mercoledì 16 dicembre 2009

La Torre di Babele secondo Dante. Per una definizione dell'Informatica Umanistica alla luce del Knowledge Management

Presso il Corso di Laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica dell'Università di Pisa (dove insegno), nell'ambito dei Seminari di cultura digitale, l'11 novembre 2009 ho parlato su questo tema: La Torre di Babele secondo Dante. Per una definizione dell'Informatica Umanistica alla luce del Knowledge Management.
Trascrivo di seguito la scheda di presentazione del seminario:

Il Knowledge Management, la disciplina che si propone di portare alla luce e rendere fruibili le conoscenze (anche tacite e latenti) presenti all'interno delle organizzazioni, si fonda sull'uso di strumenti informatici, ma anche sul rispetto delle diversità e sulla valorizzazione delle culture.
Si argomenterà a partire da quattro narrazioni:
Dante e la Torre di Babele: strumenti informatici a supporto del colloquio tra famiglie professionali
Lumen, Lichtung: dalla filosofia scolastica a Heidegger, strumenti informatici come sguardo sull'ignoto
Philip Dick, Ubik: come le conoscenze legate alla persona possono essere mantenute vive
La Torre di Pisa: elogio dell'imperfezione e della soluzione emergente.
Per questa via si arriverà a proporre una definizione di Informatica Umanistica.

Qui trovate la registrazione.

martedì 8 dicembre 2009

The Mother of All Demos. Doug Engelbart e l'esordio del Persona Computer

9 dicembre 1968, San Francisco, Monday Afternoon, 3:45
Sorridente, ma non per questo privo di preoccupazioni Engelbart inizia a parlare. Getta ogni tanto lo sguardo alle sue spalle – sullo schermo non appare ancora nulla. Ma intanto affronta il tema, la questione chiave: “if you had a workstation at your disposal all day that was perfectly responsible... or responsive”. Ecco il Personal Computer, macchina a totale disposizione della persona, protesi della sua mente, macchina connessa ad altre macchine, nodo di una rete infinita.

Word processor
Engelbart mostra il funzionamento del Word processor. Questo modo di scrivere che ci è diventato ormai usuale, così diverso dal vergare segni su carta. “Word processing beginning with blank piece of paper”, dice Engelbart.
Se ci siamo abituati a parlare di ipertesto, di link e di tag, è solo perché la parola testo porta con sé i limiti della tecnologia alla quale siamo stati così a lungo assoggettati: siamo abituati a vedere il testo schiacciato sulla pagina scritta.
Engelbart, tranquillo, e intimamente soddisfatto, consapevole, senza ostentazione, della novità di ciò che sta mostrando, ci mostra come si può andare al di là: interagendo con i segni sullo schermo, interagisco -tramite potenti utensili- con la mia mente, con il testo che ho in mente.

Complex Information Structure
Engelbart scrive sullo schermo, e intanto spiega.
“An instrument/vehicle for helping humans to operate whitin the doman of Complex Information Structure”. Operate, ci dice, è “compose, study and modify”. La Complex Information Structure è -ci mostra tracciando sullo schermo un grafo- una rappresentazione dei legami tra concetti. La struttura che abbiamo in mente “is too complex to investigate in linear text”, perciò non può bastarci una macchina capace di trattare testi fatti di parole messe in sequenza.
Mostra come come attraverso un instrument/vehicle pensato allo scopo, sia possibile muoversi nella Complex Structure. Andando definitivamente oltre l'idea di una 'macchina per scrivere' evoluta, la macchina di Engelbart è una macchina per pensare: “The computer is a tool for navigating through those structures and examining them in ways that would be too complex otherwise”. La macchina ci permette di lavorare con la conoscenza, allargando l'area delle capacità umane.

Mouse
Engelbart usa il mouse, e intanto parla del mouse. "I don't know why we call it a mouse. It started that way and we never changed it."
Forse c'è di mezzo l'osservazione topi da laboratorio, forse la forma dell'oggetto, con il filo che è una cosa, forse il movimento sullo schermo grafico ancora poco evoluto, come si vede nel filmato della demo di Engelbart, appare come un topolino con la coda. Sembra non sia stato Engelbart a trovare il nome, parola nuova, sembra sia stato invece Bill English, suo principale collaboratore, l'uomo che stava dietro le quinte durante la demo di San Francisco. (L'Oxford English Dictionary registra mouse nel senso di “pointing device” facendo riferimento a: Bill English, "Computer-Aided Display Control", 1965. O. E. D., Second Edition. edited by John Simpson and Edmund Weiner, 1989).
Ma forse più significativo per noi un percorso di senso che ci giunge attraverso l'etimologia. C'è già in greco e poi in latino una connessione tra 'topo' 'muscolo'. Il latino musculus, 'muscolo', è diminutivo di mus, 'topo': perché la forma del muscolo, il suo guizzare, il suo rapido movimento, richiamano per analogia forma e movimento del topo. Ora, il muscolo è una fondamentale componente della macchina umana. Ed oggi, in specie per un 'lavoratore intellettuale' lo sviluppo muscolare è meno importante di prima, perché il lavoro si svolge non attraverso la forza dei muscoli, ma per mezzo di utensili. Poi l'uomo ha appreso ad usare utensili. L'artista ha in mente l'opera e la crea tramite utensili. La forza dei muscoli era indispensabile per usare lo scalpello. Basta invece un leggero movimento per usare il mouse, muscolo virtuale connesso alla mente della persona.

Web
Engelbart connette la sua macchina con le macchine di suoi collaboratori e colleghi, che sono presso il laboratorio di Menlo Park: vediamo la loro immagine sullo schermo, alle spalle di Engelbart che dialoga con loro. Ci viene come scambiarsi messaggi, e come il testo possa essere, e anzi sia nella sua essenza -se gli strumenti ci permettono di andare oltre i limiti della scrittura su carta- oggetto e frutto di lavoro collaborativo.
Tutti convocati attorno allo stesso testo, ognuno può dare il suo contributo nel costruirlo, modificarlo, aggiungere annotazioni e tag (etichette) e link (connessioni ad altri luoghi del documento, o di altri documenti), Engelbart e Bill Paxton e Jeff Rulifson e Bill English e tutti gli altri dell'Augmentation Research Center.

Tutto ciò che ci appare oggi ovvia possibilità, appariva lì, in quel pomeriggio del dicembre 1968, a qui ‘normali’ professionisti del computing lì stupiti in sala, come cosa nuova, strumento inusitato.

martedì 24 novembre 2009

Goethe: la conoscenza come morfogenesi

All'alba del 3 settembre 1786 Goethe parte per il suo Viaggio in Italia. Il 26 settembre, a Padova, è attratto dall'antico Orto Botanico della città universitaria.
Il Systema Naturae di Linneo, con le sue descrizioni codificate, ha preso il posto del giardino. Goethe ha letto e apprezzato le opere di Linneo. A cosa serve, allora, osservare le piante 'dal vivo', sostare nel giardino?
Goethe distingue tra pianta descritta attraverso un codice, e pianta osservata. Leggere la descrizione di una pianta è una cosa. Osservarla con i propri occhi, toccarla, è diverso. Accuratamente lette o studiate le tavole di Linneo, possiamo dire di conoscere? Studiare botanica sui libri forse non è sufficiente, anzi, di più, è fuorviante. Ma d'altro canto, come si costruisce conoscenza a partire dalla mera osservazione?
E scrive: “è piacevole e istruttivo aggirarsi in mezzo a una vegetazione che non si conosce. Le solite piante, come qualsiasi oggetto che sia noto da tempo, non ci suscitano alcun pensiero, e a cosa vale guardare senza pensare? Qui invece, in questa varietà che mi viene incontro sempre nuova...” Crede che solo osservando le piante “sarebbe possibile determinare esattamente i generi e le specie, il che, mi sembra, finora si è fatto molto arbitrariamente.” Cioè dubita della costruzione di Linneo. Linneo ha montato una perfetta, sempre più dettagliata struttura. Ma è una perfezione che si nutre dell'allontanamento dalla realtà, dalle cose fisiche. E' astratta, metafisica.
Eppure non riesce ad andare oltre questa intuizione: “A questo punto della mai filosofia botanica mi sono arenato, e non vedo ancora in che modo districarmi. E' un problema che mi appare non meno profondo che vasto”.
Scriverà su questo temi articoli scientifici, ma riesce ad essere più chiaro, ed epistemologicamente preciso, scrivendo in versi. La poesia non cessa di essere vera poesia se è didattica.
Cito e commento di seguito Die metamorphose der pflanzen, 1798. (Mi limito qui ai primi dieci dei settanta versi dell’opera. (Ma qui trovate l'intera poesia commentata).

Die metamorphose der pflanzen1-2
Dich verwirret, Geliebte, die tausendfältige Mischung
Dieses Blumengewühls ueber dem Garten umher;

Sei turbata, mia cara, dal multiforme miscuglio
dei fiori che s'affollano in tutto il giardino;


Lei è Christiane Vulpius, allora convivente, futura moglie, compagna di una vita. Goethe non nasconde il doppio piano, il discorso rivolto a lei e la seria trattazione scientifica. Anzi, dall'inizio i due piani ci appaiono mutuamente implicati, inscindibli.
Tausendfältige Mischung Dieses Blumengewühls: multitudine, diversità compresente, mescolanza, affollamento. E' questo coacervo, di per sé spaventoso, perturbante, che spinge Linneo e Kant alla ricerca di un rassicurante ordine.
Il giardino botanico nasce all'interno di questo progetto, come alternativa alla Natura selvaggia. L'ambigua speranza insita nel progetto del giardino nasconde una contraddizione: il giardino è e vuole restare luogo naturale, eppure non può non essere allo stesso tempo artificiale, assoggettato a leggi.
Goethe non ci ha ancora detto nulla, ma ci ha già dato da pensare. Come superare il turbamento. Come mantenere viva l'idea, insita nel giardino, di cura e di piacere. Un giardino privo di varietà è privo anche di interesse. Perciò il giardino, qualsiasi giardino, non può non essere un sistema complesso. Impossibile, forse, assoggettare veramente il giardino a una organizzazione.


3-4
Viele Namen hörest du an, und immer verdränget
Mit barbarischem Klang einer den andern im Ohr.

mille nomi tu ascolti, e con barbarico accento
echeggiando all'orecchio l'uno ricaccia l'altro.
Il progetto botanico, il lavoro accanito e tendente all’esattezza di Bauhin e Linneo consiste nel cercare l’ordine ‘dando nomi alle cose’. Dominare la Natura badando non alla Natura, ma a una sua rappresentazione codificata. Ma l’attenzione ai nomi rende vana la percezione legata ai sensi. I nomi ci suonano stranieri, la Natura nominata ci appare Mischung Mischung Dieses Blumengewühls, multiforme, perturbante miscuglio, come la Natura osservata; o forse di più.


5-8
Alle Gestalten sind ähnlich, und keine gleichet der andern;
Und so deutet das Chor auf ein geheimes Gesetz,
Auf ein heiliges Rätsel. O könnt' ich dir, liebliche Freundin,
Überliefern sogleich glücklich das lösende Wort!

simili tutte le forme, nessuna è identica all'altra;
in coro ti preannunciano una legge segreta,
un sacro enigma. Potessi, gentile amica,
dartene sul momento felicemente la chiave!

Morfologia: guardare alla forma.
Alle Gestalten sind ähnlich, und keine gleichet der andern, forme simili, ma mai identiche. Linneo scientemente trascurava le varianze (“varietates laevissimas non curat botanicus”). Ma per Goethe non si tratta di trascurabili, irrilevanti accidenti. Sembra anzi intuire –e suggerici– che la conoscenza più ricca sta proprio nello scostamento dalla norma. E' attento al segno debole, all'istante in cui quella che sembrava una forma già data mostra come forma diversa.
Se Linneo vedeva un insieme ordinato, dove il tutto è ovviamente la somma delle parti, e la forma è controllata, regolata daa una regola ad essa esterna, Goethe vede un ‘tutt’uno’ tenuto insieme da una geheimes Gesetz, legge segreta, da un heiliges Rätsel, sacro mistero.
Goethe osserva la natura come sistema complesso e intuisce che l'armonia, l'efficacia dell'insieme si fonda su una lösende Wort, una parola che risolve, snoda l'enigma, una parola segreta, direi un codice, un algoritmo genetico condiviso dalla pianta nelle sue diverse manifestazioni: tronco, foglia, fiore, frutto.


9-10
Werdend betrachte sie nun, wie nach und nach sich die Pflanze,
Stufenweise geführt, bildet zu Blüten und Frucht.

Osserva nel suo divenire la pianta, come man mano,
gradualmente guidata, si plasmi in fiore e in frutto.

Morfogenesi: il cuore dell’approccio goethiano va oltre la morfologia. Non solo studio delle forme, di tutte le forme, Alle Gestalten.
Goethe considerava obiettivo della sua ricerca la urpflanz, la ‘pianta originaria’, la forma formante che sta all’origine della forma, o dell’essenza, di ogni pianta. Via via, nel corso della vita, arriverà a considerare la urpflanz un sogno, una meta inattingibile. Cercava la urpflanz non tanto per via filogenetica, ma guardando all’ontogenesi di ogni pianta. Osservando ogni pianta, confrontando le forme delle diverse piante.
Goethe non nega valore alla codifica di Linneo. Ma va oltre. Non confronta ogni pianta con la forma perfetta del modello linneaiano. Torna ad osservare la pianta. Ogni singola pianta.
Linneo leggeva la Natura collocando ogni pianta in un Gestalt –forma, sistema, struttura– astratta, che tutto contiene e descrive. La parte, la singola pianta, si spiega perché appartiene al tutto.
La Gestalt di Linneo (e di Kant) è un perfetto insieme di gerarchie definite a priori.
La Gestalt di Goethe è una forma emergente: appare nel mentre si osserva la singola pianta. Ogni Gestalt, dal punto di vista di Goethe, è modello di sé stessa.
Goethe, al di là della illuministica, trasparente codifica di Linneo, ci parla di algoritmi genetici, di matematica della complessità.
Nel corso dell'elegia Goethe ci parla a lungo di Gestalt, forma, struttura. La Gestalt, però, non può spiegare se stessa. Perciò Goethe deve ricorrere al verbo bilde. Bild sta in tedesco anche per 'immagine', 'quadro', 'rappresentazione'. Potrebbe dunque sembrare che il discorso si svolge in un contesto linneiano. Ma appunto Goethe ci ricorda che non c'è forma senza processo di formazione.
Il modello non è già dato, a priori, come per Linneo. Oggetto di attenzione non è la pianta in sé, rappresentazione astratta di un . Sono mirabilia, stati del mondo che meritano di essere osservati, le diverse piante che nach und nach, poco a poco si plasmano. Ciò che lo scienziato goethiano osserva è il divenire. Il divenire di ogni pianta, ognuna portatrice di un proprio modello evolutivo.
La chiave del sacro enigma, ci suggerisce Goethe, sta forse in questo: ognuna e tutte le piante forme formanti, keine gleichet der andern, nessuna identica all'altra.
Ogni forma sottosistema di un sistema più vasto; la natura, osservata a livelli diversi di scala, appare sempre come un sistema che si evolve, la singola pianta Stufenweise geführt , gradualmente guidata dall'appartenenza all'insieme: oltre l'evoluzionismo darwiniano qui ci appare quel modo di osservare che potremmo definire 'sguardo ecologico'. Ciò che osserviamo è, per usar le parole di Bateson, la “struttura (pattern) che connette”.

(Su Scribd ho pubblicato una più ampia versione di questo testo)

venerdì 23 ottobre 2009

Tecnologie dell'informazione e produzione di letteratura 2008-2009

Così come ho pubblicato in questo blog il programma del corso di Organizzazione di conoscenze e di attività, pubblico il programma del corso che ho tenuto gli anni scorsi nel secondo semestre.
Il programma dell'anno accademico 2009-2010 lo trovate qui.

Titolo: Tecnologie dell'informazione e produzione di letteratura
Corso di laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica
Università di Pisa

Docente Francesco Varanini

Argomento:
Il corso propone un ripensamento del romanzo alla luce della digitalizzazione dell’informazione, e quindi di possibili scritture, interpretazioni e letture caratterizzate da interattività, multimedialità, ipertestualità
Il romanzo si colloca oggi nel quadro della transliteracy (“the ability to read, write and interact across a range of platforms, tools and media from signing and orality through handwriting, print, TV, radio and film, to digital social networks”: Joseph, Laccetti, Mason, Mills, Perril, Pullinger, Thomas, “Transliteracy: Crossing Divides”, First Monday, Volume 12 Number 12 - 3 December 2007).
Il romanzo, oggi, si trova a ridefinire il proprio spazio e il proprio ruolo in un contesto che vede presenti altre forme di narrazione -oralità, teatro, cinema, televisione, web- ognuna legata ad una propria storia tecnologica.
Le tecnologie, in anni recenti, hanno subito un processo di convergenza: da una specifica modalità di produzione, si è passati ad un processo comune caratterizzato, quale che sia la forma di narrazione, dall'uso di un'unica 'piattaforma', fondata sulla digitalizzazione delle informazioni.
La produzione di narrazione, prima fondata su specifiche competenze, ognuna legata alla singola 'arte', si è trasformata, fino a fondarsi su una trasversale competenza, basata sull'analisi e sul trattamento dei dati tramite strumenti informatici.
Parallelamente, convergono e si ridefiniscono i ruoli di autore, intrprete e lettore. E si pone il tema di come il romanzo, non più necessariamente chiuso nella 'forma libro', appare come 'opera aperta', che emerge diversa da caso a caso, da momento a momento.
Nel corso:
- si approfondirà il tema da un punto di vista teorico,
- si esamineranno gli aspetti chiave della nuova competenza trasversale,
- si esamineranno casi esemplari di romanzi che prefigurano il superamento della 'forma libro', e l'avvicinamento a forme ipertestuali, interattive, multimediali.
Si lavorerà in particolare attorno a Cervantes, Don Chisciotte.

Esercitazione
Consiste nella stesura (e se possibile nello sviluppo) di un progetto teso a liberare un romanzo dalla forma del libro, utilizzando tecnologie informatiche.
Ad esempio: ripresentazione del romanzo sotto forma di ipertesto; modellizzazione del testo in un data base offerto alla consultazione del lettore; indicizzazione del testo allo scopo di renderlo fruibile tramite motore di ricerca; ecc.
Si propone di lavorare su uno dei romanzi sotto indicati. Lo studente può però scegliere di lavorare su un qualsiasi altro romanzo.

Testi:

Romanzi:

- Miguel de CERVANTES, El Ingenioso Hidalgo de Don Quijote de la Mancha, 1605 (prima parte), 1615 (seconda parte). In spagnolo: a cura di John Jay Allen, Cátedra. Tra le varie edizioni italiane si consiglia: Oscar Mondadori (trad. di Ferdinando Carlesi, cura di Cesare Segre e Donatella Pini Moro); Grandi Libri Garzanti ( trad. di Letizia Falzone, a cura di Dario Puccini); BUR Rizzoli (tra. di Alfredo Giannini); Einaudi (trad. di Vittorio Bodini); Frassinelli (trad. di Vincenzo La Gioia).
Full text on line:
http://digital.library.upenn.edu/webbin/gutbook/lookup?num=996
http://www.fullbooks.com/Don-Quijote.html
http://www.spanisharts.com/books/quijote/elquijote.htm
http://www.el-mundo.es/quijote/
- Philip K. DICK, The Man In The High Castle, 1962, trad. it L’uomo nell'alto castello, Fanucci.
- Vladimir NABOKOV, Pale Fire, 1962; trad. it Fuoco pallido, Adelphi.
- Julio CORTÁZAR, Rayuela, Sudamericana, Buenos Aires, 1963; trad. it. Il gioco del mondo, Einaudi.
- Alberto ARBASINO, La bella di Lodi, 1972; ora Adelphi.
- Georges PEREC, La vie mode d'emploi, 1978; trad. it. La vita, istruzioni per l’uso, Rizzoli.

Saggi:
- Ivan ILLICH, In the Vineyard of the Text : A Commentary to Hugh's Didascalicon, University of Chicago Press, 1993; trad. it. Nella vigna del testo, Cortina, 1994.
In aggiunta (per non frequentanti almeno un testo a scelta tra):
-Jay David BOLTER, Writing Space. The computer, Hypertext and The History of Writing, Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale (N.J.), 1991, trad. it. Lo spazio dello scrivere. Computer, ipertesti e storia della scrittura, Vita e Pensiero, Milano, 1993. (Evitare possibilmente la seconda edizione, sia in inglese che in italiano; è peggiorativa).
- George P. LANDOW, Hypertext 2.0., Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1997; trad. it. L' ipertesto. Nuove tecnologie e critica letteraria, Bruno Mondadori, Milano, 1998.
- Ted H., NELSON, Literary Machines, Swarthmore (Pa), 1981 (pubblicato in proprio). Trad. it. dell'ed. 1990: Literary Machines 90.1, Muzzio, Padova, 1992.
- Lev MANOVICH, The Language of New Media, Massachusetts Institute of Technology, 2001; trad. it. Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano, 2002.
THOMAS, JOSEPH, LACCETTI, MASON, MILLS, PERRIL, PULLINGER, “Transliteracy: Crossing Divides”, First Monday, Volume 12 Number 12 - 3 December 2007

Note: Gli studenti, sia frequentanti che non frequentanti, sono invitati a inviare una e-mail al docente. Saranno periodicamente forniti materiali didattici inerenti all'insegnamento.

Garbugli. Ovvero il libro giallo come ultimo libro

Ricordiamo i “sette anni di studio matto e disperatissimo” spesi dal giovane Giacomo Leopardi nella biblioteca paterna, con la volontà di impossessarsi del più ampio sistema di nozioni (notione deriva da notum: conoscenza scolastica, già data ).
Sono anni che compromettono irrimediabilmente la salute e l'aspetto esteriore di Giacomo. Ma Giacomo non rinuncia a divagare, va oltre, guarda fuori. E' attento agli indizi. La finestra dello studio si apre sul mondo, sta a noi non rinunciare a guardare.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!


Le carte sono “sudate”, ma gli studi possono essere “leggiadri”. Connettere il testo già dato con il mondo circostante rendi i pensieri “soavi”, illuminate dal “ciel sereno” le parole scritte su carta appaiono diverse, strutturalmente accoppiate alle “vie dorate e agli orti”, al “mare da lungi” e al “monte”. (Giacomo Leopardi, Canti, Piatti, Firenze, 1831. XXI, A Silvia, vv. 15-29).
Giacomo stanco, la mente bloccata, guarda fuori dalla finestra; la “faticosa tela” di Silvia è metafora della sua tela interrotta. Solo quando le abitudini dello studio matto e disperatissimo vengono troncate e si impara ad assumere un atteggiamento orientato al 'lasciar andare' il flusso dei pensieri, solo allora la naturale caratteristica della mente di conoscere se stessa e di riflettere in modo creativo sulla propria esperienza può finalmente emergere.
Ecco perché leggiamo libri gialli. E li leggiamo magari in momenti di difficoltà.
Leggere un libro giallo è un intimo gesto di abbandono. Di allentamento del controllo. Solo quando si interrompe la lettura e la scrittura intese come lavoro per leggere un libro giallo dal pensiero possono emergere nuove connessioni.
Di fronte a questo eccesso di libri e biblioteche e schedari e riviste e giornali l'orientamento al controllo è fallace, ed invece costituisce punto di partenza vantaggioso la consapevolezza della propria ignoranza.
La conoscenza sta nel muoversi connettendo qui ed ora notizie e nozioni e dati prescindendo dalla loro struttura così come dal loro originario scopo, come se stessimo osservando per la prima volta un mondo sconosciuto.
Solo questo è sapere, nutrimento adeguato, dotato di sapore, adeguato al momento e al luogo.
I libri gialli ci parlano di un atteggiamento di fronte al conoscere. Rispondono -in un preciso momento storico- ad un basilare, ancestrale bisogno dell'uomo: costruire conoscenza adeguata, rispondere alle insidie dell'ambiente, garantirsi la sopravvivenza in un ambiente che eccede le nostre possibilità di controllo e di piena comprensione.
Il pensiero irrisolto appare come gnommero, diceva Gadda nel Pasticciaccio, matassa ingarbugliata. In ogni libro giallo troviamo fissato questo momento.

Tutto era ancora una matassa ingarbugliata. Non c'erano aperture, nessuna pista che portasse a una svolta nelle indagini. (Henning Mankell, Villospår, Ordfrronts Förlag, Stockholm, 1995; trad. it. La falsa pista, Marsilio, 2009, p. 209).

Clew sta in inglese per 'a ball of thread or yarn', 'gomitolo'. Da clew, per semplice variante fonetica (la pronuncia non cambia), clue – che dall'inizio del 1600 sta per 'that which points the way', qualcosa che indica la via; e quindi 'indizio'. Trasparente il riferimento al mito di Arianna: Teseo, l'eroe, trova l'uscita dal labirinto grazie al filo di lana che l'amata gli ha dato.
A metà del 1800 il legame tra clue e clew era ben presente nella lingua popolare, nella cronaca giornalistica relativa alla soluzione dei casi criminosi da parte dei detective di Scotland Yard e degli investigatori, così come nella narrativa.
Leggiamo Mary Bolton di Elizabeth Gaskell:

E' sempre un piacere svelare un mistero, dipanare il sottile groviglio di fili che ci porterà alla certezza.

La mente semidesta, mentre sia abbandona a percorrere il groviglio proposto dalla narrazione, sperimenta come andare oltre i confini del già pensato. Si scopre così come guardare il mondo con occhi nuovi.
Il libro giallo ci fornisce un risposta, ci accompagna nel costruire senso dipanando l'aggrovigliato gomitolo, facendo emergere il senso che è latente in quello stesso aggrovigliato gomitolo. Il libro giallo silenziosamente e piacevolmente ci accompagna sollecitando la nostra mente a compiere quel lavoro
Leggiamo, per esempio, nell'undicesimo romanzo di Philo Vance (S. S. Van Dine, The Gracie Allen murder case, New York, C. Scribner’s sons, 1938. Trad. it. Philo Vance e il caso Allen, Giallo Mondadori 1246 [17 dicembre 1972]):

Lasciami delirare ancora un po' prima di richiudermi in una camicia di forza... vi sono altre cose per me sconcertanti che potrebbero essere assemblate in un tutt'uno coerente... Finalmente si forma uno schema nel mio vorticoso cervello.

Perciò ci appare manifestazione di una paradossale saggezza il fatto che, nell'epoca del tramonto del libro come forma unica ed universale, le librerie offrano un numero sempre crescente di libri gialli, ed ogni libro tenda ad assumere la struttura del libro giallo. Possiamo immaginare che sarà un libro giallo l'ultimo libro che leggeremo.
Quando non avremo più motivo di leggere libri, perché l'uso di qualche tipo di macchina, intesa come espansione e protesi della nostra mente, ci farà apparire del tutto obsoleto questo insieme di fogli stampati o manoscritti, di forma e misura uguale, ordinati secondo un dato ordine, numerati e cuciti insieme in modo da formare un volume, fornito di copertina o rilegato, quando non avremo più motivo di leggere libri, forse l'unico libro che leggeremo con piacere sarà un libro giallo.
Ci ricorderà il passato, e allo stesso tempo ci allenerà a al nuovo lavoro che sostituisce la lettura. Se la lettura è un passivo subire la struttura proposta da un autore, da un esperto, il libro giallo ci propone la scoperta di una soluzione, l'emergere di un percorso di senso. Il lavoro dell'investigatore, è lo stesso lavoro del knowledge worker che, lavorando con l'ausilio di un computer costruisce conoscenza per tentativi ed errori, sbrogliando enigmi, dipanando matasse intricate.
Il libro giallo, meta-libro, ci parla del mondo del dopo-libro e ci insegna muoverci in quel mondo.
Un mondo dove menti strutturalmente accoppiate a computer costruiscono conoscenza, come se stessero leggendo un libro giallo.

domenica 4 ottobre 2009

J. C. R. Licklider, “Man-Computer Symbiosis”

In quegli stessi anni '60 in cui Doug Engelbart immaginava l''aumento dell'intelligenza umana' attraverso l'uso di quello strumento che avremmo poi chiamato Personal Computer, ragionava a proposito della simbiosi tra uomo e computer un altro irregolare. Le sue riflessioni, come quelle di Engelbart e di Nelson, ci appaiono del tutto attuali: più che parlarci di un percorso svolto nello scorso mezzo secolo, ci parla di un percorso lungo il quaale siamo incamminati – probabilmente senza esserne del tutto consapevoli.
Joseph Carl Robnett Licklider, per tutti J.C.R. o ancora più semplicemente Lick, psicologo specializzato in psicoacustica, inizia a interessarsi di computing quando negli anni '50 lavora presso il MIT Lincoln Laboratory, centro di ricerca finanziato dal Dipartimento della Difesa. Lick si muove dunque in quell'area che è frutto della visione di Vannevar Bush, luogo di convergenza di interessi militari e alta tecnologia di origine universitaria. Per questa via, arriverà nel 1963 all'ARPA, l'Advanced Research Projects Agency, istituita nel 1958, come risposta al lancio nello spazio dello Sputnik sovietico. Presso l'ARPA -che è tra i finanziatori dell'Augmentation Research Center- è responsabile dell'Information Processing Techniques Office (IPTO).
In questo avvicinamento ad un computing al servizio dell'uomo che pensa, c'è un passaggio chiave: la pubblicazione, nel 1960, di un articolo di poche pagine, Man-Computer Symbiosis.
Il riferimento alla simbiosi è specialmente interessante: come Lick non manca di sottolineare, si tratta di un concetto biologico. Nella visione di Lick, due dissimili organismi, “living together in intimate association, or even in close union”, lavorano per costruire conoscenza.

The hope is that, in not too many years, human brains and computing machines will be coupled together very tightly, and that the resulting partnership will think as no human brain has ever thought and process data in a way not approached by the information-handling machines we know today.

Notevole qui la vicinanza con il punto di vista di Maturana: si parla -”human brains and computing machines”- di sistemi viventi, si parla di accoppiamento strutturale.
Il computer così inteso -possiamo dire la macchina di Lick- è una macchina ben diversa dal Mainframe orientato al controllo, e teso a sostituire l'uomo attraverso la sua Intelligenza Artificiale. Così come l'uomo disposto a collaborare con questa macchina è ben diverso sia dal tecnico analista o programmatore, sia dall'utente che accetta passivamente di lavorare dentro i vincoli definiti dalla procedura.
L'indirizzo è chiaro:

To enable men and computers to cooperate in making decisions and controlling complex situations without inflexible dependence on predetermined programs.

“Senza dipendenza da programmi predeterminati”: ecco affermato il nodo chiarissima la distanza dall'approccio kantiano e cognitivo. Serve una macchina che faciliti l'emergere del nuovo pensiero, serve un aiuto per costruire conoscenza, serve una macchina orientata alla Bildung. Il “controllo delle situazioni complesse” non può passare attraverso l'attuazione di programmi, procedure scritte prima, ma è invece, essenzialmente, decision making.
Lungo il corso degli anni Sessanta, la riflessione di Licklider si consolida e si precisa.
Finché in The Computer as a Communication Device, articolo apparso nel 1968, ci offre una lucida anticipazione di ciò che abbiamo imparato a chiamare social network, reti sociali, virtual community, comunità virtuali . Nelle parole di Lick, già molto precise, “On-line interactive communities”. Persone intente a collaborare, “face to face through a computer”.

But let us be optimistic. What will on-line interactive communities be like? In most fields they will consist of geographically separated members, some- times grouped in small clusters and sometimes working individually. They will be communities not of common location, but of common interest. In each field, the overall community of interest will be large enough to support a comprehensive system of field-oriented programs and data.

Ma dal punto di vista del ragionamento che vado svolgendo, centrato sul lavoro congiunto della mente umana e di una 'macchina per pensare', le suggestioni più ricche erano già presenti in Man Computer Symbiosis:

It seems reasonable to envision, for a time 10 or 15 years hence, a "thinking center" that will incorporate the functions of present-day libraries together with anticipated advances in information storage and retrieval and the symbiotic functions suggested earlier in this paper. The picture readily enlarges itself into a network of such centers, connected to one another by wide-band communication lines and to individual users by leased-wire services. In such a system, the speed of the computers would be balanced, and the cost of the gigantic memories and the sophisticated programs would be divided by the number of users.

domenica 20 settembre 2009

Organizzazione di conoscenze e di attività

Questo è il corso che tengo nel primo semestre dell'anno accademico 2009-2010 all'Università di Pisa. Come si vede, i temi sono attinenti a quello che scrivo in questo blog.

Titolo: Organizzazione di conoscenze e di attività
Corso di studi: Informatica Umanistica (specialistica)
Docente: Francesco Varanini

Argomento:
Il corso fornisce un quadro di riferimento teorico, e propone lo studio di casi a proposito di:
• cultura organizzativa: come nascono, vivono, muoiono reti sociali, gruppi e organizzazioni
• modelli e funzionamento dell'organizzazione aziendale
• Knowledge Management: come le conoscenze sono create, portate alla luce, rese accessibili, condivise, valorizzate.
Per ognuno dei temi suddetti, verrà specialmente studiato il supporto offerto da tecnologie e strumenti informatici.
Coerentemente con il tema 'organizzazione della conoscenza', le lezioni, che si svolgono in Laboratorio Informatico, proporranno concreta sperimentazione di come si 'costruisce conoscenza' utilizzando motori di ricerca e risorse offerte dalla Rete. Questa esperienza non è ovviamente riproducibile studiando su libri.

Testi d'esame
• Humberto Maturana, Francisco Varela, El árbol del conocimiento, 1984; trad. it. L’albero della conoscenza, un nuovo meccanismo per spiegare le radici biologiche della conoscenza umana, Garzanti, Milano, 1992.
• Charles Babbage, On the Economy of Machinery and Manufactures, 1835 (fourth edition), accessibile on line presso Google libri.
Più un testo scelta tra i seguenti due:
• Federico Butera, Il castello e la rete: Impresa, Organizzazione e Professioni, FrancoAngeli, Milano, 1990, (XV edizione, 2008)
• Manuel Castells, The Rise of the Network Society, The Information Age: Economy, Society and Culture, Vol. I. Cambridge, MA; Oxford, UK. Blackwell. 1996; trad. it La nascita della società in rete, Egea-Università Bocconi, 2008.

Testi per approfondimento:
• Peter L. Berger and Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, New York: Anchor Books, 1966; trad. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1997
• Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolution, Chicago, University of Chicago, 1962; tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969.
• Ikujiro Nonaka, Hirotaka Takeuchi, The Knowledge-Creating Company: How Japanese Companies Create the Dynamics of Innovation, Oxford: 1995; trad. it. The Knowledge-Creating Company. Creare le dinamiche dell’innovazione, Milano Guerini e Associati, 1997

Indicazioni per non frequentanti:
Gli studenti possono rivolgersi al docente, durante l'orario di ricevimento o via mail, per avere suggerimenti in merito a come sostituire l'esperienza pratica di 'costruzione di conoscenza' sperimentata durante le lezioni.

mercoledì 16 settembre 2009

Pensare da sé: una lezione di Wittgenstein

Ich möchte nicht mit meiner Schrift Andern das Danken ersparen. Sondern, wenn es möglich wäre, jemand zu eingenen Gedanken anregen.
Ich hätte gerne ein gutes Buch hervorgebracht. Es ist nicht so ausgefallen; aber die Zeit ist vorbei, in der es von mir verbessert werden könnte. (Ludwing Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953; cito dal Ludwig Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989. Vorwort (1945), p. 233; trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, 1967. Prefazione dell'autore, p.5).


Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé.
Avrei preferito produrre un buon libro. Non è andata così; ma è ormai passato il tempo in cui avrei potuto renderlo migliore.


Non mi importa la filosofia di Wittgestein, che del resto non esiste. Importa il filosofare di Wittgenstein. E pochi filosofi come Wittgenstein -nelle Ricerche filosofiche molto più che nel Tractatus- ci mostrano il pensiero del pensatore, lasciandoci vicini al pensiero mentre nasce. Se c'è un senso nella filosofia, il senso sta nella bellezza del pensare, nel lavoro della mente che crea conoscenza. Di molta della migliore filosofia non c'è traccia, perché il pensiero è una attività che, in origine, non lascia tracce se non nella mente del pensatore. Ci sono tracce, sia pure labili, nella mente di coloro che hanno assistito all'emergere del pensiero durante una lezione, un seminario, una chiacchiera del pensatore. Ci sono tracce (in apparenza) meno labili se il filosofo ha scritto.
Non posso non dire: tracce 'in apparenza' meno labili. Perché qui mi trovo a dire della natura profonda e sottaciuta della scrittura. La scrittura è traccia di qualcosa. E' al qualcosa che si deve guardare. La ricchezza sta lì, non nelle tracce che ne restano. La scrittura non serve a niente se non ci dice qualcosa. La scrittura è un modo per avvicinarsi alla conoscenza.
Raramente si trova, come in queste parole di Wittgenstein, una riflessione profonda sul tema di come si pensa, di come si crea conoscenza. E sopratutto sul tema di come la scrittura è un aspetto intrinseco, non indispensabile, ma specialmente arricchente, di questo processo. Faccio fatica a chiarirmi le idee, a svilupparle, a sciogliere il gomitolo aggrovigliato, perciò sostengo il mio pensiero con la scrittura. Scrivendo mi chiarisco le idee. Se penso senza sostenere il mio pensiero attraverso la scrittura, penso in un modo diverso. Diverso da quando creo conoscenza senza scrivere. Lo spazio-tempo della scrittura è spazio-tempo dedicato a creare conoscenza. Conta lo scrivere, non lo scritto. Ciò che resta come traccia non è il frutto del pensiero, non lì sta la conoscenza. Pensando-scrivendo posso ben aver lasciato parti importanti del pensiero non dette, tra le righe del mio scrivere. Può ben darsi che la traccia lasciata sia infedele e grandemente povera, rispetto alla ricchezza che sentivo nel mio pensiero. Ma è la traccia che c'è e -in mancanza di meglio- questa è la ricchezza che ho a disposizione.
Per questo è importante scrivere: è l'esercizio di uno specifico modo di pensare. E quando, anche attraverso la scrittura, ho pensato, il processo è andato a buon fine e il lavoro è terminato. Il testo, osservato da questo punto di vista, è una scoria. Più che la ricca materia prodotta, è l'escremento.
E' certo utile studiare gli scritti, tornare su di essi per capire come in quell'istante stavo pensando io stesso che rileggo i miei testi, o come stava pensando qualsiasi altra persona che, oggi come mille o duemila anni fa, ha lasciato tracce scritte del suo pensiero. Ma è utile leggere, appunto, per chiedersi 'come stava pensando' la persona intenta a pensare-scrivere, è utile per inferire quel pensiero che stava emergendo in quell'istante nella mente del pensante-scrivente. E' una semplificazione, un errore, una fuga, attribuire valore di verità allo scritto, cercare l'essenza del pensiero nello scritto che posso avere ora sotto gli occhi. Il pensiero nasceva là, in quel momento in cui qualcuno pensava-scriveva. La traccia di quel pensiero rimasta su carta, o su un qualsiasi altro supporto, non è che un indicatore, un segnale, un indizio. Il segno, certo e rassicurante, dotato di valore e di verità, non c'è. Leggendo, posso solo inferirne il senso. Leggere è muoversi nel testo, questo inconcluso e parziale sistema di tracce, cercando e trovando anche quello che materialmente non c'è.
L'intelligenza è inter ligere, 'leggere tra le righe'.

Una postilla. Mostra qui la sua miseria l'atteggiamento di quegli intellettuali che mostrano dispetto per l'eccesso di scrittura, l'atteggiamento di tutti coloro che sostengono che si dovrebbe passare meno tempo a scrivere e più tempo a leggere. Non è, in fondo, che un modo per difendere il proprio ruolo di persone già legittimate a pensare, magari professionisti del pensiero su un dato argomento. E' l'atteggiamento di chi, trovandosi nelle condizioni di manovrare, proclama che non si deve disturbare il manovratore.
Ma invece: ogni persona è dotata di una mente diversa, ogni persona è fonte di nuove conoscenze. Perché mai dovremmo rinunciare al suo contributo alla costruzione sociale di ricchezza. Chi proclama i vantaggi della rinuncia, appare ora nudo, e l'interesse privato che va a scapito del vantaggio collettivo risulta evidente. Perché è caduta oggi l'unica ragionevole motivazione a non prendere in considerazione la scrittura di tutti: fino ad un recente ieri, era impossibile muoversi nella massa infinita di testi. Ma oggi, non è più così: strumenti di scrittura-lettura del tipo 'motore di ricerca' permettono di muoversi efficacemente nella massa infinita. E visto che posso muovermi nella massa, piuttosto che poche tracce di pochi momenti di scrittura-lettura di poche persone, preferisco il molto: molte tracce di molte persone.
Che si vadano a rileggere, questi figuri, le parole di Wittgenstein: “Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé.”

mercoledì 9 settembre 2009

Derrida e la scrittura digitale

Derrida: 'la trasparenza del discorso orale può essere contestata; anche il discorso orale è una forma di scrittura'. A prima vista, il ragionamento appare come un elegante paradosso, e nient'altro. Ma la situazione tecnologica nella quale mi muovo nel momento in cui scrivo permette di andare oltre, e di cogliere il senso profondo che la la scrittura di Derrida ospita – forse al di là di ciò di cui lo stesso Derrida è consapevole.
Derrida: 'scrittura è la forma primaria di espressione della personale conoscenza, della esperienza che ognuno fa interagendo con il mondo che lo circonda'. Ovvero: l'esperienza ha valore se 'prende forma'. Il prendere forma, Bildung, è il processo necessario alla costruzione di conoscenza. Il 'prendere forma' può manifestarsi in forme diverse.
Derrida: 'scrittura è qualsiasi cosa che separi la lingua dall’immediatezza della percezione non mediata'. Ovvero: faccio esperienza interagendo con il mondo, tramite la lingua esprimo l'esperienza.
Derrida: 'è scrittura qualsiasi manifestazione del linguaggio che lascia traccia o iscrizione'. Ovvero: anche il discorso orale è una forma di di scrittura. Il considerare scrittura solo il vergare segni su un supporto è accanirsi a guardare il mondo con gli unici occhiali dei quali disponevamo in una fase storica e tecnologica. La scrittura è la costruzione del codice. Il codice 'sta dietro', 'sta sotto', 'c'è prima'.
Derrida: 'la scrittura, e non l’oralità, è la manifestazione fondamentale della lingua'. Ovvero: la lingua è il modo attraverso il quale l'uomo esterna l'esperienza, l'interazione tra sé e il mondo. La lingua è codifica, senza la codifica la conoscenza non può essere esplicitata, conservata, condivisa, riutilizzata. L'oralità, così come il vergare segni su un supporto, sono utilizzi della conoscenza codificata.
Questo, credo, intende Derrida. Senza saperlo -ritengo che le sue conoscenze di informatica fossero scarse o nulle, ma il suo sguardo non era velato da pregiudizi come lo è invece lo sguardo di altri filosofi: Severino, o Galimberti- Derrida parlando di scrittura, ci parla di ciò che l'informatica chiama digitalizzazione. Conservazione, tramite adeguata codifica, dei dati grezzi che hanno in sé la conoscenza, prima che questa prenda forma in uno o in altro modo, in uno degli enne modi possibili.
Se, lungo millenni di storia, abbiamo finito per intendere per scrittura esclusivamente i segni graffiati, vergati, tracciati su un supporto, tramite uno strumento incisivo, e poi tramite una penna-, è solo perché questa era l'unica tecnologia di cui disponevamo: per conservare conoscenza, per mantenerla in uno stato che ci permettesse di riutilizzarla, non potevamo fare altro che scrivere.
Ora che disponiamo di nuove tecnologie -Derrida, non suo modo visionario ed ermetico ci parla credo di questo- possiamo ben intendere la scrittura in un senso più ampio: tecnologia che rende possibile l'esternare conoscenza, tecnologia che rende possibile accedere alla conoscenza.
Quando Platone nel Fedro sostiene i meriti dell'oralità rispetto alla scrittura, coglie con acume il limite della scrittura su carta. “Il discorso di colui che sa, vivo e animato”, se trasferito su carta si trasforma in qualcosa di fisso e chiuso, che di quel discorso potrebbe “giustamente dirsi un simulacro”. “I discorsi scritti” non sono niente più “del richiamare alla memoria di chi già li conosce gli argomenti trattati nello scritto”. Le possibili connessioni, i possibili modi di intendere quella tela viva che è il testo sono ridotte nello scolastico confine di ciò che è già stato scritto su carta.
La parola scritta su carta, così come l'informazione conservata nei Data Base, cozza ancora oggi con questi impoverenti limiti. La povertà tecnologica della codifica consistente in un solo tracciato -i segni che ho vergato sul supporto, le informazioni ingabbiate nel data model, nel tracciato record o nelle tabelle di un Data Base-, rende ancora attuale la critica di Platone. Molto meglio del testo scritto su carta, ingabbiato dal già tracciato, il testo che ho in mente, aperto a infinite articolazioni, a sempre diverse evoluzioni.
La caratteristica dello sguardo di chi costruisce Basi Dati, e di chi scrive già pensando al libro, è la fissità: cerca la struttura invariabile. Come lo sguardo di Linneo, non vede l'evoluzione e trascura la variazione.
Ma Derrida ci aiuta a guardare oltre, e a cogliere gli enormi vantaggi della codifica che il computing ci mette a portata di mano. Ci spinge a cogliere il movimento, lo sviluppo. Non c'è un testo già dato, stabilito per sempre. Il testo è il continuo divenire della conoscenza che si fa istante dopo istante. In questo momento colgo il testo in una delle sue possibili manifestazioni.
La scrittura, così come è intesa da Derrida, va oltre le critiche di Platone: ci appare come necessaria massa informe, ma contenente in se il germe della propria organizzazione. Una organizzazione che puo' manifestarsi -Bildung- in forme sempre diverse, ed è in fondo sempre in fieri.
E la descostruzione di Derrida ci appare meno oscura se la intendiamo come risalita, o ritorno, dal testo scritto su carta al retro-testo, o meta-testo, frutto della mia capacità di connettere, di tessere la tela di una narrazione. Retro-testo, meta-testo di cui il testo scritto su carta non è che una delle possibili manifestazioni.
La decostruzione di Derrida ci appare meno oscura se,- in senso più lato, guardando le cose al di fuori del tradizionale panorama che ci è concesso se guardiamo il mondo non solo attraverso i libri- la intendiamo come la perenne ristrutturazione di cui è passibile la conoscenza digitalizzata.
Decostruire è 'guardare dietro', guardare sotto' alla conoscenza come appare attraverso una sua manifestazione. 'Dietro' e 'sotto' e 'prima' di ciò che sto scrivendo su un foglio, così come 'dietro' e 'sotto' e 'prima' della parola pronunciata oralmente, c'è la conoscenza che sto portando in questo istante alla luce.
Infatti, i dati digitalizzati relativi a quella conoscenza, costituiscono il codice che mi permette sia di manifestare quella conoscenza sotto forma di parola pronunciata -pensiamo a un file mp3- sia sotto forma di parola scritta tramite segni alfabetici -pensiamo ad un file Word-.
Il codice è la scrittura. Scrivendo creo codice passibile di utilizzi diversi.

lunedì 31 agosto 2009

Zuhandenheit vs. Usability, Martin Heidegger vs. Jakob Nielsen

Il mouse condivide con il telefono cellulare la natura di ‘strumento legato alla mano’. Così in tedesco il Mobiltelefon è comunemente detto Handy. E in finlandese Matkapuhelin , ‘telefono da viaggio’ è kännykkä (e poi känny), ‘prolungamento della mano’ Ma potremmo anche dire che non un singolo device, ma il computer è nel suo insieme 'prolungamento del corpo e della mente'. Forse non è fuori luogo un rimando all'idea di bacchetta che nelle fiabe risolve ogni garbuglio. Forse meglio che bacchetta magica, Magic Wand - dove wand ricorda originario senso di pieghevolezza, flessibilità. Non a caso l'etimologia, tra gli altri lo sostiene Heidegger, ci propone una probabile connessione tra magico e macchina. Il greco magike tekhne è l'arte della magia, dal persiano magush. Magush, come il greco makhana, risalirebbe alla radice indeuropea magh- 'essere capace', 'avere la forza', 'potere'. Dunque idea di potenza, ma anche di saggezza. Traduciamo mago con Wizard. Wizard deriva, come wise, 'saggio', dalla radice indeuropea weid-. Da cui il sanscrito veda: ‘io so’, ‘scienza’, ‘conoscenza’. Sempre dell'origine della conoscenza, della sua costruzione, parliamo.

Heidegger: la natura è physis. Physis porta in sé il senso profondo di 'entrare in un essere luminoso'. Di questo originario significato resta traccia in phainómenon, 'ciò che appare'. Al contempo, physis ci parla del processo creativo che genera l'opera d'arte. E, ancora, physis ci parla di poiesis: 'fare', 'portare alla luce'. Il fiore che sboccia dal germoglio e che si apre nel suo proprio essere (en eautō) è al tempo stesso realizzazione di physis e di poiesis. Passo ulteriore, physis ci parla di téchnē: la téchnē è in origine comprensione delle forme in cui si manifesta la natura, e quindi di come ogni forma, ogni costruzione di manufatti è manifestazione di conoscenza, è un conoscere finalizzato. Il termine che Heidegger usa per indicare l'autentica tecnologia è Entbergen. Il prefisso ent- connota cambiamento da una situazione precedente, negazione di una situazione esistente, passaggio di stato, allontanamento, privazione - come dire 'via da', fuori di'. Bergen sta per 'salvare', 'mettere al sicuro', ma anche: 'estrarre, recuperare'. Così, il verbo Entbergen e il sostantiv Entbergung rimandano a un duplice senso: 'rendere manifesto', 'rivelare' -è il disvelamento che i greci chiamavano alheteia e i romani veritas-, e al contempo 'custodire', 'proteggere' - arrivando fino al 'nascondere'.

Ciò che distingue e definisce ogni 'personal computer', e ciò che con più vicinanza distingue e definisce il mouse e il telefono cellulare -apparentati dal manifestarsi come prolungamenti della mano- è, nel linguaggio di Heidegger la Zuhandenheit. Per rendere l'ampiezza del senso del concetto, cito le traduzioni proposte in diverse lingue: essere-allamano, utilizzabilità, ser a la mano, ser ante los ojos, readyness-to-hand, handyness, utilisabilité.

Das Hämmern selbst entdeckt die spezifische 'Handlichkeit' del Hämmers. Die Seinsart von Zeug, in der es sich von ihm selbst her offenbart, nennen wir die Zuhandenheit. (…) Der nur 'theoretisch' hinsehende Blick auf Dinge entbehrt des Verstehens von Zuhandenheit. (Martin Heidegger, Sein und Zeit, (L'essere e il tempo), 1927, Terzo Capitolo, A, § 15)

E' il martellare stesso a svelare la specifica 'maneggiabilità' del martello. Il modo di essere usato, nel quale esso si palesa da se stesso, lo chiamiamo la sua Zuhandenheit. (…) Allo sguardo che guarda solo 'teoreticamente' alle cose fa difetto la comprensione della Zuhandenheit.

L'utilità -Dienlichkeit (con riferimento al 'servizio'), Beiträglichkeit (con riferimento al 'contributo'), Verwendbarkeit (con riferimento all''uso'), Handlichkeit (con riferimento alla 'maneggiabilità')- appaiono a partire dall'uso, e si riassumono nella Zuhandenheit. Seguendo Heidegger, possiamo dire che le cose, pragmaticamente, si definiscono nell'uso. La cosa è Zeug, espressione che sta genericamente per 'materia', 'roba', ma anche per 'arnese', 'utensile', 'strumento', 'equipaggiamento'. Non conta la cosa in sé, conta la cosa esperita nella quotidianità, in una situazione. Oppure meglio, la generica cosa inizia ad apparirci strumento finalizzato nel momento in cui lo usiamo.

Alla luce della Zuhandenheit, ci appare evidente la miseria della web usability di Jakob Nielsen. Nielsen esordisce con una condivisibile affermazione: “chi ha in mano il mouse decide tutto”. Con un click, con un semplice gesto della mano, posso scegliere di allontanarmi da questo sito, da questo luogo di conoscenza. In risposta a questa libertà, Nielsen chiama usability il tentativo di reprimerla. Ci viene spiegato che, affinché chi si muove liberamente nel Web non se ne fugga altrove, i siti debbono essere chiari e coerenti, devono permettere una navigazione semplice ed efficace, devono mantenere quello che promettono e non mettere mai in situazioni da cui non si sappia come uscire. Ma non è così che si avvicina il libero navigatore, l'autonomo costruttore d i conoscenza, non così si stimola a soffermarsi in questo luogo: perché quello che è per me ora chiaro e coerente, semplice ed efficace, non lo è per te. Io voglio vendere, tu vuoi comprare. Io voglio perdermi per poi ritrovarmi dopo un viaggio che mi ha imposto di scoprire qualcosa di nuovo su me stesso. Tu magari vuoi camminare in linea retta, limitandoti ad andare da qui a lì. Tutti atteggiamenti rispettabili – ma che, nella loro differenza, rendono vana l'illusione che possano esistere strumenti che a tutti, ed in ogni situazione, appaiano facilmente usabili, sempre adeguati. L'utensile universale, il coltellino svizzero multiuso, è uno strumento povero. L'usabilty, sostiene Nielsen, “rivela come il mondo funziona”. Rovescio l'assunto di Nielsen affermando che rifiuto l'usabilità di Nielsen, perché l'usabilità di Nielsen 'impone il modo di muoversi nel mondo'.

Per questa via si finisce per imporre un modo di usare definito a priori. Si assume come punto di partenza una visione metafisica dello strumento: il suo scopo è dato a priori, si deve solo imparare ad usare. Si assume che a persona al lavoro sia poco abile, e debba essere istruita, ovvero addestrata ad usare lo strumento come vuole, come ha già pensato il progettista, il programmatore, il gateekeeper. Il progettista pretende d i sapere meglio dell'utente, della persona al lavoro, in che condizioni lavorerà, e quindi prevede quali strumenti dovrà usare e come dovrà usarli. Ma la pretesa dell'esperto, dello specialista, di sapere meglio dell'altro, e meglio della persona al lavoro, è hybris, è arroganza del potere. Nasconde la volontà di controllo. Heidegger ci aiuta a vedere l'inefficacia di questo atteggiamento, la sua vanità dal punto di vista della persona al lavoro. Solo io qui ed ora essendo in situazione posso sapere cosa mi serve. Perciò i migliori degli strumenti possibili non sono gli strumenti pensati da un esperto di ergonomia, da un designer o architetto, in base ad una astratta idea di uso, sono Zeug, strumenti che prendono senso mentre li si usa. Il computer è un buon computer se posso imparare ad usarlo per tentativi ed errori. Se posso via via più finemente 'personalizzarlo'. Il computer, inteso come macchina per pensare, è una buona macchina se è plastica, adattabile alle mie esigenze e alla situazione. E' una buona macchina se è adeguata ad accoppiarsi strutturalmente con me, persona diversa da ogni altra. Per usare le parole di Humberto Maturana: la migliore scarpa, per me, non è la scarpa più nuova, magari 'tecnologicamente avanzata', è la scarpa vecchia. Il piede e la scarpa si adattano nel corso del tempo, più è stretta e frequente l'interazione, più si adattano reciprocamente. Ma c'è la scarpa progettata per adattarsi. E c'è la scarpa progettata per non piegarsi al mio modo di essere. La macchina è la migliore delle macchine possibili se valorizza la mia diversità, non se mi impone un uso razionale, economico, 'corretto'.

lunedì 3 agosto 2009

Per una fenomenologia di Microsoft Office

Office
Guardiamo dentro la suite di utensili che Microsoft di ci ha abituati a chiamare Office.
Suite: 'a group of related things intended to be used together, a set'. Utensili di base che stanno sulla scrivania, tavolo, o desktop, a portata di mano della persona al lavora. La denominazione è pertinente: in latino officium : 'lavoro, dovere,' carica', da opificium: opus facere, 'fare l'opera'.
Opus risale all'indeuropeo opos (in sanscrito apas); dalla stessa radice il verbo germanico da cui il tedesco üben, 'esercitare'. L'opus è al centro di un'area semantica vasta e diversificata, ma sempre legata all'idea centrale del lavoro umano e del suo frutto. C'è una idea di dovere morale, di compito legato a un mandato, a un incarico, a un'incombenza. C'è l'idea del favore e del servigio, i 'buoni uffici'. C'è l'idea del luogo dove si svolge il lavoro. C'è l'idea dell'organizzazione, dell'articolazione burocratica, della funzione aziendale: 'l'ufficio vendite'. C'è anche l'idea di preghiera, funzione religiosa: 'l'ufficio divino', 'l'ufficio funebre'.
C'è, con la parola scritta in maiuscolo, l'idea del controllo e della censura, del Gatekeeping: il Sant'Uffizio, che è la Congregazione per l'Inquisizione istituita da papa Paolo III nel 1542, dal 1965 Congregazione per la Dottrina e per la Fede. L'Office di Microsoft non è, nelle intenzioni, l'Ufficio inteso come controllo. E' il 'posto di lavoro attrezzato' per il lavoro d'ufficio, per il lavoro che si svolge nel luogo comunemente chiamato ufficio. In inglese già attorno al 1250, office sta per 'a post, an employment to which certain duties are attached'.
Osserviamo ora, uno per uno, gli strumenti che Office ci mette a disposizione. La questione non è certo irrilevante: lavoriamo con questi strumenti, di fatto godiamo della libertà che questi strumenti ci garantiscono. Il tornio è uno strumento che è diventato semplice 'a furia di usarlo', l'usabilità non è frutto di un progetto, ma è frutto dell'uso. Con Office, invece ci troviamo ad usare strumenti progettati da un artefice, l'usabilità dello strumento è conseguenza dell'astratta idea di lavoro che era nella mente del progettista

Word
Guardo ora a come funziona Word: non è il migliore dei word processor possibili. E comunque, non è troppo lontano dallo strumento liberante che ci aveva mostrato Engelbart in quel giorno del dicembre 1968. Nel lavorare in sintonia con la mia mente, lasciando traccia di quello che sto pensando, Word mi offre enormi opportunità.
Questo modo di scrivere che ci è diventato ormai usuale, così diverso dal vergare segni su carta. “Word processing beginning with blank piece of paper”, dice Engelbart, ed è chiaro che non ci sta parlando del lavoro del copista, della segretaria: ci sta parlando di come, attraverso la scrittura, alimentiamo il pensiero e costruiamo conoscenza.
E qui, ora, ci mostra come questa scrittura che appare fluida sullo schermo sia diversa da quella che conoscevamo. Prima, con la parola scritta su carta, dovevamo sottostare al vincolo di ciò che è già scritto: si può su carta inserire una correzione interlineare, si può cancellare. Ma la possibilità cozza con limiti tecnici. Si arriva a rendere illeggibile il testo già scritto. Si è costretti a ri-scrivere. Il testo che appare sullo schermo, invece, è fluido, sempre modificabile, sempre in fieri non c'è vincolo tecnico al cut and paste. Solo così -per approssimazioni successive, per tentativi ed errori- la scrittura può seguire liberamente il processo di costruzione di senso che ho in mente. La scrittura, così, libeta dai vincoli imposti dalla limitazione degli strumenti -penna, foglio- si riavvicina al senso generalizzato e profondo della creazione dell'opera: lavoro con strumenti su materia grezza, creo la forma. Così con gli utensili di Engelbart la massa, il pensiero che ho in mente, prende forma sotto le nostre dita poste sulla tastiera, attraverso il palmo della mano che avvolge il mouse.
Non posso non emozionarmi vedendo Engelbart che mostra per la prima volta come si fa: scrive word, word, word, le parole che parlano di parole si spostano nello schermo, scompaiono e riappaiono in luoghi e in organizzazioni diverse.
E la macchina conserva in memoria per noi: conserva una versione del testo, e intanto permette di cambiarla. Il file non è il testo che ho in mente, il testo inteso nelle sue potenzialità e nella sua possibile vita. E' una versione conservata, archiviata.
Il testo che ho in mente può manifestarsi in scrittura sequenziale, ma anche sotto altre diverse forme non-lineari: lista di parole, rete di concetti.

Excel
Guardo a come funziona Excel. Non mi importa la specifica differenza rispetto ad altri spreadsheet: ciò che è importante osservare è la novità insita nello spreadsheet, o foglio elettronico. La novità è paragonabile alla novità del word processor. Forse per certi aspetti più significativa. Se il word processor è lo strumento per scrivere con le parole, lo spreadsheet è lo strumento per scrivere con i numeri. Non a caso lo strumento è pensato negli stessi anni Sessanta, parallelamente al word processor.
Questa tabella, di dimensione potenzialmente infinite, è inizialmente usato per insegnare finanza in ambito universitario. Ma mi pare chiara la discendenza dello spreadsheet dai cellular automata di Von Neumann. L'esperimento, che doveva mostrare il manifestarsi della vita, era descritto facendo riferimento a una "regular grid of cells". Ogni cell , in base alle proprie caratteristiche, sempre in via di evoluzione, influenza l'ambiente circostante e il complessivo sistema. Ogni cell può essere intesa come 'centro'. Cell, in inglese, sta sia per cellula, 'unità elementare della materia vivente', e anche per cella del foglio elettronico.
L'automa cellulare va nella direzione dell'Intelligenza Artificiale: vuole mostrare come nascono e si evolvono i monti virtuali. Ora, lo spreadsheet accetta l'idea di partenza, ma propone un percorso che non esclude l'uomo. Non intelligenza artificiale, ma intelligenza manifestata dall'accoppiamento strutturale di uomo e macchina. La mente umana è in grado di pensare sempre nuovi algoritmi, lo spreadsheet accresce esponenzialmente la capacità di verificare gli effetti dell'algoritmo sul sistema. Ciò che essenzialmente questo strumento permette di fare, è il lavorare verificando gli effetti di diverse scelte. 'Se faccio così, il sistema si evolverà e si adatterà in questo modo'.
Si dice che lo spreadsheet permette di lavorare 'per simulazione'. Ma questo modo di vedere mi pare riduttivo e fuorviante. Se per simulazione si intende il ricorso a un modello matematico, ad una rappresentazione, che corrisponde ad una lettura del mondo, lo spreadsheet non ha niente a che fare con la simulazione. Lo spreadsheet, invece, non rappresenta il mondo attraverso un modello dato a priori. Lo spreadsheet accoglie dati elementari, e permette istante dopo istante di far emergere un modello di lettura. Più che di simulazione, parlerei quindi di sperimentazione, o meglio del 'fare esperienza'. Latino experiri, ex perior, 'io provo', provo, istante dopo istante, per tentativi ed errori a 'portar fuori', 'portare alla luce', conoscenza.
Non una macchina chee mi indica una via, ma una macchina che mi aiuta a scegliere la via.
Perciò lo spreadsheet come il word processor ed il motore di ricerca, appare esemplare utensile messo a nostra disposizione dal Personal Computing.

Power Point
Ma la scatola di Office non contiene solo Word e Excel. Contiene altri due utensili che ci appaiono, al contrario del word processor e dello spreadsheet, strumenti pericolosi e fuorvianti.
Power Point, così come i consimili presentation program, non serve a costruire conoscenza. Anzi, nega l'idea di costruzione.
La presentazione pre-parata tramite Power Point è negazione dell'esserci. Mentre scrivo con il word processor (come in questo istante) sono qui ed ora, sono in sintonia con i tempi e i modi della mia mente. Invece, mentre preparo una presentazione in Power Point non sono qui ed ora: sto immaginando una situazione futura, che mi propongo di imporre a un pubblico. Ma non sono neanche lì, nel momento in cui converserò con altre persone. Ora, preparando la presentazione, sto preparandomi a non essere effettivamente lì nel momento in cui saremo insieme. Sto creando le condizioni per non esserci.
Heidegger parlava di Dasein. Sein è 'essere'; da sta per spazio, luogo che contempla sia l'immediatezza del 'qui' che la distanza descritta dall'italiano 'lì'. Per indicare questa ambiguità di senso, in italiano è invalsa la traduzione esserci. Il ci non sta a indicare una mera localizzazione spaziale, ma qualcosa di più ambiguo e complesso: ci parla di come l'Essere è presente; 'come si sta' nel momento, 'cosa si prova'.
Ecco: Power Point è strumento che permette di eludere l''essere presente, 'l'esserci'. Con Power Point preparo l’annullamento dell’esserci. Non ci sono ora mentre sto lavorando alla presentazione, non ci sono quando erogo la presentazione.
Se usa Power Point, lasciandosene guidare, la persona che parla guardando in faccia i presenti, non osserva sul volto e nei gesti le loro reazioni. Con l'uso di Power Point scompare il narratore che costruisce la narrazione in funzione dell’uditorio.
C’è, in sostituzione, un programma che detta il ritmo e contiene ciò che deve essere detto. La persona che usa Power Point è in realtà al servizio di Power Point: riduce il suo ruolo a servitore della macchina: schiaccia il tasto, mostra chart dopo chart un testo chiuso e messo in sequenza.
Né può esserci ascoltatore partecipe. I presenti sono ridotti a fruitori – più passivi sono meglio è.
La conoscenza, che nasce nell’atto, è esclusa dalla scena. Al suo posto, una rappresentazione. Che dovendo andare bene per tutti, non va bene per nessuno.
Dunque, mentre Word e Excel mi aiutano ad esserci, mi stimolano ad esserci, contribuiscono al mio esserci, Power Point mi permette di non esserci. Anzi, mi impone di non esserci, e giustifica il mio non esserci.
Se il lavoro è costruzione di conoscenza, se la conoscenza efficace emerge nel qui ed ora, e se il Personal Computer lavora con me a costruire conoscenza, Power Point è un attrezzo inutile. Anzi, dannoso.

Access
Infine, Access. Già l’idea dell’accesso è poco felice. Il tema dell’accesso si pone in un contesto dominato dal Gatekeeper: qualcuno controlla chi può accedere alla conoscenza e chi no; qualcuno controlla se posso accedere alla conoscenza, o no. Il tema non dovrebbe aver motivo di esser posto dove si tratti di una macchina personale, accoppiata strutturalmente alla mia mente: nessuna barriera di accesso si pone tra me e me.
Il fatto è che Access appartiene a una precisa classe di strumenti software: è un Data Base Management System (DBMS), è uno strumento per costruire Data Base. Il Data Base è una idea che porta in sé un doppio vincolo. Primo vincolo: la conoscenza è possibile solo se è dato, prima di tutto, un modello che la descrive. Secondo conseguente vincolo: la conoscenza si costruisce in un mondo che sta fuori dal dominio delle persone. (Siamo sempre nei pressi dell’a priori kantiano).
Ciò che trasforma materia grezza in conoscenza è -se prendiamo per buono questo punto di vista-, il modello. L’informazione che viaggia lungo il canale, che è in origine mero rumore, dato grezzo, si manifesta come conoscenza se, e solo se, passa al vaglio dei criteri di giudizio previsti dal modello.
Il Data Base, dunque, è strumento per costruire 'sistemi informativi' estraniati, alienati. Di tutti e di nessuno.
Non a caso il Data Base si afferma negli anni Sessanta del secolo scorso. Ma no è, come il word processor e lo spreadsheet, un utensile al servizio dell'uomo che sta lavorando. Il Data Base, all'opposto, è un fondamentale elemento dello stesso progetto cui appartengono il Mainframe -macchina totalizzante intesa come modello organizzativo di ciò che si deve sapere e si deve fare- e l'Intelligenza Artificiale -intesa come alternativa alla mente umana-.
Il Data Base, come aveva insegnato già Linneo, si fonda su una descrizione del mondo assunta come buona una volta per tutte. Di conseguenza classifica gli enti. Impone quindi alle persone di assoggettarsi a questo criterio di classificazione. Possiamo anche chiamare il contenuto di questi sistemi informativi conoscenza, ma non è la conoscenza legata al soggetto.
Se intendiamo il Persona Computer come macchina al servizio della persona, trovare dentro la scatola di Office un utensile pensato per imporre questo modo di lavorare, è un paradosso. Ma è anche la conferma di un assunto: per ogni Gapekeeper, il miglior modo per garantire un controllo è aver instillato nelle menti il tarlo dell'autocontrollo. La miglior censura è l'autocensura.
Le distorsioni provocate da Access nel personale processo di costruzione di conoscenza, sono dunque altrettanto gravi delle distorsioni provocate da Power Point. Ciò che consola, è che quasi nessuna persona al lavoro sceglie spontaneamente di usare Access.

Dunque, nettamente, da una lato Word e Excel, dall'altro Power Point e Access. Dentro al scatola di Office, due diverse, opposte, maniere di intendere il computing.

martedì 28 luglio 2009

I limiti dell'informazione

L'idea di informazione si fonda sulla centralità della circolazione. L'informazione sta nel canale, è misurata lungo il canale. Esiste lungo il canale: i dati viaggiano lungo il canale. Né la 'fonte' né il 'destinatario', hanno alcuna autorità sull'informazione.
L'arbitrarietà dei segni secondo Saussure, così come la poetica del messaggio di Jakobson si fondano sulla centralità dell'informazione. Anche Mc Luhan, il medium è il messaggio, sta su questa strada.
La costruzione di senso, secondo questo approccio, non sta nei soggetti, o nei luoghi da dove li dati provengono. Sta lei luoghi dove i dati, lungo il canale vengono filtrati dai gatekeeper, ovvero: vengono interpretati rispetto ad una chiave di lettura, e quindi intesi come informazione. Parlare di input e di output, in fondo, è ancora parlare di informazione e di canale. Input e output non sono che due manifestazioni del gatekeeping. Lì si realizza una transazione, un passaggio di stato, lì si decide 'cosa vuol dire' l'informazione. La transazione è una legittimazione operata dal gatekeeper.
Con tutto questo, siamo all'interno di un sistema, di una Gestalt, dove ciò che conta è l'equilibrio complessivo, il tutto. Le parti non sono che parte del tutto e non hanno in fondo identità. La loro identità è determinata dall'appartenenza al tutto.
Il Broadcasting, in questa luce, ci appare un modello semplificato del sistema inteso come totalità organizzata. L'antenna -come la garitta centrale nel Panopticon di Bentham- simboleggia l'idea centrale - non è ridondante ripetere qui il qualificativo: centrale. L'idea centrale è il controllo. Se il sistema è un sistema 'vivente' sarà più difficile da controllare, ma il tema del controllo resta al centro dell'attenzione.
Si guarda al canale, si vedono unità minime, pacchetti che lungo il canale viaggiano. Al centro dell'attenzione sta l'informazione che viaggia lungo il canale. Informazione che si vuole interpretabile attraverso un codice definito dal gatekeeper, codice del quale nulla sanno fonte e destinatario, codice sul quale fonte e destinatario non possono influire. misurabile, assoggettata a un controllo, letta in base a un criterio di codifica e di decodifica.
E' l'ottica che si può far risalire a Leibniz e Linneo, e e poi del Kant della Ragion pura, ottica che in tempi moderni rinasce come costrutto ingegneristico e statistico, “communication engineering”, l'ottica di Wiener e di Shannon, per i quali l'unica conoscenza praticabile è la mera informazione “a statistical theory of the amount of information in which the unit amount of information was that transmitted as a single decisions between equally probable alternatives”.
Ora ci appare chiaro che questa stessa ottica è stata assunta come propria, in nome della modernità, da semiologi, studiosi di mass media, linguisti.
In questa ottica, domina uno strumento: l'universal symbolism. Si cerca un linguaggio simbolico che permetta descrizioni a prova di equivoco. Boole, Frege, Russel e Wittgenstein in modi differenti percorrono questa strada. L'obiettivo è attingere il “calculus of reasoning”.
In questa ottica, si capisce come la ridondanza sia l'orrore, il peccato. L'occupazione dello spazio di circolazione lungo i canali deve essere razionalizzato. L'informazione che non corrisponde esattamente al criterio di giudizio previsto dalla codifica è intesa come priva di significato. Non le sarà quindi garantito l'accesso. Ovvero, l'accesso concesso all'informazione spuria è intesa come difetto del sistema. Si intende come obiettivo generale -prevalente rispetto all'interesse delle persone coinvolte nel gioco- l'eliminazione dei difetti. La qualità del sistema si misura statisticamente come diminuzione dei difetti. Qualità e difetti definiti tali non certo dalle persone coinvolte nel gioco, ma dai gatekeeper: ingegneri di telecomunicazioni organizzatori del lavoro (non importa se tayloristi o toyotisti), informatici orientati alla strutturazione delle informazioni, critici letterari ed editor interpreti del mainstream.
C'è spazio solo per l'informazione ben codificata all'ingresso del canale, non può che esistere che una informazione. Il resto è rumore, inutile occupazione di spazio. Non c'è spazio per varianze e scostamenti dalla norma. Per dire meglio: le manifestazioni della vita degli organismi viventi, i modi di essere, sono magari accettati, degni di essere conservati magari in una Wunderkammer, in un Cabient de Curiosités, ma in ogni caso intesi come devianza, scostamento dalla norma. Il trionfo del controllo, appunto.

venerdì 17 luglio 2009

"Se trovo una voce di Wikipedia che secondo me non va bene, faccio quello che posso per migliorarla"

Invece di parlare, spesso a vanvera, dell'alta cultura offesa dall'inattendibilità di Wikipedia, sarebbe sensato ragionare così: "Se trovo una voce di Wikipedia che secondo me non va bene, faccio quello che posso per migliorarla".
Personalmente, sono davvero stufo di sentir ragionare sui limiti di Wikipedia. Certo, meglio Wikipedia in inglese. Ma le resistenze ed i pregiudizi di chi critica Wikipedia, non a caso, non riguardano solo l'edizione italiana. Prendiamo dunque per buono il solito confronto tra l'Encyclopaedia Britannica e Wikipedia in inglese.
Si dice che l'Encyclopaedia Britannica è autorevole, scritta dai più rinomati esperti. Non metto in dubbio la grande qualità di questo monumento della cultura - nonostante, come è noto, l'opera sia stata oggetto di fondate critiche. Non considero qui il vantaggio di una enciclopedia on line rispetto ad una enciclopedia cartacea: facilità di aggiornamento, facilità di ricerca, possibilità di puntare a quello che veramente mi serve sapere ora, andando a mirare con il motore di ricerca anche all'interno di una singola voce. Non considero neanche vantaggioso il costo zero per chi consulta: ora, almeno entri certi limiti, si possono consultare gratuitamente voci dell'Encyclopaedia Britannica – e potrebbe anche darsi che in futuro imprescindibili esigenze di copertura dei costi rendano più stringente la richiesta di sostegno a Wikipedia.
Restano, al di là di tutto questo, abissali differenze.L'Encyclopaedia Britannica, frutto di una tradizione millenaria, si fonda sull'idea dell'autorità. L'autorevolezza, non più presa pigramente a scatola chiusa, appare come problematica autorevolezza. Ho motivo di fidarmi davvero del Grande Fratello onniscente che ha attribuito al miglior esperto del mondo il compito di redigere la voce dell'enciclopedia? Come si fa a s coprire chi è il miglior esperto, il più accreditato? Non è forse il sapere in continua evoluzione? Come posso fidarmi del fatto che l'autore citi rispettosamente l''opinione di minoranza', cioè l'opinione diversa, che non condivide? Ci ricordiamo come ci appaiono ridicole affermazioni scientifiche condivise dai maggiori esperti – ma poi superate? Ogni enciclopedia dell'inizio del Novecento dava per scontato che il futuro del volo umano stava nel 'più leggero dell'aria', nei dirigibili: abbiamo visto come è andata a finire. Insomma, l'autorità ci toglie ogni responsabilità – ma non per questo ci dà garanzie di certezza e di verità.
Wikipedia non è migliore. E' diversa. E ci offre possibilità di avvicinarci ad una efficace costruzione di conoscenza che l'Encyclopaedia Britannica non può darci. Qui l'autorevolezza non sta nelle menti di singoli esperti. Sta nell'interesse condiviso a costruire conoscenze utili. Invece di cercare il miglior scienziato specialista della tal cosa, invece di affidargli il compito di scrivere ciò che tutti non potranno che leggere, possiamo fare così: uno scrive una prima versione, e poi gli esperti, con lo scopo di contribuire ad una risorsa collettiva, utili a tutti, lavorano su quel testo, migliorandolo. L'anonimato, così, diventa una garanzia di qualità più di quanto lo sia l'esplicitazione del nome. Così è escluso il narcisismo, l'esibizione. Così mi metto in gioco per quello che scrivo, non per il potere che ho, e che magari rende difficile agli altri criticarmi. (Non a caso gli articoli, sulle riviste scientifiche più serie, sono scelti da giudici che non si conoscono tra loro, e che non conoscono il nome dell'autore).
Insomma, Wikipedia prefigura un nuovo modo di costruire conoscenza - alternativo al modo che ci propongono la tradizionale scuola, il tanto amato libro. Non migliore o peggiore, ripeto, ma diverso.
Dovremmo abituarci ad abitare più pienamente questo 'nuovo mondo'. Nel quale siamo tutti produttori di conoscenze. Almeno su un qualche argomento, ognuno di noi ne sa quanto l'autore della voce dell'Encyclopaedia Britannica, o di più. Se trovo nell'Encyclopaedia Britannica una voce che secondo me non va bene, non posso fare altro che arrabbiarmi. Se trovo una voce di Wikipedia che secondo me non va bene, posso migliorarla.
Chi l'ha detto che la creazione di conoscenza deve essere monopolio di pochi. Erano in pochi a creare conoscenza, perché le tecnologie -scuola, libri- impedivano di fare altrimenti. Oggi, questo vincolo non esiste più. Invece di perder tempo a dire che le conoscenze che ci sono nel Web non sono 'certificate', usiamole. Impariamo a muoverci in questo mondo. Si può ben imparare a capire di cosa fidarci e di cosa no. Si può imparare a dire la nostra opinione sulle fonti buone o meno buone.

Nota. La migliore descrizione a me nota della vicenda di Wikipedia sta in: Jonathan Zittrain, The Future of the Internet, Yale Univeerrsity Press, 2008, Penguin Books 2009, Part II: After the Stall, 6: The Lesson of Wikipedia, pp. 127-148.

giovedì 9 luglio 2009

Babbage e le sue macchine

Visionario
A Londra, nel 1800, vive e pensa e inventa un eccentrico genio che vede oltre. Serve un salto di oltre cento anni per ritrovare altri uomini che riprendano le fila di quel pensiero, di quell'approccio.
Figlio di un banchiere, da ragazzo prova disgusto per le materie umanistiche e invece passione sfrenata per la matematica.
Nell'ottobre 1810, diciannovenne, Charles Babbage entra al Trinity College di Cambridge. E' consapevole di possedere allora un “very moderate amount of mathematics”. “Looked forward with intense delight”, spera in un insegnamento che però non trova, perché i professori lo deludono.
Chiede spiegazione dei propri dubbi, ma sempre il docente al quale di volta in volta si rivolge “knew nothing of the matter, although he took some pains to disguise his ignorance”. Così studia da solo Newton, Leibnitz, Lagrange, Lacroix, “and devoured the papers of Euler and other mathematicians, scattered through innumerable volumes of the academies of Petersburgh, Berlin, and Paris, which the libraries I had recourse to contained”.
Così nel 1812 Babbage ed altri nove studenti, tra cui John Herschel e George Peacock, sostenuti dall'unico professore che rispettano, Robert Woodhouse, fondano la Analytical Society.
Per ragioni sia scientifiche che politiche, in Gran Bretagna, coperti dal genio di Newton, ci si rifiutava allora di tener conto delle 'scuole continentali'. e in special modo dal 'calcolo analitico' di Leibnitz. E Woodhouse, non a caso, era costretto ai margini dell'accademia perché non dava per scontato il paradigma newtoniano.
Non è questo il luogo per entrare nell'annosa ed accanita polemica riguardante la scoperta del calcolo infinitesimale. Non importa sapere chi sia arrivato prima, tra Newton e Leibnitz, né chi abbia pubblicato per primo. Quello che conta è ricordare l'attinenza del calcolo infinitesimale -e in particolare di quel settore del calcolo infinitesimale che chiamiamo calcolo differenziale- con la costruzione di conoscenza. Il calcolo differenziale ci parla di avvicinamento al limite. Con il calcolo differenziale, presumiamo che il risultato di un certo processo logico sia vero, in virtù di una approssimazione del ragionamento: è possibile cogliere, e descrivere matematicamente, l'andamento del fenomeno. Il moderno approccio 'matematico' alla conoscenza passa da qui.
L'apertura mentale di Babbage, ciò che infastidiva i suoi insegnanti, è la sua forza: ben oltre le diatribe tra pensiero inglese e pensiero continentale, coglieva la novità. Ragionava senza confini. In un momento in cui le macchine iniziavano ad accompagnare l'uomo in ogni attività, quando addirittura non si sostituivano all'uomo, gli viene naturale immaginare, o sognare, una tecnologia: ovvero la costruzione di una machinery to the computation.
Siamo ancora nel 1812:

I was sitting in the rooms of the Analytical Society, at Cambridge, my head leaning forward on the table in a kind of dreamy mood, with a table of logarithms lying open before me. Another member, coming into the room, and seeing me half asleep, called out, "Well, Babbage, what are you dreaming about?" to which I replied "I am thinking that all these tables" (pointing to the logarithms) "might be calculated by machinery".

Seduto nella sede della Società Analitica, la mente semidesta, di fronte a sé una tavola
di logaritmi aperta sulla scrivania. Qualcuno entra e vedendo Babbage mezzo addormentato grida: “Ma cosa stai sognando?”. E lui, indicando quelle pagine, colonne e colonne di numeri: “Sto pensando che tutte queste tavole potrebbero essere calcolate da una macchina”.
Senza che Babbage cessi di pensare alla sia macchina, passano dieci anni. Il 14 giugno 1822, avendo bene in mente le macchine per calcolare di Wilhelm Schickard, Blaise Pascal, and Gottfried Leibniz, ma anche ben consapevole della novità della sua idea, presenta alla Royal Astronomical Society una Note on the application of machinery to the computation of astronomical and mathematical tables .

Fabbricare conoscenza
Il progetto per costruire il Difference Engine è approvato, e finanziato dal governo.
Era una macchina ad ingranaggi. Ma i materiali non erano abbastanza buoni per resistere all'attrito. La macchina vibrava paurosamente. I meccanici non comprendevano lo scopo del lavoro. E Babbage, mente fertile, modificava continuamente, in corso d'opera, il disegno. Passano così dieci lunghi anni. 17.000 sterline sono spese senza arrivare ad un prototipo funzionante. Il governo sospende il finanziamento. (Oggi sappiamo che il progetto era buono, e che la macchina, costruita con altri materiali, avrebbe potuto funzionare).
Ma Babbage non demorde. Pensa ora ad un Analytical Engine. La nuova macchina va ben oltre i limiti del Difference Engine, macchina specializzata nelal tabulazione di logaritmi e funzioni trigonometriche. La nuova macchina è a tutti gli effetti il primo computer general purpose mai progettato. O forse, qualcosa di più: nelle intenzioni, una macchina che non si limita a svolgere calcoli matematici, non solo un computer, quindi, ma invece una macchina in grado di elaborare complessi 'ragionamenti'.
Andando oltre le macchine calcolatrici di Schickard, Pascal e Leibniz, Babbage prende spunto dal grande sviluppo che aveva avuto l'orologeria nel Settecento. E si richiama l'arte degli automi. Jacques de Vaucanson, genio della meccanica, aveva costruito il canard digérateur, il fluteur automate, ma nominato Inspecteur général des manufactures de soie nel 1741, applica macchine di produzione le tecniche che aveva sviluppato per realizzare quelle ingegnose macchine da salotto. Diretto continuatore del lavoro di Vaucanson è Joseph Marie Charles, detto Jacquard, tessitore e inventore. Il suo telaio, entrato in produzione nel 1801, rivoluziona l'industria tessile. Tessuti dal disegno complesso, dai numerosi colori -broccato, damasco- possono essere prodotti in serie, perché l'abilità del tessitore è codificata in schede perforate (punched cards). Le schede perforate, e non più il tessitore, guidano gli apparati meccanici.
La singola macchina acquista un nuovo senso. Ma non solo: può essere totalmente ripensata organizzazione della fabbrica, non più manifattura, e invece sistema integrato di risorse umane e non umane.
Anche in questo campo Babbage è un precursore. Pubblica nel 1832 On the Economy of Machines and Manufactures, un'opera che, letta oggi, ci appare evidente anticipazione di Marx e di Taylor.
Babbage è citato a più riprese nel Capitale. Ma credo che siano i Grundrisse il luogo marxiano dove permangono le tracce più significative del suo pensiero. I Grundrisse sono per noi interessanti per la loro natura di appunti, di quaderni di lavoro, testo emergente: scrivendo, libero ancora dalla necessaria pulizia della stesura finale, Marx sta pensando. Le idee nascono qui, qui ci è dato osservare Marx mentre sbroglia il suo groviglio. Possiamo immaginarlo nella main reading room della British Library, seduto ad un tavolo sommerso tra libri, e tra questi Machines and Manufactures.
Ne ritroviamo le tracce nei Grundrisse, nelle pagine dedicate al macchinismo. L'abilità, del tessitore è codificata nella scheda perforata. Qui sta il passaggio chiave che ci permette di avvicinarci a comprendere come le conoscenze e le competenze delle persone al lavoro, portate fuori dal loro dominio, divengono risorsa astratta.
“Il sapere sociale generale, il knowledge”, è trasformato così “in forza produttiva immediata”. Così, annota Marx, il “processo vitale della società” passa “sotto il controllo del General Intellect” e “viene rimodellato in accordo con esso”. General intellect: diremmo oggi intangible asset, software.
L'indubbio genio di Marx resta il genio di un filosofo, di un economista. Marx studia, si applica. Babbage conosce invece per esperienza diretta quegli antri rumorosi che sono le nuove fabbriche, unico organismo, macchina di macchine. Così dietro il General Intellect non posso non cogliere il potente pensiero di Babbage.

The arrangements which ought to regulate the interior economy of a manufactory, are founded on principles of deeper root than may have been supposed, and are capable of being usefully employed in preparing the road to some of the sublimest investigations of the human mind.

Arrangements ci parla di 'disposizioni organizzative', ma anche di 'programmi'. C'è di più: Babbage -mi sembra- pensa a una fabbrica intesa non come orologio, sistema meccanico di ingranaggi. Pensa ad un sistema vivente, adattivo.
Il processo vitale della fabbrica, dunque, si fonda su principi che hanno una radice più profonda di quanto si poteva supporre, principi che aprono nuove all'investigazione della mente umana.

Progetto
L'idea dell'Analytical Engine l'idea, pur evidente per la mente vulcanica dell'inventore, fatica a prender corpo in un progetto.
Babbage descrive la macchina in un paper, datato 26 dicembre del 1837, On the Mathematical Powers of the Calculating Engine, ma il testo resta in un cassetto.
Nel 1840 Babbage, invitato dall'astronomo Giovanni Piana, è ospite a Torino, presso l'Accademia delle Scienze, del secondo Congresso degli Scienziati italiani. Qui parla con trascinante entusiasmo della sua macchina. Il tema appassiona, la discussione prosegue in seminari: si parla di concatenamento delle operazioni, potremmo dire oggi di programmazione. Partecipano tra gli altri il fisico Ottaviano Mossotti e l'ingegnere Luigi Menabrea. Due anni dopo Menabrea (che sarà poi generale garibaldino e Primo Ministro del Regno d'Italia) pubblica in francese una sintetica, ma attenta descrizione del progetto.
Per fortuite circostanze l'articolo di Menabrea capita nelle mani di Ada Lovelace, che lo traduce in inglese. Ada è figlia di Lord Byron – poeta e uomo politico, di costumi all'epoca giudicati scandalosi. La madre Annabella Milbanke, baronessa, dedita a studi di matematica, in opposizione alla paterna formazione letteraria, aveva accuratamente condotto la figlia verso studi scientifici. Ada studia matematica, il calcolo differenziale la appassiona. Diciassettenne, conosce Babbage negli ambienti della buona società. Dieci anni dopo, quando inizia la primavera, torna da lui con la traduzione dell'articolo di Menabrea.
Un fitto scambio di lettere, e numerosi incontri, tra la primavera e l'estate del 1843, portano ad una nuova versione del testo di Menabrea, più che raddoppiato in lunghezza. Le Notes appaiono nel settembre nelle sScientific Memoirs di Richard Taylor, rivista specializzata nella traduzione di articoli scientifici. La disputa su quanto sia farina del sacco di Ada, e quanto sia dovuto a Babbage, è tutt'oggi accanita.
Comunque, è questo testo a parlarci, attraverso parole, anche poetiche, di questa enorme struttura composta da venticinquemila mila parti, eppure macchina al servizio dell'uomo, strumento programmabile, in grado di agire in base a delle istruzioni generali.

The Analytical Engine weaves algebraical patterns just as the Jacquard loom weaves flowers and leaves.

The engine, from its capability of performing by itself all those purely material operations, spares intellectual labour, which may be more profitably employed. Thus the engine may be considered as a real manufactory of figures.

La macchina, in virtù della sua capacità di svolgere da sé le operazioni puramente materiali, risparmia lavoro intellettuale, le capacità umane possono così essere più proficuamente impiegate. La macchina può essere considerata come una vera e propria 'manifattura di simboli'.
La 'macchina per la manipolazione di simboli', di cui cent'anni dopo parlerà Alan Turing, è già qui.
Babbage, come Turing, è innanzitutto un matematico. Ma più di Turing è visionario, e forse vede più lontano. Turing guarda al confine tra uomo e macchina – chiedendosi in fondo quando la macchina può vantaggiosamente prendere il posto dell'uomo. La sua intelligenza artificiale è sostitutiva. Babbage, mi pare, vede sempre l'uomo al centro. La sua intelligenza artificiale è espansione delle potenzialità dell'uomo impegnato nel lavoro intellettuale. Babbage, inoltre, credo di poter dire, intravede -a partire dall'osservazione della fabbrica- la 'mente collettiva', la rete di persone al lavoro, ogni persona aiutata da macchina, che ricorda ed esegue calcoli per lei.

La storia sfuma in leggenda
Quando, sul finire del 1837, Babbage descrive nei suoi appunti l'Analytical Engine, la regina Vittoria è salita al trono da pochi mesi.
E' la Londra di Darwin e FitzRoy, di Thomas Henry Huxley. La Londra di Dickens, fango e sterco di cavallo nelle strade, fumo che cala dai camini formando una pioggia sottile, morbida e nera. Città in trasformazione: si aprono grandi strade, si scavano fognature e gallerie per la metropolitana. Dickens era amico di Babbage, e Babbage ispira la figura di Charles Babbage ispira il frustrato inventore Daniel Doyce, vittima e della scarsa protezione legale dell'invenzione e di un di un Governo poco disposto a sostenere l'innovazione.
Fino al '71 Babbage si affanna indefesso, lavora al disegno, cerca finanziamenti. Ma anche stavolta, questioni finanziarie, politiche e legali impediscono che la macchina sia costruita. La storia ripete ingigantita la vicenda del Difference Engine, e sfuma in leggenda: secondo alcuni la tecnologia dell'epoca non offriva i materiali e gli strumenti, secondo altri era questione di finanziamenti. E comunque il tremendo carattere di Babbage non aiutava a fare squadra, e anzi finiva per alienare la simpatia di chi pure credeva nel progetto.