti, dizionari, enciclopedie- che allargano e approfondiscono le conoscenze che si vanno sviluppando, la comprensione del qui ed ora.
Se ci troviamo da soli a lavorare, possiamo continuare ad usare documenti e libri cartacei, avendo però a disposizione nello stesso momento altri testi che non abbiamo sul nostro tavolo. L'uso di un testo digitale comporta non trascurabili vantaggi: possiamo, per esempio, cercare all'interno del testo il ricorrere di una parola.

Esistono strumenti di base che, ad di là di inutili fronzoli, migliorano veramente il nostro lavoro, e la qualità del prodotto: programmi di scrittura, fogli elettronici.I programmi per scrivere incrementano in modo significativo la gamma di scelte in mano a chi scrive. Permettono di entrare nella struttura del testo. Liberano chi scrive dal vincolo delle scrittura sequenziale: lettera dopo lettera, parola dopo parola, riga dopo riga. Si può ora saltare da una parte all'altra del testo, manipolarlo plasticamente per approssimazioni successive al testo che abbiamo in mente. Forse ci facciamo poco caso, ma la letteratura è cambiata da quando i romanzi sono scritti tramite un programma di scrittura.

Esistono altri strumenti che allargano la nostra comprensione. La posta elettronica resta uno strumento di enorme valore. Non solo ha avuto lo storico ruolo di essere il primo strumento digitale ad aprire possibilità di relazioni tra persona e persona. Ma conserva grandi vantaggi sulle diverse ondate di strumenti di messaggistica che si sono succeduti. Si appoggia su un codice non proprietario, trasparente. Permette di conservare con facilità i messaggi e di tornare ad accedervi. La libertà del formato permette scelte personali nel modo di scrivere, e nel modo di interagire con gli interlocutori. L'Era Digitale, nata da idee libertarie, proponeva inizialmente una relazione da pari a pari, senza mediazioni autoritarie. La posta elettronica ci mantiene aperta ancora oggi questa situazione. Non solo leggiamo libri, possiamo scrivere all'autore ed attenderci risposta.

Programmi per tradurre ci permettono di avvicinarci a testi scritti in una qualsiasi lingua. In lingue che non conosciamo. Si sa che la qualità delle traduzioni migliorano via via, ma attraverso una appropriazione indebita, perché la casa produttrice del software utilizza il nostro lavoro non pagato: ogni nostra traduzione permette alla macchina di migliorare la qualità del suo lavoro. Si sa anche che il software che presiede alla traduzione potrebbe essere strumento di censura: potrebbe eliminare parti del testo o renderlo in modi corrispondenti a qualche autorità. Ma possiamo accettare questi limiti, essendone consapevoli. I programmi di traduzione ci aprono la porta di mondi altrimenti inaccessibili. Chi conosce bene quella lingua straniera potrà notare limiti nel programma. Ma qui la differenza è tra trovarsi di fronte a una porta chiusa, o avere invece la possibilità di avventurarci, di tentare di comprendere. Del resto, ogni traduzione è un tentativo di interpretare, comprendere. I testi classici possiamo trovarli facilmente già tradotti nella nostra lingua. Ma anche qui il programma di traduzione permette un salto dei qualità e di responsabilità. Un conto è affidarsi al traduttore, un conto è avventurarsi da soli a leggere in lingua originale Kant o Heidegger. Il traduttore-essere umano, nel tradurre, ha messo in campo la sua conoscenza di entrambe le lingue, la sua dottrina, ma anche i suoi pregiudizi.

Infine, il search engine, motore di ricerca. E' il più evidente esempio di strumento in grado di potenziare il lavoro intellettuale dell'essere umano. Nonostante il suo progressivo adattamento a scopi commerciali -come abbiamo visto descrivendo la Prima Legge- resta la più efficace macchina per pensare, il miglior esempio di efficace accompagnamento offerto all'intelligenza umana. Quel personalissimo lavoro mentale che abbiamo avvicinato ricordando il senso di alcuni verbi latini, è grandemente incrementato, sostenuto dall'uso del motore di ricerca. E' un cono di luce che ci permette di scoprire l'ignoto, di stabilire connessioni. Mettendo alla prova la nostra capacità di scegliere, criticare, valutare. Non a caso scriveva Vannevar Bush: come potremmo pensare. Come potrebbe pensare, come può pensare ogni essere umano che nell'Era Digitale non vuol rinunciare alla propria saggezza. Il primo passo è essere lettori critici, capaci di scegliere e giudicare.
Per questo è importante il motore di ricerca: lo strumento tramite il quale ogni cittadino può navigare in quella galassia di conoscenze che è il Web.
Inevitabilmente, è un mare ricco di insidie. Ma la pretesa di individuare, smascherare con certezza e magari sanzionare le cosiddette fake news è vana e pericolosa. Si torna per questa via affidarsi ad una autorità umana -ecco subito apparire un'altra delle nuove professioni tipiche dell'Era Digitale: fact checker, debunker- o a un qualche algoritmo, o intelligenza artificiale. Dietro l'autorità umana o digitale, sta una Legge. Che ci conviene trasgredire. Per cercare di persona, con l'aiuto del motore di ricerca, un'approssimazione alla conoscenza. Ricordiamo che il latino veritas traduce il greco alétheia: scoprire ciò che è nascosto, cogliere ciò che si nasconde dietro l'apparenza.

Kant aveva ben spiegato che l'Illuminismo è, per ogni essere umano, l'età dell'uscita dallo stato di minorità. Poi però, timoroso del disordine sociale, finiva per affidare i cittadini a Guardiani e celebrare il ruolo del Sovrano Illuminato. (1)
1(1) L'Era Digitale è il culmine del tempo immaginato da Kant. Gli scienziati sembrano condividere lo scetticismo di Kant. Ma forse vogliono solo difendere il proprio ruolo di Esperti aristocraticamente distinti dai restanti esseri umani. La scienza ha finito per diventare schiava della tecnica. La tecnica si è trasformata in tecnocrazia. L'Intelligenza Artificiale è divenuta strumento di dominio. E' il modo attraverso il quale viene tolto dalle mani degli esseri umani il volante. E forse è anche l'annuncio di un futuro dove potrebbe non esserci più spazio per gli esseri umani.
Dunque l'enfasi posta sull'imminente avvento di Intelligenze Artificiali di un tipo o di un altro è, in fondo, una narrazione tesa ad annichilire gli esseri umani. Ci conviene sperare in noi stessi. Le speranze degli esseri umani non si nutrono di ragione. Si alimentano con narrazioni.

(1)  Immanuel Kant, "Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?", Berlinische Monatsschrift, Dicembre 1784, pp. 481-494.

domenica 9 febbraio 2020

Viaggio bibliografico nella ‘cultura digitale’



Be There Here”
Headline di una campagna pubblicitaria AT&T

"Nei modello dei mezzi di comunicazione di massa, il messaggio procede dalla posizione dell'emittente a quella del destinatario. Nella comunicazione umana reale, invece, chi invia il messaggio, prima di poter inviare qualcosa, non deve essere solo nella posizione dell'emittente, ma anche in quella del destinatario".
Walter J. Ong

"Immaginate una accessibilità ed un entusiasmo nuovi, che possano schiodare dalla narcosi da video che oggi incombe come una cappa di nebbia. Immaginate una nuova cultura, dove spiegazioni alternative permettano a ciascuno di scegliere il tracciato a lui più confacente, così che l'esperienza umana possa godere di una nuova libertà e di una nuova ricchezza."
Ted Nelson

"Sta avvenendo oggi una rivoluzione nella tecnologia della comunicazione, una rivoluzione profonda come quella dell'invenzione della stampa."
Ithiel de Sola Pool

"L'economia del futuro non si baserà più sul possesso, ma sulle relazioni."
John Perry Barlow

"Vivere nell'era digitale significherà una sempre minore dipendenza dall'essere in un determinato posto in un determinato momento, e diventerà possibile trasmettere anche il posto."
Nicholas Negroponte


Sul rapporto tra oralità e scrittura, e sulla ‘nuova oralità’ legata all’uso di nuovi media, il principale riferimento è: Walter J. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London and New York, Methuen; trad. it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986.

Sulla rivoluzione epocale legata al superamento della concezione tradizionale di 'testo' legata all'idea di 'libro stampato': Jay David Bolter, Writing Spaces. The computer Hypertext and The History of Writing, Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale (N.J.), 1991.

Sulla continuità tra la ‘nuova cultura’ degli anni sessanta e l’uso libertario' delle tecnologie, sul 'nuovo modo di pensare' legato ad un uso 'democratico' dell'informatica: Ted H. (Teodor Holm) Nelson, Computer Lib/Dream Machines, 1974, ora Seattle (Wash.), Microsoft Press, 1987;
Teodor Holm Nelson, "A Vision of the Future", Publishers Weekly, 23 novembre 1986. Sulla genesi dei concetti di 'ipertesto' e di Rete delle Reti: Ted H. Nelson, Literary Machines, Swarthmore (Pa), 1981 (pubblicato in proprio). Trad. it. dell'ed. 1990: Literary Machines 90.1, Padova, Muzzio, 1992.
A proposito di Ted Nelson: Peter Jackson, “Ted Nelson touch: Project Xanadu”, PC Magazine (ed. inglese), July 1992. Jim Whitehead, “Orality and Hypertext: An Interview whit Ted Nelson”, Cyberspace Report, 1966.

Ancora sulla continuità tra la ‘nuova cultura’ degli anni sessanta e l’uso libertario' delle tecnologie, in particolare sulle figure degli hacker (ed anche sulla storia del sistema telefonico negli USA), Bruce Sterling, The Hacker Crackdown. Law and Disorder on the Electronic Frontier, 1992; trad. it. Giro di vite contro gli hacker. Legge e disordine sulla frontiera elettronica, Milano, Shake, 1993.

Sul concetto di 'digitalizzazione delle informazioni': Nicholas Negroponte, Being Digital, New York, Alfred A. Knopf, 1995; trad. it. Essere digitali, Milano, Sperling & Kupfer, 1995. (Raccolta di interventi apparsi su Wired, il mensile californiano che si presenta come ‘bibbia della cultura digitale’. Gli eccessivi costi della versione on–line della rivista, Hot Wired, hanno causato la crisi della casa editrice, ceduta nella primavera 1988 al Gruppo Condé Nast, editore di Vogue).

Sulla ‘nuova libertà’ offerta dalle nuove tecnologie alle persone –che possono presentarsi sul mondo virtuale della Rete coperti da maschere diverse– , vedi Sherry Turkle, Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, New York, Simon & Schuster, 1995
Ancora su Sherry Turkle(psicanalista–semiologa americana cresciuta in Francia alla scuola del decostruzionismo): Sherry Turkle, “Who am We”, Wired, January 1996; Pamela McCorduck, “Sex, Lies and Avatars”, Wired, April 1996 (profilo di Sherry Turkle).

Sulla ‘vita artificiale’ generata dal software: Claus Emmeche, The Garden in the Machine. The Emerging Science of Artificial Life, Princeton N. J., Princeton University Press, 1994; trad. it. Il giardino delle macchine. La nuova scienza della vita artificiale, Torino, Bollati Boringhieri, 1996.

Sulla ‘vita nel cyberspazio’ -–parola inventata agli inizi degli anni ottanta dallo scrittore di fantascienza William Gibson(Neuromancer, 1984) vedi: Cyberspace. First Steps, Massachusetts Institute of Technology, 1991; trad. it. Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993. E: Douglas Rushkoff, Cyberia, New York, Harper Collins, 1994; trad. it. Cyberia. La vita tra le pieghe dell'iperspazio, Milano, Urra, 1994.

L’idea ‘cyberspazio’, mondo apparente creato dalle tecnolgie delle comunicazioni, luogo virtuale nel quale i soggetti si ‘incontrano’ per mezzo delle tecnologie digitali, era stata largamente anticipata: basti citare il teorico situazionista francese Debord e lo scrittore di fantascienza Philip Dick: Guy Debord, La Societé du spectacle, Paris, Lebovici, 1971; Commentaires sur la Societé du spectacle, Paris, Lebovici, 1988; trad. it. Commentari sulla società dello spettacolo e La società dello spettacolo, Milano, Sugarco, 1990. Philip K. Dick, Ubik, 1969; Roma, Fanucci, 1989.