sabato 29 gennaio 2011

Against Facebook

Anch’io sono su Facebook, e mi dirà qualcuno che legge se per coerenza dovrei togliermi di lì.
Ma i motivi per criticare questa piattaforma sono tali e tanti che non si può star zitti. Fa impressione la miope accondiscendenza con la quale accettiamo la sostituzione del World Wide Web con questo simulacro. Fa impressione la piaggeria con la quale ci accodiamo gli uni agli altri, aprendo pagine personali ed aziendali in questo luogo chiuso, negatore già in origine della liberà digitale. Fa impressione la passività con la quale, pur di essere presenti lì, accettiamo vincoli umilianti – fino a cedere i diritti di ciò che è nostro a chi governa quel sottomondo.
Fa impressione notare come non si colga la differenza tra la galassia Google e questa ridicola gabbia. E' giusto vedere in Google una minaccia, per come Google è in grado di sapere di noi, e tracciare i nostri comportamenti. Ma almeno, tutto ciò che Google propone, ogni luogo ed ogni strumento, si fonda sui protocolli Internet, e sulle raccomandazioni che governano il World Wide Web. Ogni dato può essere connesso ad ogni altro dato, dentro e fuori dal perimetro di ciò che Google ci offre. Google, al di là di tutto, sta nel World Wide Web, che è un luogo pubblico e in fondo democratico, fondato su regole in buona misura trasparenti e condivise.
Google accetta l’idea dei Commons, anzi la sostiene. Ognuno può contribuire alla creazione di risorse condivise, le mie conoscenze sono anche le tue, la mia rete è anche la tua. Puristi criticano giustamente Google per l’imperfezione con la quale rispetta i fondamenti del Web Semantico, “a common framework that allows data to be shared and reused across application, enterprise, and community boundaries”. Ma se Google rispetta le regole della condivisione in modo parziale, Facebook se ne frega del tutto. Facebook pretende di sostituirsi al World Wide Web. Ci impone un suo codice, e impone le regole in base alle quali ognuno deve sottostare. Impone ad ognuno il proprio framework, consapevolmente impedisce che i dati siano “shared and reused across application, enterprise, and community boundaries”.
Dispiace, dicevo, osservare la piaggeria, la disponibilità alla sudditanza, l'atteggiamento remissivo di operatori di imprese, attori di vario tipo, società di consulenza, anche di origine universitaria, che spingono ad utilizzare Facebook, proponendolo anche in ambiti aziendali.
Guarda caso sono gli stessi che spingono con tutte le loro forze sul pedale dell’iPad. Chiaro il disegno. Con l’iPad si pretende di sostituire il World Wide Web in un mondo chiuso tramite le limitazioni del browser, e quindi tramite la trasformazione di liberi accessi via Web in applicazione controllate. Con Facebook, parallelamente, secondo braccio della stessa strategia a tenaglia, si pretende di sostituire il World Wide Web con una sua versione stupida e povera. Dove il ‘cittadino digitale’ è di nuovo ridotto ad utente.
Per applicazioni importanti e difficili, così, ognuno dovrà ricorre ai soliti esperti che ci dicono cosa fare, come fare, e ci fanno pagare per darci, a fronte di un nostro bisogno, un qualche aggeggio costruito in modo tale da assoggettarci al controllo. Per chi si occupa da professionista di informatica, il solito dispetto nei confronti degli strumenti che fanno venir meno la loro necessaria mediazione; il solito tentativo di rendere banale ciò che le persone possono fare da sole; il solito tentativo di ripristinare il loro controllo ed il loro necessario intervento.
E così tutti noi, eccoci a giochicchiare con Facebook, sprecando così il tempo che potremmo dedicare a navigare nel vasto mare del Web; rinunciando anche a quel po’ di costruttiva fatica necessaria per mettere in piedi un proprio blog. Eccoci qui a subire l’aspettativa di coloro a cui fa comodo che ce ne stiamo buoni buoni dentro Facebook. Fa comodo che si stia lì a cazzeggiare, a mettere lì la fotina accompagnata da qualche tag, a dire cosa mi passa per la mente ora, a dire due parole sull'ultimo libro letto o il film visto.
Non ci fa onore, sopratutto, limitarci a dire mi piace o non mi piace. Non siamo nati per essere follower. La Rete ci libera dall'essere gregari. Ma Facebook ci ricaccia in uno spazio chiuso, predeterminato, uniformato, livellato in basso.
Il mettere le nostre piccolo cose lì dove e come Facebook ci concede di metterle, è costruire conoscenza? In parte sì. Non disprezziamo nulla. Prendiamo quello che c'è di buono anche in Facebook, d'accordo. Facebook, si dice, ha contribuito alle recenti rivoluzioni democratiche in Nord Africa.
Meglio Facebook che nulla. Eppure Facebook resta la caricatura di ciò che un 'social network' potrebbe essere. La responsabilità, come sempre, è nostra. Di noi che anche di fronte a strumenti che ci permettono di 'stare al centro', preferiamo per pigrizia il ruolo di seguaci.
Il successo universale non è motivo sufficiente per dar valore a una cosa. I libri che vendono di più non sono sempre i migliori. Le piattaforme Web più diffuse non sono per questo le più utili, le più libere, le più etiche.
Confrontate Facebook con Ushahidi. Da un lato un mondo-giocattolo, dove tutti siamo ridotti alla misera apparente libertà che può avere il povero Truman Burbank chiuso nel suo universo di cartapesta, ognuno di noi ridotto a vivere in un Truman Show. Dall’altro il vero mondo abitato da uomini liberi, che si auto-organizzano per offrirsi reciprocamente, tramite reti sociali, i servizi che gli Stati e le organizzazioni pubbliche e private non sanno, o non voglio offrire.
Non a caso, a guidare i due progetti, da un lato ragazzi viziati, arroganti, cresciuti nei falsi miti dell’Occidente, tesi a nient’altro che a guadagnare senza limite vile denaro. Dall’altro kenioti e ugandesi, uomini e donne che hanno studiato a costo di enormi sacrifici, che hanno toccato con mano la povertà ed i veri bisogni.

venerdì 28 gennaio 2011

Il Web è la letteratura, la letteratura è il Web

Cosa è la letteratura. Una domanda che pare eccessiva, o troppo banale.
Borges, forse più di ogni altro autore del Ventesimo Secolo, ci spinge a osare, e a non dare per scontato lo ‘spazio letterario’. La Biblioteca di Babele distrugge i confini limitati che la nozione stessa di biblioteca porta con se. La costruzione di senso ci appare nel giardino dei sentieri che si biforcano slegata da qualsiasi cammino già percorso. Menard che riscrive il Don Quijote distrugge il ruolo consolidato dell’autore inteso come forgiatore di opera nuova. Funes che non riesce a dimenticare distrugge il ruolo del lettore stupido di fronte ad un libro nuovo.
Lo sguardo di Borges si affaccia dall’esterno sulla letteratura che conosciamo, facendocela apparire come niente più di una delle letterature possibili. I confini tra generi letterari, tra letterature nazionali, tra letteratura alta e letteratura bassa, tra mainstream e schund, alla luce del suo sguardo, ci appaiono del tutto convenzionali.
E ancora la letteratura, con Borges, ci appare come ‘costruzione in abisso’: Borges meta-autore scrive di Borges autore; dentro una biblioteca universale sta una biblioteca che contiene un altra biblioteca, e così in un gioco infinito. E dentro un libro sta un libro rimanda ad ogni altro libro. E dunque la letteratura è un sistema ricorsivo: una macchina per compiere attività ripetitive. E dunque la letteratura è un meta-testo che contiene ogni testo. E dunque la letteratura è un prodotto collettivo, dove la figura del singolo autore appare ricondotta al suo marginalissimo significato. Il singolo autore è autore di niente più che minuscole varianti di un’opera che è costruzione sociale in continuo divenire. Ogni singola opera non è che una rete intimamente connesse a una rete più vasta, opera omnia.
Possiamo dire che Borges, con lo sguardo anticipatore dell’artista, ci parla della letteratura così come essa ci si presenta nell’epoca del computing e del World Wide Web.
Possiamo allora forse dire che Borges ci guida nel rispondere ad un fascio di interrogativi che osservatori attenti si pongono.
Cosa cambia nella macchina della produzione di letteratura lì dove la letteratura è prodotta per mezzo di computer – perché ormai l’autore scrive con un word processor – e quindi ogni testo è un testo digitalizzalo. E perché anche dove l’autore continui a scrivere con carta e penna il testo è rivisto da editor ed editori mediante computer, ed in ogni caso la digitalizzazione è necessaria mediazione anche per la stampa del tradizionale libro cartaceo.
Cosa cambia quando il testo è impalpabile ‘software’, codice digitalizzato, scrittura che può generare manifestazioni differenti, manifestazioni che possono apparire agli occhi del fruitore come sequenze di segni alfabetici, di ideogrammi, di immagini fisse o in movimento, di suoni o di musica.
Cosa cambia quando di fronte a questo testo, sempre potenzialmente in fieri, autore, lettore ed interprete perdono le reciproche distante, fino ad apparire come diversi atteggiamenti di una stesso persona.
Cosa cambia quando la letteratura è fruibile come sistema percorribile muovendosi all’interno della singola opera con libertà sconfinata, seguendo una parola, una frase, un percorso di senso. Cosa cambia quando il testo non è più unidirezionale, condizionato da un inizio ed una fine, da un incipit ed un explicit, ed è invece liberamente percorribile come rete. Questa enorme novità, possiamo sottolineare, è talmente rivoluzionaria da spingerci ad adottare una nuovo termine: ‘ipertesto’. Perché, sebbene ogni testo sia potenzialmente ciò che oggi intendiamo con ‘ipertesto’, la parola testo -che pure sta per ‘tessuto’, e quindi ci parla già di questa possibilità, di questa implicita rete- la parola testo vede ridotto il suo senso dall’analogia con il libro.
Cosa cambia quando la letteratura –intesa come biblioteca digitale– è percorribile attraversando le singole opere, scomponendole e ricomponendole, in enne sempre diverse opere possibili.
Cosicché quando parliamo di ‘critica del testo’, o di ‘teoria della letteratura’, limitiamo il nostro pensiero alla letteratura fatta di opere discrete, ognuna chiusa nella forma di singolo libro.
E cosa cambia quando la letteratura non è più soggetta all’oblio. La produzione letteraria, abbiamo sempre pensato, gode del vincolo legato alla memoria. La memoria ci appariva fino ad ieri per sua natura limitata. L’impossibilità di ricordare tutto ci impone di reinventare. Il poeta, ci siamo detti, è colui che abusa: va oltre il senso già dato. Ma se ora disponiamo di memoria infinita, se tutto può essere ricordato, se è facile accedere a tutto ciò che è stato scritto, ed anche a tutta la letteratura orale, quale spazio resta, o si apre, per la creazione letteraria.
Sono domande senza risposta. Ma le domande ci permettono di dire che la letteratura è altrove, non è più, solo, lì dove la cercavamo. Non è più solo nelle poche opera pubblicate, conservate in biblioteche sotto forma di libri cartacei. Non è più solo dove continuano a cercarla critici letterari, storici della letteratura, filologi.
In questa luce ci appare criticabile l’atteggiamento di studiosi che si affacciano sullo scenario aperto dalle ‘nuove tecnologie’, e magari si interrogano a proposito della ‘lingua del web’ ed lavora su corpora estratti dal Web. Il loro atteggiamento è criticabile perché considerano la ‘letteratura sul Web’, un mondo separato e minore rispetto al nobile mondo letterario fatto di tradizionali libri.
In questa luce appare criticabile l’atteggiamento di quegli studiosi ben disposti verso il nuovo che emerge, e che pure meravigliati si interrogano sul perché non sia apparso, nei dieci o vent’anni di vita del Web, nessuna opera che ai loro occhi di critici attenti appaia come ‘capolavoro’. Essi cercano il ‘capolavoro’ lì dove, nel nuovo scenario, non può essere. Cercano la singola opera, così come la si poteva cercare nel mondo letterario fatto di opere discrete, di singole opere chiuse in singoli libri.
Dovremmo imparare a guardare altrimenti alla letteratura. La letteratura è il World Wide Web. Il World Wide Web è la letteratura. Nel Web potremo trovare, come Borges ci ha insegnato, ogni opera possibile. Il ‘capolavoro’ è lì, ma non già costruito, inteso come unico capolavoro possibile. Nel Web sta il capolavoro come sistema di possibilità, come testo potenziale. Forse sarà il critico attento, forse ogni ‘lettore’, a costruire ‘capolavori’ muovendosi nella gran galassia.
Oltre Borges, mi pare che ci guidi Marx quando parlava di General Intellect. E mi pare abbastanza evidente il filo che lega la noosfera di Theilard de Chardin, il pianeta modificata dal pensiero umano in una continua evoluzione, alla biosfera di Vernadski,il globo terrestre inteso come sistema vivente unitario. Altrettanto evidente è il passaggio dalla biosfera di Vernadski alla semiosfera di Lotman. La semiosfera è il luogo della semiosi, della continua, indefessa produzione di senso.
Forse proprio da Lotman dovremmo ripartire, se il nostro scopo è intendere perché il Web è la letteratura e la letteratura è il Web.
“L’universo semiotico”, ci dice Lotman, “può essere considerato un insieme di testi e di linguaggi separati l’uno dall’altro. In questo caso tutto l’edificio apparirà formato da singoli mattoni”. E questa è la letteratura che conosciamo, fatta di sigole opere, singoli libri, singole biblioteche. “È però più feconda”, continua Lotman, “l’impostazione opposta. Tutto lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico meccanismo (se non come un unico organismo). Ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il ‘grande sistema’ chiamato semiosfera”.

mercoledì 19 gennaio 2011

Una possibile meta-lezione universitaria, ovvero Podcast e Webcast su iTune University

Il Corso di Laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica dell'Università di Pisa ha generato un Laboratorio di Cultura Digitale. Il Laboratorio di Cultura digitale ha prodotto una serie di 'testi multimediali ed ipertestuali' relativi a insegnamenti del Corso stesso, e in genere dell'Università di Pisa. Questi 'testi', in virtù di un accordo con la Apple, sono disponibili come Webcast e Podcast su iTune University.
Uno dei primi 'testi', montato -a partire da miei materiali- dal ricercatore Alberto Dalla Rosa, è una mia 'lezione' sul tema del mio insegnamento 'Tecnologie dell'informazione e produzione di letteratura'.
Debbo necessariamente scrivere 'lezione' tra virgolette. Perché dobbiamo chiederci: cosa è davvero una lezione universitaria? E che senso ha oggi l'Università, luogo tra i tanti in una pluralità di media e di ambienti di apprendimento? Come si riconfigura il ruolo del 'docente' in un quadro che ci vede tutti knowledge worker?
Ecco dunque un piccolo esempio di narrazione non troppo accademica, che pone al centro degli interrogativi attorno ai quali ragiono in questo blog. Come si scrive e come si legge oggi? Come si produce letteratura?
Una notte ho narrato a me stesso scrivendo con la voce...Qui riporto brani di quello che ho chiamato 'Discorso notturno a me stesso'. E qui racconto come è nato questo 'discorso'. E anche da dove viene in titolo di questo blog: Dieci chili di perle.
Lo 'scrivere', oggi, con gli strumenti di cui disponiamo, vada ben oltre il 'vergare segni su un supporto cartaceo'.
Oggi allo 'scrivere con una penna', vergando segni su un supporto  che chiamiamo 'foglio, si affianca lo scrivere interagendo con un Personal Computer dotato di word processor tramite una tastiera; e affianca anche lo 'scrivere con la voce'.
La scrittura così, quale sia il mezzo usato, ci appare come manifestazione, formalizzazione del personale pensiero mediata da diverse tecnologie. Dunque dobbiamo chiederci a quali diversi risultati ci porta lo scrivere in diversi ambienti e contesti tecnologici.
E' importante ricordare che il Personal Computer non è una macchina con la quale si pretende di sostituire l'uomo, una macchina alla quale l'uomo è asservito, ma al contrario, è una protesi del nostro personale sistema mente-corpo, uno strumento, un utensile, che permette all'uomo di 'espandere l'area della propria coscienza', come voleva Licklider.
E ancora possiamo dire che questo modo 'allargato' di intendere la scrittura si fonda con quella interazione con strumenti e utensili di cui parla in modo illuminante Heidegger quando ci propone il concetto di Zuhandenheit.