giovedì 22 dicembre 2011

Ithiel De Sola Pool, 1982

Metto Ithiel De Sola Pool, contraddittorio personaggio, vicino a Vannevar Bush, Licklider, Engelbart, Ted Nelson -variamente citati in questo blog.
Basta questa citazione del 1982: "All’inizio la pubblicazione diventa elettronica perché un cronista scrive il suo articolo su un word processor e l'editing e l'impaginazione avvengono con l'ausilio di un computer; ma alla fine esce un giornale che ha l'aspetto di sempre. Questo è soltanto l'inizio. La futura pubblicazione elettronica potrà essere forse più simile al ragazzino con il videogioco delle guerre spaziali, permeato di luci e di suoni accanto alle parole. Il giocatore comincia; la macchina risponde. È un processo di conversazione attiva. Può essere divertimento; può essere gestione della vita quotidiana; può essere lavoro. Qualunque cosa sia, alla fine probabilmente assomiglierà alla pubblicazione come l'intendiamo oggi più o meno allo stesso modo in cui gli affari o i prodotti della conglomerata Time-Life assomigliano allo scriptorium di un monastero".
Ithiel De Sola Pool: di famiglia ebrea, trotzkista da giovane, durante la Seconda Guerra Mondiale -come Bateson, Mead, Lazarsfeld- lavora nel campo della comunicazione di massa: studia con Harold Lasswell la propaganda nazista; anche lui è uno dei soldati dell'esercito di Vannevar Bush.
Fortemente antisovietico, negli anni ‘50 è segretario del CENIS, Center for International Studies del MIT, che ha stretti rapporti con la CIA. Non si può dire in che misura De Sola Pool sia un puro ricercatore o agente coperto dell’intelligence. 

martedì 13 dicembre 2011

Facebook è un carcere, Twitter una tenda da campeggio


Un amico mi segnala un post sul suo blog. Mi interessa la riflessione su come i ‘network sociali’ contribuiscono a un’ “apertura dei confini organizzativi”. Anzi ce la impongo. Però leggo anche che si fa riferimento a “social network come Facebook e Twitter”. Scrivo all’amico dicendo che non si può fare di ogni erba un fascio, e che tra Facebook e Twitter c'è un abisso, e che dunque “non vedo come si possa ritenere Facebook un mezzo che aiuti ad una ‘apertura dei confini organizzativi’”.
L’amico mi risponde che ovviamente Facebook e Twitter sono molto diversi fra loro, “ma tecnicamente sono entrambi social network”. Mi cita anche due recenti libri che mettono Facebook e Twitter “nella stessa categoria”, pur spiegandone le differenze.
Ora mi viene in mente il seguente commento.
Il Web ci propone il superamento della modellizzazione e della categorizzazione univoca. I tag permettono di costruire di volta in volta connessioni diverse, e per questa via categorie diverse. Perciò l’esistenza stessa del Web dovrebbe spingerci ogni volta a chiederci: oltre a questo modello, oltre a questo schema di categorizzazione, quali altri modelli, quali altri criteri di categorizzazione potremmo adottare?
Ma per farla breve propongo di lavorare per analogia. I network sociali possono essere con motivo considerati ‘luoghi dove stare ed incontrarsi’. Quindi chiediamoci: che tipo di abitazione è Facebook, e che tipo di abitazione è Twitter? Facebook è un carcere, dove sei costretto a stare subendo leggi altrui; Twitter è una tenda da campeggio, con la quale ti muovi nel mondo, connessione dopo connessione.  

martedì 29 novembre 2011

Dal concetto di 'dato' all'editoria del futuro

Presso il Corso di Laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica dell'Università di Pisa (dove insegno), nell'ambito dei Seminari di cultura digitale, il 23 novembre 2011 ho parlato su questo tema: Dal concetto di dato all'editoria del futuro.
Il seminario è oralità condivisa, conta quello che si dice. Quando parlo, evito di leggere, ed evito anche -salvo eccezioni- l'uso di Power Point. Comunque, è interessante conservare i materiali di preparazione. Li espongo qui di seguito.
Abstract
Guadando in avanti, non possiamo limitarci a ragionare di app e di e-book.
Il concetto informatico di dato -in estrema sintesi: ‘rappresentazione finita di informazioni’-, letto in chiave filosofica, apre la strada a un ragionamento sull’edizione, sull’autore e sulla pubblicazione. Per questa via si arriva a ripensare -in ambito critico-letterario- il modo intendere il testo e l’edizione. E a prospettare l’evoluzione futura della complessiva industria editoriale.

Traccia
Informatica Umanistica/Umanesimo Informatico
Il dato in Informatica
La cosa di Kant e il dato come metafisica
Intrinseca ambiguità del dato: littera data, carta fecha
Informatica transazionale come editoria, editoria come informatica transazionale
Cosa cambia con il Personal Computer e il Web
Colpi di coda: App, E-book, iPad, Facebook
Guardare avanti

Percorso
Cerchiamo di fare un ragionamento informatico-umanistico; ma anche umanistico-informatico. Non una disciplina al servizio dell'altra, ma guardare un ambito con l'epistemologia connessa all'altro ambito. Il significato informatico di 'codice' ci invita a ripensare il testo letterario. La competenza narrativa di umanisti ci spinge a criticare il riduzionismo e il determinismo che reggono i sistemi informativi strutturati. Propongo un terreno di riflessione dove i due ambiti siano compenetrati, lascio quindi fuori atteggiamenti del tipo: ‘il libro cartaceo non scomparirà mai’, ‘la letteratura è una cosa, la scrittura sul web un’altra’. Mi pongo invece la domanda: come il computing cambia la letteratura, cosa la letteratura ha da insegnare al computing.

La produzione di conoscenza non è mai disgiunta dalla tecnologia.
L’uomo produce conoscenza, produce letteratura in accoppiamento strutturale con macchine-utensili. Il computing ci propone sia tecnologie per produzione -word processor-, sia tecnologie per la pubblicazione -dal ‘salvataggio’ del testo sul proprio computer alla pubblicazione sul Web.

Il computing ci propone il concetto di dato come ‘rappresentazioni finita di informazioni’ e quindi come ‘unità minima fruibile’.
Il dato è un costrutto metafisico. La riflessione kantiana attorno all'inafferrabilità della cosa porta a concepire il dato.
Si cerca deterministicamente e riduzionisticamente un 'punto fermo'.
Si ritiene necessario subordinare l'esperienza a un modello, a un'idea. Il 'dato' è il simbolo di questa pretesa certezza, verità apodittica.
Fare riferimento ai dati è fare riferimento a qualcosa di fondato, stabilito con certezza. Qualcosa di formalizzato, matematizzato, calcolato e calcolabile. Il progetto deterministico e riduzionista di Hilbert, e poi su questa base il lavoro di Gödel, Turing, Alonzo Church, von Neumann, portano a far riferimento al dato.
Ma il dato, radice do, parla di dare e ricevere, scambio, transazione.
C’è un paradosso: consideriamo il dato esistenti prima della transazione, e quindi sottoposto a transazione, ma il dato invece è in sé transazione, non esiste prima della transazione.
Littera data, consegnata al vettore.
In teoria della comunicazione e in computing-informatica: parliamo di informazione, trattiamo la conoscenza trascurando la sua produzione, e guardando a come viaggia sul canale, cioè la prendiamo in carico nel momento in cui è littera data.
La ricerca filosofica attorno alla cosa trova (una) conclusione nella nozione informatica di dato.
Ma la stessa parola 'cosa' rimanda a un giudizio 'dato', convenzionale e legato a un accordo: la 'cosa', causa, in una versione latina è decisa da un giudice, in una versione tedesca , Ding e thing, è decisa da una assemblea. Non è mai 'data' una volta per tutte.
Il dato si fonda sempre su una convenzione. Il dato è certo solo se non ho preso in considerazione altri possibili dati.

Guardiamo ora al mondo dell’editoria. Edere è ‘dare fuori’, rendere pubblico. Non è consegnare al messaggero.

Lì dove avviene la transazione nasce il ruolo dell'interprete, dell'editore, del traduttore, del censore
Il computer mainframe resta dalla parte del broadcasting, gatekeeping
Il personal computer ed il web mettono in discussione ogni mediatore, ci ricolloca nella situazione originaria del momento, processo di produzione
Come il dato, il testo canonico è un tentativo di rispondere all’inafferrabilità del testo.
Così come si rappresenta la cosa nel dato, si ritiene che il testo esista solo se è canonizzato.
Come il dato è validato se è conforme al modello, così il testo viene canonizzato. Il dato è validato se passa al vaglio della transazione, il testo analogamente è vagliato da editori, editor, interpreti.
Possiamo stabilire un parallelismo tra computabilità e leggibilità.

Ma nel mondo del personal computer e del web la transazione non è più il momento centrale, l'autore pubblica da sé.
Il momento centrale è l'accoppiamento strutturale uomo-macchina.
Come lo spagnolo sostituisce alla littera data la carta fecha, la lettura ispanica sposta l'accento sulla creazione, fare.
La canonizzazione del testo esiste nel dominio del mainframe, broadcasting, gatekeeping
Nel dominio del personal computer e del web la letteratura è tradizione, con prevalenza dell'anonimato - come in letterature ispaniche
Al posto del concetto di canone assume rilievo l'inevitabile presenza di corpora, delle opera omnia - concetti eminentemente plurali, fuzzy concepts
L'editoria si trasforma da mediazione necessaria in apposizione marchio di qualità
L'edizione si trasforma da canonizzazione necessaria in collezione di varianti
In luogo di macchine per gestire dati, e quindi garantire transazioni, macchine per produrre conoscenza
Piattaforme senza fondamenti, pubbliche, controllo diffuso
Parlare di Big Data è andare oltre il dato, è guardare a una 'scrittura' sulla quale possono essere costruite reti testuali diverse.
Non più dati discreti ma materiale da plasmare: fiction.
Il canone vede mostrati i suoi limiti per mezzo dell'analogia con il modello dei dati. Il web ci mostra come la rete di testi può essere connessa in canoni diversi, non alternativi, compresenti.
L'accento si sposta dalla letteratura come documento (docere) alla letteratura come monumento (monere).
App specializzate per sistema operativo, eBook, iPad, Facebook sono accomunati dal tentativo capzioso di riportare nel mondo del Personal Computer e della Rete il modello di Stampa, Broadcasting e Gatekeeping.

domenica 27 novembre 2011

Google come filosofia


Google street view car: l’automobile dotata di antenne e telecamere che lentamente percorre ogni strada del mondo, passa di fronte alla porta della casa di ognuno di noi, tutto registrando, fotografando la nostra casa e al contempo memorizzando ogni segno della nostra vita digitale, cogliendo ogni traccia dei nostri viaggi nel Web.
E’ una immagine inquietante. Una immagine sintetica che in fondo racchiude in sé il senso di un coerente agire, forse ancor più inquietante - perché occulto, sotterraneo, segreto, invisibile all’occhio: il muoversi dei crawler, o spider, nei meandri del Web. Tutto ciò che ‘mettiamo in rete’ è osservato, registrato da Google – con acribia, con meticolosa precisione. Nella sua sterminata server farm di Google dobbiamo pensare sia conservata, forse, copia di tutto. Ed ancora, è preoccupante l’alone di mistero che circonda l’algoritmo in base al quale Google ci restituisce risposte alle nostre domande – intermediando così i nostri quotidiani tentativi di costruire conoscenza.
Ma comunque, questo non è Broadcasting. Non è Gatekeeping – che è morto, da quando ognuno di noi può essere presente nel Web allo stesso modo di come sono presenti i potenti del mondo. Google non è il Grande Inquisitore, orientato a trattare ognuno di noi come parte insignificante di un gregge bisognoso di cura, ed anzi desideroso di controllo. Google non è nemmeno un Panopticon, perché non pretende di ridefinire l’architettura del mondo.

Le torri sono cadute
Non più grandi cattedrali di dati, non sta lì il potere. Le vecchie forme di controllo -bloccare le vie di accesso, stabilire difese perimetrali, filtrare i passaggi di soglia- non valgono più nel pervasivo e diffuso mondo del Web, seamless, adattivo. Con il Web, la complessità sprofonda in basso. Viene meno la centralità del dato. Viene meno necessità del modello dei dati come fonte di un ordine necessario. Google asseconda questa evoluzione. Offre a noi cittadini digitali dà strumenti per muoverci in questo mondo.
Google non ci impedisce di pubblicare sul Web. Non pone divieti. Non abbiamo bisogno di passare al vaglio di Google per essere tra coloro che hanno il diritto ad esprimersi. Google non ci impedisce di mettere in rete i nostri oggetti di conoscenza, non pone limiti alle nostre interazioni. Anzi, Google ci restituisce potenziati i risultati del nostro agire: nel passaggio da lingua a lingua proposto dal traduttore, godiamo dei risultati di ogni traduzione tentata da ognuno di noi. E ci offre gratuitamente strumenti sui quali basare il nostro essere cittadini digitali: il motore di ricerca, la posta elettronica, le mappe di ogni luogo.
Google accetta gli standard della Rete, ed anzi promuove la loro diffusione. Accetta un linguaggio comune, il linguaggio che c’è, il linguaggio ordinario. Non impone un proprio linguaggio. Se si trova a a proporre un proprio linguaggio, ne mette a disposizione il codice. Google non cerca di imporre al mondo una propria struttura. Né sostiene l’esigenza di subordinare tutto e tutti ad un’unica struttura. Non propone uniformazione, ma all’opposto accetta ogni variante. Non persegue un ordine, ma accetta l’accumulazione caotica. Accetta le liste aperte. Non cerca una analisi fine degli insiemi: si accontenta invece di accorpamenti grossolani, sempre provvisori.

Spazio etico
Street view car: non è l’occhio di Dio del Panopticon, che ci guarda dall’alto. L’auto si muove sulle nostre stesse strade. Nemmeno l’occhio del satellite cartografo è l’occhio di Dio: si tratta sempre del nostro occhio, sia pur spostato in un altrove. Google, semmai, è il mostro che vive con noi, è l’esemplare attore di un mondo camaleontico, contaminato, dove il male convive con il bene in un continuum sfumato; un mondo dove deboli e forti, cooperatori e profittatori sono condannati a convivere.
Google ci ricorda che il male è in noi stessi, il male germina nelle nostre intenzioni. La scelta cooperativa e la scelta utilitarista sono separate da una soglia sfumata. La scelta tra il dono e il furto resta aperta per ognuno di noi. Google, ente mostruosamente surdimensionato, ipertrofico, resta comunque uno di noi, uno degli abitatori della Rete.
Dobbiamo essere consapevoli dei rischi che corriamo, e dell’impossibilità di evitarli. Dobbiamo forse anche imparare a vivere una nuova forma di libertà: siamo chiamati a vivere in case di vetro; siamo chiamati a muoverci con cautela, scoprendo il cammino strada facendo, passo dopo passo, biforcazione dopo biforcazione, emergenza dopo emergenza.
Google ha finito per contraddire nella pratica una parte non trascurabile dei propri presupposti etici. Questo è accaduto quando ha accettato il profitto ed il valore del titolo in Borsa come misura del proprio successo, del proprio complessivo ‘stare al mondo’. Ma anche in questo abbiamo motivo di considerare Google vicina a noi. Come Google, anche noi, a causa di una competizione drogata da valori distruttivi e disumani, siamo spinti ad esaltare i nostri lati peggiori.
La presenza straniera di street view car sulle nostre strade -così come il permanente strisciare del crawler nei meandri, così come i lati oscuri dell’algoritmo del Page Rank- danno corpo al nostro timore di complotti. Ma in questo c’è una virtù: siamo spinti a ricordare che la soluzione dei dubbi, la possibilità di trasformare credenze e le dicerie in conoscenza è un processo sociale che non può che passare attraverso l’interazione. La possibile ‘verità’ è attinta per approssimazioni successive, per tentativi ed errori – ne è esempio il lavoro collaborativo appoggiato sul wiki: il ‘veloce’ succedersi di prove ripetute in una arena aperta a tutti. La presenza di Google, anche in questo senso, può esserci alla fin fine utile: ci abitua a muoverci nel mondo come è.

Spinoza e Böhme
Il timore che proviamo nei confronti di Google, perciò, è il timore dei nostri lati oscuri. Si preferiscono i nemici evidenti, si preferisce un male lontano da noi. Si preferisce un mondo ‘razionale’, con gerarchie evidenti e ruoli definiti; un mondo dove è chiaro chi sta sopra e chi sta sotto; un mondo dove l’evidenza ci aiuta a scegliere. Ma nel Web non vale l’aut aut. Al paradigma dell''aut aut': bianco/nero, buono/cattivo, alto/basso, si sostituisce il paradigma 'e e'. Siamo tutti connessi in piccole e grandi reti, siamo tutti meticci, siamo tutti docenti e tutti discenti. L'illusione di una organizzazione gerarchica e meritocratica, certa, giusta ed autorevole, creata da terzi, data una volta per tutte, è negata dal mondo che la Rete pone sotto i nostri occhi. L'organizzazione è un mondo possibile che noi stessi, insieme agli altri, contribuiamo a creare istante dopo istante.
Se per capire l’informatica strutturata bastano Kant e Hegel, per capire il Web, e per intendere il senso del potere segreto di Google dobbiamo appoggiarci alla filosofia del Ventesimo Secolo. Freud, Nietzsche, Wittgenstein, Husserl, Heidegger, Derrida, Deleuze. Ma forse, ancor più pertinente ed istruttiva sarà per noi una rilettura di Spinoza e di Böhme.
Con il Web, viene meno l’idea del potere trascendente. Il potere si manifesta nell’immanenza.
In luogo dell’essere sopra/sotto, in luogo della gerarchia, il Web ci propone l’‘essere dentro’, l’essere tutti coinvolti e tutti partecipi, tutti appartenenti ad un insieme senza forma, ognuno di noi così come qualsiasi ente a cui residue abitudini ci spingono a considerare responsabili di ogni cosa.
Lo studente disse: ‘Questo luogo è vicino o lontano?’. Il maestro rispose: ‘È dentro di te. Se riuscissi a mettere a tacere ogni desiderio e pensiero per un’ora, udiresti le ineffabili parole di Dio’. (Jakob Böhme, Sulla vita soprasensibile, Sesto Trattato).
Così, siamo chiamati ad abbandonare fallaci speranze di controllo, e a muoverci invece con gelassenheit: serenità, abbandono, calma, placidità, tranquillità. Ci muoviamo in un Un grund, ‘senza fondo’. Non sarà la ragione a guidarci nel Web, ma l’attitudine a perdonare e abbracciare -questo è in origine il ‘legame debole’, la connessione-; l’attitudine ad accettare i momenti oscuri del cammino.
Il Web ci propone di partecipare a scelte collettive, ad un potere ‘costituente’ che dissolve istante dopo istante le forme spettrali dei poteri già costituiti. Siamo tutti co-creatori del mondo, siamo tutti responsabili e tutti ‘come Dio’.
Con il Web, viene meno l’illusione o la speranza di un rassicurante ordine – e siamo chiamati tutti chiamati a cercare di dare ordine, in un processo incessante, ai dati affastellati nell’Ungrund
Ognuno di noi è co-autore del Web; ognuno di noi è co-autore insieme a Google.

Libertà primordiale
Non possiamo dimenticare che -così come vuole l’epistemologia che si afferma nel Ventesimo Secolo, e così come ci propone l’esperienza empirica della nostra ‘vita nella Rete- l’osservatore fa parte dell’oggetto di indagine, ed influisce sempre sull’oggetto di indagine. Ma anche dove si voglia intravedere una immagine di Google come ente ‘diverso-da-noi’, osserviamo un potere ben diverso dal potere del Gatekeeper. Il potere, ora, sta nella capacità di muoversi in basso, terra terra come street view car, o ‘sottoterra’, in un Ungrund, in un luogo senza fondo dove strisciano i crawler, in un magma di dati.
Un nuovo potere con il quale dobbiamo convivere – e dal quale dobbiamo imparare a difenderci. Un potere che ci impone di essere cittadini adulti. E siccome non si nasce adulti, serve immaginare una nuova educazione, una alfabetizzazione. Non una educazione alla mera pratica, all’uso del mezzo. Una educazione, invece, riguardante la filosofia, la ricerca e la sperimentazione, la scoperta e la messa in atto di una personale epistemologia.
Quel sotterraneo mondo visitato dai crawler nasconde segreti. L’Ungrund, lo sfondamento in basso propostoci dal Web, ci obbliga a confrontarci in fondo con quest’idea di libertà primordiale. Libertà è assoluta, ab soluta, 'sciolta da', in origine libera da ogni vincolo. Un nel quale quale stabilire regole, a partire dal nostro proporre ad ogni altro attore relazioni, ovvero accoppiamenti strutturali. Etica ed estetica sono chiavi di lettura del come e del con chi e del perché mi connetto.
Del resto, ben sappiamo che il computing è nato da un intreccio inscindibile, inestricabile, di interessi diversi, militari e civili, intenti di intelligence e di liberazione umanistica. La presenza di Google nel nostro mondo non fa che riproporci questa complessità. E se l’informatica tradizionale ci riproponeva il concetto di codice, il Web ci impone di tornare allo ius, in origine incitamento, augurio di buona fortuna, da cui anche l'idea di giusto e giustizia.

Lo scandalo di Facebook
Per tutto questo trovo che, piuttosto che l’ambiguità di Google, dovremmo considerare fonte di scandalo -ostacolo, inciampo, insidia- il rozzo gioco di Facebook.
La proposta di Facebook è, appunto, rozza: non è che il ritorno -solo in apparenza dentro la Rete- del Panopticon, del Broadcasting, del Gatekeeping. Panopticon: in Facebook, siamo osservati da qualcuno che che non accetta di essere anche oggetto di indagine, osservati da qualcuno che si colloca all’esterno. Broadcasting: la scelta di ‘mettere in onda’ dipende da un terzo, altro da noi. Gatekeeping: tutto è scritto in un codice proprietario - col che siamo espropriati delle nostre conoscenze
Ma -e qui sta il pericolo e la fonte di scandalo- il rozzo gioco di Facebook in fondo ci ‘lascia tranquilli’. Siamo tanto abituati al Grande Fratello, tanto abituati a subire l’unica conoscenza contenuta nelle proposte del Broadcaster di turno, da sentirci liberi in Facebook. Eppure lì, in Facebook, le nostre conoscenze sono svilite, trasformate in ‘contenti’, perché forzosamente racchiuse in forme date a priori. Abituati a contentarci di un ruolo passivo, finiamo per sentirci a proprio agio in Facebook. Lì nessun pericolo ci minaccia. Ma ciò accade perché il potere è già indiscutibilmente affermato. Siamo gentilmente ospitati in una casa che non è la nostra.
La pagina di Facebook è una pagina i Facebook. In cambio, la home del mio sito esposto sul Web è la home del mio sito.
La street view car potrà anche spiare dentro, ma posso forse chiudere qualche finestra. E comunque la mia casa resta la mia casa. 

lunedì 14 novembre 2011

'Codice', 'documento' e altre parole

Tra i diversi frutti del lavoro di cui lascio traccia in questo blog, voci come le due che potete leggere di seguito. Le due voci, come numerose altre di argomento informatico -computer, dato, memoria, digitale, ecc.- fanno parte di Nuove parole del manager, 113 voci per capire l'azienda, Guerini e Associati, in libreria da metà novembre 2011.

Codice
Il codice passa nel tempo dal designare il 'libro manoscritto' ad essere il 'corpo organico di leggi'. Ma in origine sta l'immagine di un supporto fisico: una 'corteccia' sulla quale -tramite un adatto strumento appuntito, e poi strumenti via via più evoluti: pennelli, penne- possono essere vergati segni. E' interessante notare come il libro appaia un affinamento della generale idea di codice. Caudex è il ceppo dell'albero. Liber è la 'pellicola che sta sotto la scorza dell'albero'.
La sintetica idea del supporto nasconde il fatto che il codice risponde a tre diverse funzioni.
E' la base materiale che -liberando da questo compito la memoria umana- garantisce la conservazione della conoscenza: artefatto dove la materia prima è trasformata in rotolo, in tavoletta di cera, in insieme di fogli rilegati.
E' un sistema strutturato di segni -alfabeto, grammatica, sintassi- che svincola la forma dal contenuto, permettendo di narrare qualsiasi storia, mentendola costante e rendendola accessibile -attraverso il doppio processo di codifica: scrittura , e di decodifica: lettura-.
E' una singola storia, narrazione, porzione omogenea di conoscenza: ogni codice è un testo, una rete di segni che rappresenta un singola storia, diversa da ogni altra.
Le tre diverse funzioni, sovrapposte nel mondo libresco, ci appaiono chiare solo nel dominio dell'informatica, perché qui sono nettamente separate. Accade così che in questo nuovo dominio il codice, la codifica e la decodifica assumano un nuovo senso.
Abbiamo innanzitutto i diversi supporti utilizzati come memoria fisica: il chip, piastrina di silicio adeguatamente trattata; il disco magnetico; il disco laser. Su questo supporto qualsiasi narrazione è conservata sotto forma di dati digitali. Codificare è scrivere sulla memoria. Decodificare è leggere dalla memoria.
Abbiamo poi ciò che oggi, nel dominio dell'informatica, è più propriamente detto codice: i sistemi strutturati di segni, che chiamiamo linguaggi di programmazione; e tutto ciò che attraverso questi linguaggi è scritto.
Abbiamo, infine, i singoli programmi, ovvero le storie narrate attraverso i linguaggi di programmazione.
Ciò che distingue in special modo il codice 'libresco' dal codice ‘digitale’, è la stratificazione. Non c'è un solo strato di segni appoggiato -in modo più o meno indelebile- su un supporto -il foglio-. C'è invece una serie di strati di codice. Strati più bassi, destinati ad essere 'letti' -decodificati, interpretati- dalla macchina -l'hardware del computer-. Strati intermedi di codice che colloquiano tra di loro. Strati superiori destinatati ad interagire con l'uomo.

Documento
Il tedesco Schriftstück ci impone in modo chiaro e duro il senso del ‘documento’. Associa infatti lo Schrift, la ‘scrittura’ -intesa come segno certo e indelebile- allo stück, ‘pezzo’, oggetto materiale. E’ l’idea del codice, del libro, del testo, ‘pezzi’ di conoscenza chiusa e indiscutibile.
Il pezzo -frutto del fare a pezzi- discende dalla radice indeuropea steud, ‘battere’, ‘colpire’. Da cui anche il latino studere. E quindi: studio, studiare, studente. Studere: applicazione severa e faticosa
Viene in mente il giovane Vittorio Alfieri che si trova nella “dura necessità” di “retrocedere, e per così dire, rimbambire” per studiare daccapo la grammatica. Vengono in mente i “sette anni di studio matto e disperatissimo” del giovane Giacomo Leopardi.
Il discente studia la dottrina sotto la guida di un docente, e comunque basandosi su documenti scritti. L’apprendimento richiede docilità e disciplina. Studiare è leggere con diligenza, con attenzione minuziosa, documenti. Dottore, dottrina, discepolo, docile, disciplina: espressioni che rimandano ai verbi latini discere ‘imparare e docere ‘insegnare’ (che corrisponde al greco didasko), tutti risalenti alla radice indeuropea dek: ‘apprendere’, ‘ricevere mentale’.
Il documentum, oggetto dell’azione consistente nel docere, è ‘insegnamento’, ‘ammaestramento’ ma anche ‘prova’, ‘testimonianza’, ‘ammonimento’
Ammonimento era in latino monimentum, o monumentum, dal verbo monere: ‘ricordare’, e quindi ‘far ricordare’. Qui la radice indeuropea è men, da cui memento, monito, commento, menzione
menzogna. E musa, museo, musica, mente.
Alla luce di questa vasta e importantissima area di senso, i limiti del documento, pur utile e anzi necessario, ci appaiono evidenti. Attraverso i pur necessari ed utili documenti la conoscenza chi appare spezzettata, frantumata, limitata dai confini dei singoli ‘pezzi’. Della possibile conoscenza, è accessibile solo ciò che è contenuto in un oggetto distinguibile da ogni altro. Il documento è dotato di una sua fisicità.
Di fronte alla conoscenza che ci è oggi proposta dal World Wide Web - esistente a prescindere dal supporto cartaceo, materiale che al momento abbiamo in mano, sfuggente, priva di evidenti confini, sempre in fieri, sempre riconfigurabile al di là di ordini e gerarchie,-, di fronte alla conoscenza così intesa, il documento ci appare certo rassicurante, ma anche obsoleto, non più centrale.
Mentre docere ci parla di come afferrarsi alla conoscenza che c’è già, monere ci parla del processo di generazione di conoscenza, sempre vivo nella mente.

giovedì 27 ottobre 2011

Semantic Web

Mentre Panopticon, Broadcasting, e Gatekeeping ci impongono una Gestalt, un modello dato a priori, l’idea dei ‘loosey coupled systems’ ci apre un campo inesplorato.
Tra il 1990 e il 1991 Tim Berners-Lee ed i suoi colleghi del CERN (il Centro Europeo per la Ricerca Nucleare di Ginevra) sviluppano il software ed i protocolli dai quali nascerà il World Wide Web, espressione poi comunemente contratta in web: la Grande Rete telematica che sta forse imponendo un nuovo ordo, ‘ordine’. È l’esordio, l’inizio della tessitura -non a caso i francesi traducono World Wide Web con Toile- di nuovi rapporti interpersonali ed economici, fondati sull’esistenza di questa invisibile tela, o ragnatela, tanto ben tessuta da abbracciare –oggi in potenza e domani magari di fatto– tutto e tutti. Ognuno è nelle condizioni di essere al contempo autore e lettore.
Con il World Wide Web ognuno può pubblicare il proprio sito. L’insieme di pagine che scrivo e metto in rete, si fondano sullo stesso codice, sugli stessi protocolli che usa per mettere in rete le proprie pagine la Coca Cola o il Governo degli Stati Uniti. Una trasparenza di base, un accesso sono garantiti.
Ma per mettere in rete il proprio sito, resta necessario disporre di qualche conoscenza tecnica. In particolare se voglio racchiudere dentro le pagine non solo caratteri alfabetici, ma anche immagini fisse, immagini in movimento, voci e musica. Il sito resta inoltre un sistema chiuso, difficile da aggiornare; un insieme di pagine non troppo dissimile dal libro.
In realtà, ciò che aveva in mente già alla fine degli anni Ottanta Berners-Lee, non era il Web fatto di pagine chiuse, era qualcosa di ben diverso, che chiamava Semantic Web. “The Semantic Web” scrive in un articolo che di fatto rappresenta l’annuncio al mondo del suo grande sogno, “is an extension of the current web in which information is given well-defined meaning, better enabling computers and people to work in cooperation” (Tim Berners-Lee, James Hendler, Ora Lassila, “The Semantic Web”, Scientific American, May 2001).
Il 3W Consortium -la comunità, fondata da Berners-Lee per definire gli standard del World Wide Web e sorvegliare sulla sua vita- offre questa definizione: “The Semantic Web provides a common framework that allows data to be shared and reused across application, enterprise, and community boundaries”.
Dunque, un insieme non solo di pagine chiuse, come era il primo Web, ma invece una galassia di oggetti - testi, ma anche a immagini fisse e in movimento, a suoni e musica. Oggetti di volta in volta ricombinabili e diversamente usabili.
‘Oggetti di conoscenza’: la visione di Bernes-Lee ci spinge a diffidare della parola content, o contenuti -che pure è normalmente usata per ciò che è accessibile tramite il World Wide Web. Perché content rimanda a un necessario contenitore -come era il libro-, mentre qui si parla di pura conoscenza, che si manifesta qui ed ora in una qualsiasi forma – una delle infinite forme possibili.
Ogni oggetto è da intendere non come una struttura definitiva e stabile, ma come una struttura ‘loosely coupled’, sempre modificabile e riconfigurabile. Ogni oggetto, poi, è descritto da tag, etichette che ne esplicitano le caratteristiche. Sono i tag a permettere di connettere tra di loro gli oggetti in insiemi efficaci, ma mai definitivi e privi di alternative – anche qui si manifesta la logica del ‘loosely coupling’. Possiamo ridire, con Maturana, che “interazioni ricorrenti e ricorsive producono accoppiamenti strutturali”.
Gli oggetti, e i tag che li descrivono, sono frutto del lavoro libero -non dipendente da procedure, ma orientato alla collaborazione- di una infinita pluralità di soggetti. Chiunque, qualunque persona interessata, può produrre ed usare conoscenza. Il risultato è un’‘intelligenza collettiva’, e anche -è stato detto- la ‘saggezza delle folle’2 offrono risultati ricchi proprio perché inattesi, non prevedibili.
Guardiamo ad esempio -in questo quadro più complessivo- la vicenda dell’eLearning. Che ci appare, nella sua immagine più evoluta e matura, come piattaforma: Learning Management System. La piattaforma -costruita ad hoc a questo scopo- fornisce gli strumenti per la costruzione di learning object, e per il loro ‘montaggio’ in insiemi -courseware- fruibili a fronte di un dato scopo formativo. E poi, naturalmente, la piattaforma è accessibile ai destinatari della formazione, che possono così usare i courseware.
La visione di Weinberger e di Bernes-Lee non nega valore all’eLearning, ma ci mostra come tutta l’impalcatura su cui l’eLearning si fonda non sia che un’interpretazione riduttiva dell’idea di Web Semantico. I learning object non sono altro che oggetti di conoscenza. Il courseware non è altro che una struttura che lega tra di loro gli oggetti. Ma si tratta di oggetti pensati in un funzione di un unico scopo. E la struttura che li lega è rigida, discendente da un modello dato a priori, un modello che descrive il percorso formativo che il formatore-gatekeeper ha univocamente scelto.
L’eLearning, dunque, non è che un caso particolare del Knowledge Management. Delle infinite possibilità di costruire conoscenza, la piattaforma di eLearning ne sceglie una ed una sola. Mentre l’idea del Web Semantico è di lasciare aperta ogni possibilità.
Possiamo intendere il Web 2.0 come inveramento pratico del Web Semantico. La visione è ripresa in modo riduttiva, annacquata dallo scopo di lucro, ma non è tradita. Perciò anche il Web 2.0 ci appare un passo più avanti dell’eLearning cresciuto come mondo a sé stante. Lo conferma il fatto che i Learning Management System si sono evoluti fino ad essere ormai piattaforme Web 2.0.
Si impone quindi un interrogativo. Essendo le piattaforme Web 2.0 pensate per permettere ad ognuno sia di scrivere che di leggere, sia di produrre conoscenza che di fruirne, quale senso assume, nel nuovo scenario, la distinzione tra il ruoli di chi è autorizzato a scrivere ed il ruolo di chi può solo leggere? Come può essere ripensata in un mondo non più dominato dal Gatekeeping la distinzione tra l’autore dei courseware, e in senso ampio il formatore, da un lato, e dall’altro il frequentatore del corso, sia via computer, o sia anche in aula?




domenica 25 settembre 2011

Knowledge Management 2011-2012

Questo è il programma del mio insegnamento presso il Corso di Laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica dell'Università di Pisa nell'anno accademico 2011-2012.


Titolo: Knowledge Management
Corso di studi: Informatica Umanistica (laurea magistrale)
Docente: Francesco Varanini

Argomento:
Il corso si propone di descrivere e sperimentare ciò che il management -la ‘scienza della direzione aziendale’- chiama Knowledge Management. Mantenendo vivo un preciso riferimento allo sbocco professionale, ovvero a ciò che è richiesto alle figure professionali presenti nelle aziende, e dedite ad operare attorno al Knowledge Management.
Ci si avvicinerà al tema da diversi punti di vista.
Da un punto di vista filosofico: logica kantiana, fenomenologia, filosofia analitica propongono differenti modi di intendere la conoscenza.
Dal punto di vista della sociologia e della storia del lavoro: a differenti modi di intendere il lavoro, e a differenti manifestazioni storiche del lavoro, corrispondono differenti modi di ‘estrarre’, conservare e riutilizzare la conoscenza necessaria a rendere il lavoro efficace.
Dal punto di vista delle teorie e delle pratiche del management: si studierà come in azienda gestisce la conoscenza, intesa come intangible asset, con particolare riferimento al Balanced Scorecard e strumenti derivati.
Dal punto di vista informatico: saranno descritte criticamente le diverse modalità con le quali la conoscenza è trattata, tenendo conto da un lato dell’approccio analitico, strutturato e transazionale, e dall’altro dell’approccio fondato su Data Mining, Knowledge Discovery e Information Retrieval. -ed arrivando per questa via a riflettere criticamente sulla nozione di dato e sull’essenza del computing.
Valorizzando la duplice competenza -informatica ed umanistica- che caratterizza il corso di laurea, si tratterà la materia ricorrendo ad una analogia: ‘la Letteratura è un sistema di Knowledge Management’. Osservando la ‘rete letteraria’ -ipertestuale, aperta, sempre in fieri- che lega testi ed autori, articolandosi in generi, scuole, epoche, aree linguistiche, si potrà comprendere come si forma e si evolve la ‘rete di conoscenze’ presente in ogni azienda, organizzazione o luogo di lavoro.

Esercitazioni:
Il corso prevede due esercitazioni individuali, da concordarsi nei dettagli con il docente.
La prima esercitazione riguarda la descrizione come rete, o ipertesto, di un dominio di conoscenza. Può trattarsi di un ambito letterario: i testi ritenuti principali di una letteratura, di un genere o sottogenere. Oppure un dominio di conoscenza di cui lo studente si sente esperto.
La seconda consiste nel modificare ed equilibrare, o fondere le due voci presenti su Wikipedia versione italiana a proposito di Storytelling:
http://it.wikipedia.org/wiki/Storytelling_(narrativa)
http://it.wikipedia.org/wiki/Storytelling_management
Per avvicinarsi a punti di vista complementari rispetto a quelli presi in considerazione nella voce si può vedere:
http://www.scribd.com/doc/24628790/Francesco-Varanini-L-Organizzazione-come-Rete-di-Storie-e-lo-Storytelling-Come-Furto
http://www.scribd.com/doc/73929584/Francesco-Varanini-Di-chi-Sono-le-storie-Ancora-a-proposito-di-storytelling
http://www.scribd.com/doc/73929060/Storytelling-di-Francesco-Varanini
http://www.bloom.it/vara186.htm
http://www.bloom.it/prandstraller1.htm

Testi d’esame:
Hanna Arendt, The Human Condition, 1958; in italiano: Vita activa, traduzione di Sergio Finzi, introduzione di Alessandro Dal Lago, Bompiani, Milano, 1964 (facilmente reperibile sempre presso Bompiani in edizione economica, collana Saggi tascabili).
http://www.scribd.com/doc/24567746/Francesco-Varanini-Un-certo-tipo-di-letteratura
http://www.scribd.com/doc/48089772/Varanini-Bond-e-l-Etica-dell-Immaginario
E’ inoltre utile, come avvicinamento e complemento, il blog Dieci chili di perle (http://diecichilidiperle.blogspot.com/), in particolare i post con l’etichetta ‘come emerge la conoscenza’.

Nota:
I non frequentanti possono rivolgersi al docente via mail, fvaranini@gmail.com; oppure presentandosi il lunedì (da settembre al 5 dicembre) dalle 16 alle 18, a Palazzo Ricci.

lunedì 25 luglio 2011

Loose coupling

“Interazioni ricorrenti e ricorsive producono un accoppiamento strutturale”. Con questo concetto, dice Humberto Maturana, studioso degli organismi viventi, “designo una storia di cambiamenti strutturali reciproci che rende possibile il sorgere di un dominio condiviso”. “Si dà un accoppiamento strutturale quando le strutture dei due sistemi -strutturalmente plastici- si modificano in conseguenza di interazioni ricorrenti, senza che per questo si distrugga l'identità dei sistemi interagenti”. (Humberto Maturana Romesín, Bernhard Pörksen, Vom Sein zum Tun. Die Ursprünge der Biologie des Erkennens,
Carl Auer, Heidelberg, 2002; cit. dalla trad. spagnola Del ser al hacer. Los orígenes de la biología del conocer, Granica: Juan Carlos Sáez, Buenos Aires, 2008).
Così possiamo vedere ‘accoppiate strutturalmente’ due persone, un insieme di persone; due organizzazioni, un insieme di organizzazioni. Possiamo vedere ‘accoppiati strutturalmente’ anche la persona ed il Personal Computer con cui lavora.
Si tratta di ‘accoppiamenti deboli’. Deboli perché il legame, la connessione non deve rispondere ad astratto criterio di solidità; deve essere, semplicemente, adeguata alla situazione che di volta in volta si presenta. E deboli anche perché il legame non è dato un volta per tutte. L’importante, per ogni organismo vivente, è la sua predisposizione ad accoppiarsi con altri organismi, con chi serve, quando serve, nella misura in cui serve.
Maturana -così come il suo allievo Francisco Varela- è un neurofisiologo che ha allargato lo sguardo alla ‘logica del vivente’, potremmo anche dire che è -non per scuola, ma per pratica- un filosofo della conoscenza. Ma si è sempre guardato bene dal proporre applicazioni strette dei suoi ragionamenti al mondo delle organizzazioni.
Molte meno cautele ha Karl Weick, psicosociologo, uno dei tanti che si nella scia di Maturana e Varela, hanno applicato le riflessioni sulla complessità allo studio delle organizzazioni. Pur privo di originalità, il pensiero di Weick porta comunque qualcosa di nuovo nell’asfittico campo del management.
Eccolo così riprendere intelligentemente il lavoro di Maturana e Varela -che si consolida tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso-. Resta un punto di riferimento l’articolo del 1976: Educational organizations as loosely coupled systems (Karl Weick, “Educational organizations as loosely coupled systems”, Administrative Science Quarterly, 21 (1976), 1-9 (part)., 21 (1976), 1-9).
I sistemi organizzativi fondati su accoppiamenti deboli sono ridondanti, mancano di un coordinamento, sono carenti di procedure, hanno tempi di reazioni lenti. Ma limitano ad un sottosistema le conseguenze di una catastrofe, permettono adattamenti locali, favoriscono l’emergere di soluzioni creative, garantiscono spazi di autodeterminazione agli attori.
E’ facile per noi pensare come questo modo di vedere si presti stimolare riflessioni sulla forma più conveniente per organizzazione dedite ad attività educative - è questo il tema sviluppato dell’articolo di Weick. Ma è anche subito evidente come il ragionamento possa essere allargato, ed in particolare come il ‘loosely coupling’ possa essere inteso in un ambito sociotecnico, dove persone e risorse informatiche convivono. Questo più vasto scenario è chiaro quando, nel 1990, Wwick torna a scrivere sul tema (J. Douglas Orton, Karl Weick, “Loosely Coupled Systems: A Reconceptualization”, The Academy of Management Review, Vol. 15:2 (1990), pp. 203-223.
A questo punto, appare a tutti evidente che Internet è sistema -rete di reti, senza centro, priva di gerarchie e di controlli fondati su una superiore autorità- la cui struttura si spiega proprio pensando al ‘loosely coupling’. E ancor più: il World Wide Web -sistema di conoscenze appoggiato su Internet, che veniva messo a punto proprio nell’anno in cui esce il secondo articolo di Weick- è la prova vivente dei vantaggi del ‘loose coupling’.
Tutto appare più chiaro dieci anni dopo, quando David Weinberger -formazione filosofica, esperienze di marketing, sguardo visionario, una certa tendenza a fare il guru- pubblica Small Pieces Losely Joined (David Weinberger, Small Pieces Losely Joined. A Unified Theory of the Web, Perseus, 2002; trad. it. Arcipelago Web, Sperling & Kupfer, Milano, 2002).
Il Web non solo unisce in un modo nuovo gli 'oggetti di conoscenza', unisce anche gli esseri umani, tutti noi, tramite connessioni labili e flessibili, prima impensabili. Weininger coglie dunque nella riflessione sugli ‘accoppiamenti deboli’ la chiave di lettura del Web che chiameremo Semantico, e 2.0: il Web che si propone come piattaforma per fare da base a “interazioni ricorrenti e ricorsive” tra persone.

venerdì 8 luglio 2011

Il dato come descrizione codificata della cosa

Questo è un nodo centrale della riflessione che porto avanti. Perciò, in questo blog che è un cantiere, o un baule di materiali provvisori, eccomi tornare sullo stesso argomento dell'ultimo post pubblicato prima di questo.
Se lo scrivere usando il computer ci insegna qualcosa, il primo insegnamento è che nessun testo è definitivo.


Vivendo e lavorando l’uomo crea se stesso. Si può quindi pensare all’uomo a prescindere dalle cose. Ma la cosa resta fondamentale nella vita e nel lavoro dell’uomo. Viviamo e lavoriamo osservando cose, creando cose, scambiando cose, utilizzando cose.
Eppure, delle cose abbiamo una percezione imprecisa. La cosa è, in fondo, indescrivibile, inconoscibile. Possiamo intendere la filosofia come il tentativo di dire ‘cosa è la cosa’. Kant ci dice che -essendo la cosa inafferrabile attraverso l’esperienza ‘fisica’, nella vita quotidiana- dobbiamo spostarci di piano. Ciò che per Kant può essere conosciuto è solo la rappresentazione mentale della cosa.
Qui interviene l’informatica, che è prosecuzione della filosofia con altri mezzi. Se la cosa è inconoscibile, può essere però conosciuto il dato che la rappresenta. Come vuole Kant, il dato descrive la cosa attraverso linguaggi formalizzati. Se pur non possiamo afferrare la cosa, sono conoscibili, e maneggiabili, i dati che la descrivono. Allo sfuggirci dell’essenza della cosa, si risponde con la ‘certezza del dato’.
Dobbiamo quindi spostare l’attenzione, e chiederci cosa è il dato.
Il dato è la descrizione della cosa. Dato, non a caso, deriva da data. Si conviene dunque che la conveniente descrizione della cosa esiste dal momento in cui questa descrizione -possiamo chiamarla codifica- passa di mano. Questo è infatti il senso del latino littera data, lettera consegnata al messaggero. La data, dunque, è l’attimo successivo a quello in cui ‘sto dando’; è l’attimo in cui posso dire: ‘ho dato’. In questo attimo posso affermare che la descrizione esiste, che è un dato.
Lo spagnolo sposta l’attenzione. Invece di littera data, carta fecha, ‘carta fatta’, ‘lettera scritta’ -la data è infatti in spagnolo la fecha-. E’ uno spostamento significativo dal punto di vista del lavoro: il momento chiave non è quello in cui scambio o consegno, bensì il momento in cui faccio.
Ma anche nella situazione proposta dalla lingua spagnola, a ben guardare, restiamo sul piano della convenzione. Nessuno può dire con precisione quando ho finito di fare la cosa.
Se io descrivessi la cosa un attimo prima o un attimo dopo, la descrizione sarebbe diversa. E dunque, la formalizzazione dell’informatica non ci salva. Se la cosa resta inconoscibile, anche la sua descrizione è sempre convenzionale.
E dunque non resta che chiederci si quali basi si fonda la convenzione. Proprio di questo interrogativo ci parla, in fondo, la cosa. Il latino ci ricorda che cosa deriva da causa. La descrizione della cosa è quindi ‘decisa da un tribunale’. Il tedesco Ding e l’inglese thing ci propongono invece l’idea che la descrizione della cosa sia ‘decisa da un’assemblea’.
Possiamo preferire l’autorità del giudice o l’autorità dell’assemblea. Ma in ogni caso il dato -la descrizione della cosa, alla cui certezza così tanto ci piace afferraci- non è che una convenzione.

mercoledì 11 maggio 2011

L'ambigua natura del dato

Un professionista dell'informatica non troverà certo oscuro il concetto kantiano di Ding an sich, 'cosa in sé'. La cosa in sé è ciò che il professionista dell'informatica chiama dato. Al fondo, all'interno di una base dati strutturata, al fondo di un System, o meglio, di un Bezugssystem, di una Gestalt, stanno i dati, quelle cose in sé, quelle cose idealizzate e formalizzate, tanto da poter interagire tra di loro.
Il sistema rappresenta, e rende intellegibile, il coacervo di esperienze. Ma a patto di osservare, della complessa cosa, solo la cosa in sé. A patto di tener conto, di ciò che empiricamente sperimentiamo ed osserviamo, solo ciò che passa al vaglio del data model, di un modello di rappresentazione 'razionale', 'scientifica', ottimizzata' definito a priori. Modello che prescinde dal mio sguardo. Di quello che vedo e faccio, conta solo ciò che il modello prevede.
Trova qui la sua ragione filosofica quell''impoverimento dell'informazione' che -in informatica come nelle tecniche contabili- accettiamo come necessità. Pur di avere dati certi, rinunciamo a gran parte delle informazioni.
Lo scorrere del tempo, l'evolversi di un processo, in informatica (così come nelle tecniche contabili) non sono in realtà presi in considerazione. Quale che siano le conseguenze dello scorrere del tempo, si considerano 'buoni' solo i dati previsti dal modello.
Perciò, per ragionare sulla natura di ciò che chiamiamo dato, dobbiamo tornare a ciò che chiamiamo tempo.
Il tempo può essere inteso come sequenza di vuoti, identici, contenitori da riempire di attività. Attimo: spazio brevissimo di tempo, variante di atomo.
E' un susseguirsi di istanti. Instans, 'ciò che accade ora', Instare, 'star sopra', 'incombere', 'incalzare', quindi: 'essere imminente'. E' la speranza o l'attesa che accada, avvenga qualcosa: istantia: 'imminenza', 'domanda che insiste' (insistere: ancora 'stare sopra), 'domanda che attende immediata risposta'. E' la situazione 'locale': qualcosa sta vicino a qualcos'altro, qui, in questo momento.
Tutto questo accade in ogni momento. Momentum: 'impulso' (participio passato di impellere, 'spingere avanti'), contrazione di movimentum, derivato di movere, radice meu, 'spostarsi'.
Dunque: un continuo movimento, un processo. E noi che cerchiamo di non perdere l'attimo nel quale potrebbe accadere qualcosa. L' attimo nel quale le nostre domande potrebbero avere risposta, e i nostri bisogni soddisfatti.
Come determinare con precisione l'attimo –fuggente, fugace– in cui è avvenuto qualcosa? Così, di fronte all'inafferrabilità dell'attimo, ci siamo creati un illusorio, ma rassicurante modo di fermare il tempo – e con il tempo, il fluire della conoscenza e della ricchezza.
Eccoci al concetto di data. Che si fonda su una immagine: la lettera, 'comunicazione scritta'.
Data, dal latino medievale líttera dàta, è la formula, apposta in testa o in calce allo scritto, o sulla busta, indicante il luogo e il momento in cui la lettera veniva consegnata al portatore. In italiano dal 1500, così come in portoghese, data, in francese e inglese date.
Anche in spagnolo troviamo la data data, ma nel 1600 prevale fecha, nel senso lettera 'fatta', cioè 'scritta nel tal giorno e nel tal luogo'. Lo spagnolo ci illumina: il momento in cui 'faccio la lettera', il momento in cui penso e di conseguenza scrivo, resta legato alla soggettività della persona. L'atto è personale, e quindi la cosa, il dato riguarda la persona, sta nel suo dominio. La pretesa, oggettiva certezza del dato qui è del tutto assente.
Ciò che è fatto da ognuno non può essere esattamente circoscritto. Perciò, in mancanza di meglio, si sceglie a fondamento della misura economica e informatica un attimo forse meno importante, ma indiscutibile: l'attimo in cui avviene il passaggio di mano, lo scambio: il momento della transazione.
Eccoci quindi al latino datum, participio passato di dare. Ritroviamo il neutro latino datum in tedesco, mentre in inglese prevale dalla metà del 1600 il plurale di datum: data.
La certezza dei dati, fondamento e dogma della contabilità e dell'informatica, si appoggia dunque su una mera convenzione. Del flusso degli eventi, colgo solo un istante. La lettera scritta e consegnata in un attimo diverso, sarebbe diversa. Ma non potendo controllare questa conoscenza possibile, la trascuro. Faccio come se non esistesse.

venerdì 4 marzo 2011

Un certo tipo di letteratura e altri scritti

Ho provato qui in estrema sintesi a indicare un percorso che può portarci a ripensare ciò che intendiamo per letteratura alla luce della lezione del computing e delle Web Technologies.
Aggiungo qui qualche traccia di percorsi che ho esplorato. Testi che sul Web hanno trovato qualche lettore. E già qui sta un motivo di riflessione: è così importante, è forse indispensabile pubblicare un libro quando un numero significativo di persone si sono già avvicinati a testi che presentano il mio pensiero? Cosa aggiunge al valore di ciò che sostengo la pubblicazione sotto forma di libro?
Il primo scritto che segnalo è Un certo tipo di letteratura. Dove si mostra la contiguità tra letteratura, la narrazione, e ciò che si tende a chiamare oggi Knowledge Management. Parto da un folgorante, illuminante exergo di Ted Nelson, il gran visionario che negli anni '60 del secolo scorso pensò l'ipertesto -il resto come rete e non solo come sequenza-, pensò al supporto cartaceo come vincolo limitante, pensò alla letteratura come processo incessante. La frase -che è presumibilmente del 1981- sembra scritta oggi, e ci illumina sul presente:

Immaginate un’accessibilità e un entusiasmo nuovi, che possano schiodare la narcosi da video che oggi incombe sul Paese come una cappa di nebbia. Immaginate una nuova cultura libertaria dove spiegazioni alternative permettono a chiunque di scegliere l’approccio e il tracciato a lui più confacente; dove le idee siano accessibili e interessanti per chiunque, così che l’esperienza umana possa godere di una nuova libertà e di una nuova ricchezza; immaginate una rinascita della letteratura.
Ted H. Nelson, Literary Machines, 1981

Il secondo testo che propongo è La restituzione poetica. Qui metto in gioco lo 'sguardo etnografico' che mi ha guidato quando lavoravo come antropologo, sguardo con il quale poi, mi sono reso conto, ho continuato a guardare il mondo, da critico letterario, da analista di organizzazione, così come da poeta in prima persona. (Da questo sguardo del poeta, che è allo stesso tempo scienziato, nasce il mio interesse per Goethe, interesse di cui in questo blog trovate vari cenni).
Il terzo e il quarto testo connettono i miei ragionamenti sul futuro della letteratura -ovvero la letteratura come rete di testi che rimandano a testi che rimandano a testi...- con lo studio di una letteratura in particolare, o forse dovrei dire una meta-letteratura: la letteratura in lingua spagnola, e la lingua ad essa legata, nel loro continuo andirivieni tra due mondi, di qua e di là dall'Oceano, e andirivieni tra tempi diversi, ma in fondo compresenti: la lingua del 1500, la lingua del finire del Ventesimo Secolo. E' il tema a cui ho dedicato nel 1998 Viaggio letterario in America Latina, un saggio per lungo tempo inaccessibile, perché esaurito, ora di nuovo disponibile presso un diverso editore, ed anche accessibile in buona misura su Google Libri -ancora un esempio di come il libro oggetto limita l'accesso alla conoscenza, e di come invece il Web, in forma nuove, ripropone e allarga l'accesso. ristampato,

sabato 29 gennaio 2011

Against Facebook

Anch’io sono su Facebook, e mi dirà qualcuno che legge se per coerenza dovrei togliermi di lì.
Ma i motivi per criticare questa piattaforma sono tali e tanti che non si può star zitti. Fa impressione la miope accondiscendenza con la quale accettiamo la sostituzione del World Wide Web con questo simulacro. Fa impressione la piaggeria con la quale ci accodiamo gli uni agli altri, aprendo pagine personali ed aziendali in questo luogo chiuso, negatore già in origine della liberà digitale. Fa impressione la passività con la quale, pur di essere presenti lì, accettiamo vincoli umilianti – fino a cedere i diritti di ciò che è nostro a chi governa quel sottomondo.
Fa impressione notare come non si colga la differenza tra la galassia Google e questa ridicola gabbia. E' giusto vedere in Google una minaccia, per come Google è in grado di sapere di noi, e tracciare i nostri comportamenti. Ma almeno, tutto ciò che Google propone, ogni luogo ed ogni strumento, si fonda sui protocolli Internet, e sulle raccomandazioni che governano il World Wide Web. Ogni dato può essere connesso ad ogni altro dato, dentro e fuori dal perimetro di ciò che Google ci offre. Google, al di là di tutto, sta nel World Wide Web, che è un luogo pubblico e in fondo democratico, fondato su regole in buona misura trasparenti e condivise.
Google accetta l’idea dei Commons, anzi la sostiene. Ognuno può contribuire alla creazione di risorse condivise, le mie conoscenze sono anche le tue, la mia rete è anche la tua. Puristi criticano giustamente Google per l’imperfezione con la quale rispetta i fondamenti del Web Semantico, “a common framework that allows data to be shared and reused across application, enterprise, and community boundaries”. Ma se Google rispetta le regole della condivisione in modo parziale, Facebook se ne frega del tutto. Facebook pretende di sostituirsi al World Wide Web. Ci impone un suo codice, e impone le regole in base alle quali ognuno deve sottostare. Impone ad ognuno il proprio framework, consapevolmente impedisce che i dati siano “shared and reused across application, enterprise, and community boundaries”.
Dispiace, dicevo, osservare la piaggeria, la disponibilità alla sudditanza, l'atteggiamento remissivo di operatori di imprese, attori di vario tipo, società di consulenza, anche di origine universitaria, che spingono ad utilizzare Facebook, proponendolo anche in ambiti aziendali.
Guarda caso sono gli stessi che spingono con tutte le loro forze sul pedale dell’iPad. Chiaro il disegno. Con l’iPad si pretende di sostituire il World Wide Web in un mondo chiuso tramite le limitazioni del browser, e quindi tramite la trasformazione di liberi accessi via Web in applicazione controllate. Con Facebook, parallelamente, secondo braccio della stessa strategia a tenaglia, si pretende di sostituire il World Wide Web con una sua versione stupida e povera. Dove il ‘cittadino digitale’ è di nuovo ridotto ad utente.
Per applicazioni importanti e difficili, così, ognuno dovrà ricorre ai soliti esperti che ci dicono cosa fare, come fare, e ci fanno pagare per darci, a fronte di un nostro bisogno, un qualche aggeggio costruito in modo tale da assoggettarci al controllo. Per chi si occupa da professionista di informatica, il solito dispetto nei confronti degli strumenti che fanno venir meno la loro necessaria mediazione; il solito tentativo di rendere banale ciò che le persone possono fare da sole; il solito tentativo di ripristinare il loro controllo ed il loro necessario intervento.
E così tutti noi, eccoci a giochicchiare con Facebook, sprecando così il tempo che potremmo dedicare a navigare nel vasto mare del Web; rinunciando anche a quel po’ di costruttiva fatica necessaria per mettere in piedi un proprio blog. Eccoci qui a subire l’aspettativa di coloro a cui fa comodo che ce ne stiamo buoni buoni dentro Facebook. Fa comodo che si stia lì a cazzeggiare, a mettere lì la fotina accompagnata da qualche tag, a dire cosa mi passa per la mente ora, a dire due parole sull'ultimo libro letto o il film visto.
Non ci fa onore, sopratutto, limitarci a dire mi piace o non mi piace. Non siamo nati per essere follower. La Rete ci libera dall'essere gregari. Ma Facebook ci ricaccia in uno spazio chiuso, predeterminato, uniformato, livellato in basso.
Il mettere le nostre piccolo cose lì dove e come Facebook ci concede di metterle, è costruire conoscenza? In parte sì. Non disprezziamo nulla. Prendiamo quello che c'è di buono anche in Facebook, d'accordo. Facebook, si dice, ha contribuito alle recenti rivoluzioni democratiche in Nord Africa.
Meglio Facebook che nulla. Eppure Facebook resta la caricatura di ciò che un 'social network' potrebbe essere. La responsabilità, come sempre, è nostra. Di noi che anche di fronte a strumenti che ci permettono di 'stare al centro', preferiamo per pigrizia il ruolo di seguaci.
Il successo universale non è motivo sufficiente per dar valore a una cosa. I libri che vendono di più non sono sempre i migliori. Le piattaforme Web più diffuse non sono per questo le più utili, le più libere, le più etiche.
Confrontate Facebook con Ushahidi. Da un lato un mondo-giocattolo, dove tutti siamo ridotti alla misera apparente libertà che può avere il povero Truman Burbank chiuso nel suo universo di cartapesta, ognuno di noi ridotto a vivere in un Truman Show. Dall’altro il vero mondo abitato da uomini liberi, che si auto-organizzano per offrirsi reciprocamente, tramite reti sociali, i servizi che gli Stati e le organizzazioni pubbliche e private non sanno, o non voglio offrire.
Non a caso, a guidare i due progetti, da un lato ragazzi viziati, arroganti, cresciuti nei falsi miti dell’Occidente, tesi a nient’altro che a guadagnare senza limite vile denaro. Dall’altro kenioti e ugandesi, uomini e donne che hanno studiato a costo di enormi sacrifici, che hanno toccato con mano la povertà ed i veri bisogni.

venerdì 28 gennaio 2011

Il Web è la letteratura, la letteratura è il Web

Cosa è la letteratura. Una domanda che pare eccessiva, o troppo banale.
Borges, forse più di ogni altro autore del Ventesimo Secolo, ci spinge a osare, e a non dare per scontato lo ‘spazio letterario’. La Biblioteca di Babele distrugge i confini limitati che la nozione stessa di biblioteca porta con se. La costruzione di senso ci appare nel giardino dei sentieri che si biforcano slegata da qualsiasi cammino già percorso. Menard che riscrive il Don Quijote distrugge il ruolo consolidato dell’autore inteso come forgiatore di opera nuova. Funes che non riesce a dimenticare distrugge il ruolo del lettore stupido di fronte ad un libro nuovo.
Lo sguardo di Borges si affaccia dall’esterno sulla letteratura che conosciamo, facendocela apparire come niente più di una delle letterature possibili. I confini tra generi letterari, tra letterature nazionali, tra letteratura alta e letteratura bassa, tra mainstream e schund, alla luce del suo sguardo, ci appaiono del tutto convenzionali.
E ancora la letteratura, con Borges, ci appare come ‘costruzione in abisso’: Borges meta-autore scrive di Borges autore; dentro una biblioteca universale sta una biblioteca che contiene un altra biblioteca, e così in un gioco infinito. E dentro un libro sta un libro rimanda ad ogni altro libro. E dunque la letteratura è un sistema ricorsivo: una macchina per compiere attività ripetitive. E dunque la letteratura è un meta-testo che contiene ogni testo. E dunque la letteratura è un prodotto collettivo, dove la figura del singolo autore appare ricondotta al suo marginalissimo significato. Il singolo autore è autore di niente più che minuscole varianti di un’opera che è costruzione sociale in continuo divenire. Ogni singola opera non è che una rete intimamente connesse a una rete più vasta, opera omnia.
Possiamo dire che Borges, con lo sguardo anticipatore dell’artista, ci parla della letteratura così come essa ci si presenta nell’epoca del computing e del World Wide Web.
Possiamo allora forse dire che Borges ci guida nel rispondere ad un fascio di interrogativi che osservatori attenti si pongono.
Cosa cambia nella macchina della produzione di letteratura lì dove la letteratura è prodotta per mezzo di computer – perché ormai l’autore scrive con un word processor – e quindi ogni testo è un testo digitalizzalo. E perché anche dove l’autore continui a scrivere con carta e penna il testo è rivisto da editor ed editori mediante computer, ed in ogni caso la digitalizzazione è necessaria mediazione anche per la stampa del tradizionale libro cartaceo.
Cosa cambia quando il testo è impalpabile ‘software’, codice digitalizzato, scrittura che può generare manifestazioni differenti, manifestazioni che possono apparire agli occhi del fruitore come sequenze di segni alfabetici, di ideogrammi, di immagini fisse o in movimento, di suoni o di musica.
Cosa cambia quando di fronte a questo testo, sempre potenzialmente in fieri, autore, lettore ed interprete perdono le reciproche distante, fino ad apparire come diversi atteggiamenti di una stesso persona.
Cosa cambia quando la letteratura è fruibile come sistema percorribile muovendosi all’interno della singola opera con libertà sconfinata, seguendo una parola, una frase, un percorso di senso. Cosa cambia quando il testo non è più unidirezionale, condizionato da un inizio ed una fine, da un incipit ed un explicit, ed è invece liberamente percorribile come rete. Questa enorme novità, possiamo sottolineare, è talmente rivoluzionaria da spingerci ad adottare una nuovo termine: ‘ipertesto’. Perché, sebbene ogni testo sia potenzialmente ciò che oggi intendiamo con ‘ipertesto’, la parola testo -che pure sta per ‘tessuto’, e quindi ci parla già di questa possibilità, di questa implicita rete- la parola testo vede ridotto il suo senso dall’analogia con il libro.
Cosa cambia quando la letteratura –intesa come biblioteca digitale– è percorribile attraversando le singole opere, scomponendole e ricomponendole, in enne sempre diverse opere possibili.
Cosicché quando parliamo di ‘critica del testo’, o di ‘teoria della letteratura’, limitiamo il nostro pensiero alla letteratura fatta di opere discrete, ognuna chiusa nella forma di singolo libro.
E cosa cambia quando la letteratura non è più soggetta all’oblio. La produzione letteraria, abbiamo sempre pensato, gode del vincolo legato alla memoria. La memoria ci appariva fino ad ieri per sua natura limitata. L’impossibilità di ricordare tutto ci impone di reinventare. Il poeta, ci siamo detti, è colui che abusa: va oltre il senso già dato. Ma se ora disponiamo di memoria infinita, se tutto può essere ricordato, se è facile accedere a tutto ciò che è stato scritto, ed anche a tutta la letteratura orale, quale spazio resta, o si apre, per la creazione letteraria.
Sono domande senza risposta. Ma le domande ci permettono di dire che la letteratura è altrove, non è più, solo, lì dove la cercavamo. Non è più solo nelle poche opera pubblicate, conservate in biblioteche sotto forma di libri cartacei. Non è più solo dove continuano a cercarla critici letterari, storici della letteratura, filologi.
In questa luce ci appare criticabile l’atteggiamento di studiosi che si affacciano sullo scenario aperto dalle ‘nuove tecnologie’, e magari si interrogano a proposito della ‘lingua del web’ ed lavora su corpora estratti dal Web. Il loro atteggiamento è criticabile perché considerano la ‘letteratura sul Web’, un mondo separato e minore rispetto al nobile mondo letterario fatto di tradizionali libri.
In questa luce appare criticabile l’atteggiamento di quegli studiosi ben disposti verso il nuovo che emerge, e che pure meravigliati si interrogano sul perché non sia apparso, nei dieci o vent’anni di vita del Web, nessuna opera che ai loro occhi di critici attenti appaia come ‘capolavoro’. Essi cercano il ‘capolavoro’ lì dove, nel nuovo scenario, non può essere. Cercano la singola opera, così come la si poteva cercare nel mondo letterario fatto di opere discrete, di singole opere chiuse in singoli libri.
Dovremmo imparare a guardare altrimenti alla letteratura. La letteratura è il World Wide Web. Il World Wide Web è la letteratura. Nel Web potremo trovare, come Borges ci ha insegnato, ogni opera possibile. Il ‘capolavoro’ è lì, ma non già costruito, inteso come unico capolavoro possibile. Nel Web sta il capolavoro come sistema di possibilità, come testo potenziale. Forse sarà il critico attento, forse ogni ‘lettore’, a costruire ‘capolavori’ muovendosi nella gran galassia.
Oltre Borges, mi pare che ci guidi Marx quando parlava di General Intellect. E mi pare abbastanza evidente il filo che lega la noosfera di Theilard de Chardin, il pianeta modificata dal pensiero umano in una continua evoluzione, alla biosfera di Vernadski,il globo terrestre inteso come sistema vivente unitario. Altrettanto evidente è il passaggio dalla biosfera di Vernadski alla semiosfera di Lotman. La semiosfera è il luogo della semiosi, della continua, indefessa produzione di senso.
Forse proprio da Lotman dovremmo ripartire, se il nostro scopo è intendere perché il Web è la letteratura e la letteratura è il Web.
“L’universo semiotico”, ci dice Lotman, “può essere considerato un insieme di testi e di linguaggi separati l’uno dall’altro. In questo caso tutto l’edificio apparirà formato da singoli mattoni”. E questa è la letteratura che conosciamo, fatta di sigole opere, singoli libri, singole biblioteche. “È però più feconda”, continua Lotman, “l’impostazione opposta. Tutto lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico meccanismo (se non come un unico organismo). Ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il ‘grande sistema’ chiamato semiosfera”.

mercoledì 19 gennaio 2011

Una possibile meta-lezione universitaria, ovvero Podcast e Webcast su iTune University

Il Corso di Laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica dell'Università di Pisa ha generato un Laboratorio di Cultura Digitale. Il Laboratorio di Cultura digitale ha prodotto una serie di 'testi multimediali ed ipertestuali' relativi a insegnamenti del Corso stesso, e in genere dell'Università di Pisa. Questi 'testi', in virtù di un accordo con la Apple, sono disponibili come Webcast e Podcast su iTune University.
Uno dei primi 'testi', montato -a partire da miei materiali- dal ricercatore Alberto Dalla Rosa, è una mia 'lezione' sul tema del mio insegnamento 'Tecnologie dell'informazione e produzione di letteratura'.
Debbo necessariamente scrivere 'lezione' tra virgolette. Perché dobbiamo chiederci: cosa è davvero una lezione universitaria? E che senso ha oggi l'Università, luogo tra i tanti in una pluralità di media e di ambienti di apprendimento? Come si riconfigura il ruolo del 'docente' in un quadro che ci vede tutti knowledge worker?
Ecco dunque un piccolo esempio di narrazione non troppo accademica, che pone al centro degli interrogativi attorno ai quali ragiono in questo blog. Come si scrive e come si legge oggi? Come si produce letteratura?
Una notte ho narrato a me stesso scrivendo con la voce...Qui riporto brani di quello che ho chiamato 'Discorso notturno a me stesso'. E qui racconto come è nato questo 'discorso'. E anche da dove viene in titolo di questo blog: Dieci chili di perle.
Lo 'scrivere', oggi, con gli strumenti di cui disponiamo, vada ben oltre il 'vergare segni su un supporto cartaceo'.
Oggi allo 'scrivere con una penna', vergando segni su un supporto  che chiamiamo 'foglio, si affianca lo scrivere interagendo con un Personal Computer dotato di word processor tramite una tastiera; e affianca anche lo 'scrivere con la voce'.
La scrittura così, quale sia il mezzo usato, ci appare come manifestazione, formalizzazione del personale pensiero mediata da diverse tecnologie. Dunque dobbiamo chiederci a quali diversi risultati ci porta lo scrivere in diversi ambienti e contesti tecnologici.
E' importante ricordare che il Personal Computer non è una macchina con la quale si pretende di sostituire l'uomo, una macchina alla quale l'uomo è asservito, ma al contrario, è una protesi del nostro personale sistema mente-corpo, uno strumento, un utensile, che permette all'uomo di 'espandere l'area della propria coscienza', come voleva Licklider.
E ancora possiamo dire che questo modo 'allargato' di intendere la scrittura si fonda con quella interazione con strumenti e utensili di cui parla in modo illuminante Heidegger quando ci propone il concetto di Zuhandenheit.