Education
Il termine che meglio rappresenta oggi il processo formalizzato di trasferimento delle conoscenze è forse educazione. Un termine che troviamo in ogni lingua, ma che vale la pena qui citare in inglese, perché è in questa lingua che copre lo spazio semantico più ampio. Scholar's education, ma anche education per chiamare ciò che in italiano è detto formazione.
Ma il termine era sconosciuto prima della Riforma. Fino ad allora si usava allevare, latino ad -levare, 'portare su': insieme delle cure destinate a far crescere, sviluppare. Nelle cure di infanti e fanciulli non c'era confine preciso a separare l'allattare e l''insegnare'. Ancora più esplicito il francese élever. Da qui allievo ed éleve.
L'éducation infantile fu menzionata per la prima volta in un documento, in francese, nel 1498. In quell'anno Erasmo si stabiliva Oxford, Savonarola era bruciato vivo a Firenze.
Le Università, si sa erano nate ben prima. L'Alma Mater Studiorum di Bolgna è stata fondata forse nel 1088 o forse nel 1158. Ma lì si leggevano i classici, si studiava teologia o diritto, non si educava a proposito della vita quotidiana.
Le stesse élites dell'Illuminismo si formano sulla base della Ratio Studiorum, il 'piano di studi' delle Università dei Gesuiti, stabilito già nel 1599.
La Chiesa e gli eserciti e le imprese, producono le loro proprie élites facendo consumare il prodotto educazione in dose massiccia, soprattutto in giovarne età. Mentre a coloro che sono destinati a ruoli inferiori basta somministrare un pacchetto di educazione ridotto, pensato innanzitutto con lo scopo di illuminarli sulla inferiorità cui sono predestinati.
L'educazione esige propri luoghi e proprie forme – solo così, stando dentro anche regole di tempo e di luogo la conoscenza può essere : l'aula, la cattedra posta in lato rivolta verso i banchi schierati.
L'idea della educazione universale, della scuola obbligatoria, della struttura professionale equilibrata, del progresso tecnocratico si rinforzano l'un l'altra.
Ma presumibile supporre che tra qualche secolo, forse prima, questo modello ci apparirà del tutto superato. L’educazione, ovvero il modello fondato sulla scuola, sul libro, sui ruoli contrapposti di–docente e di discente sarà sostituita da modalità più ‘mobili’, di volta in volta differenti, ritagliate sulla persona e sulla fase della vita. Già oggi si apprende in luoghi diversi, da soli ed insieme ad altri, alimentando una Rete di condivisa, e allo stesso tempo attingendovi.
Libri
L'oggetto libro, così come lo conosciamo oggi, esiste da mille anni. Attorno al 1100 il codice miniato, oggetto destinato al pulpito, ad una lettura sacerdotale a voce alata, da uno a molti, si affianca un nuovo tipo di libro. Ancora manoscritto, ma non più illustrato, portatile, destinato ad una lettura silenziosa e individuale, fatto di segno alfabetici, dotato di copertina che prevede adeguati spazi per indicare autore e titolo, dotato di pagine numerate e sommari e indici e note.
E' già, in qualche misura un ipertesto: indici e sommari e note, appunto, permettono una fruizione che in qualche misura va oltre la pura lettura sequenziale.
Ma il testo, nel libro, è comunque 'messo in gabbia', chiuso in una forma data a priori. L'area di conoscenza esplorata da un testo è limitata dalla tecnologia, dai confini fisici dell'oggetto. La biblioteca è una raccolta di sistemi chiusi, impermeabili l'uno all'altro. Una connessione tra testo e testo è possibile solo attraverso un altro libro – che potrà contenere citazioni a libri precedenti. La conoscenza, chiusa nel libro, è ferma nel tempo, bloccata per sempre alla data di pubblicazione. Diversissimo il punto di partenza del testo digitalizzato: nessuna chiusura, ipertestualità, apertura a connessioni con altri testi, interattività.
e-Learning
Falso trend, nato morto, non è che banale replica virtuale del modello della scuola, del libro. Le piattaforme di e-Learning (Learning Management System, LMS) nascono per consentire solo accessi programmati, one to many. Ripresentano lezioni individuali, lezioni collettive, aule (virtuali) e financo bidelli (elettronici), niente cambia, se non in peggio, rispetto a quanto permetteva una educazione fondata su docenti in carne ed ossa e aule fatte di muri.
Agli specialisti dell'e-Learning, educatori sui generis, non interessa capire come le tecnologie permettono di pensare altrimenti il processo di trasferimento delle conoscenze. A loro, d'accordo con pedagogisti e scienziati dell'educazione e docimologi, ciò che interessa è solo sfruttare le opportunità offerte ora tecnologia per portare all'estremo il modello di scuola, il processo controllato di trasferimento delle conoscenze così come è codificato da secoli.
I courseware contengono qualche spazio di interattività, ma è per scelta chiuso, così come era chiuso il libro. Se è distante l'insegnante che si nasconde dietro la cattedra, ancora più distante è l'insegnante che chiuso il suo corso, e programmato l'insegnamento, si ritira nell'assenza, si nega alla relazione faccia a faccia. Il docente che crea courseware è, in effetti, più vicino all'autore di un libro che all'insegnante.
Di fronte alle libertà di movimento offerte da piattaforme wiki e Web 2.0, l'e-Learning appare ben povera cosa.
Content Management System (CMS)
Guardando le cose con un minimo di prospettiva storica, possiamo osservare che contemporaneamente alle piattaforme per l'e-Learning, sono apparse piattaforme destinate alla 'gestione dei contenuti'. La necessità di garantire l'alimentazione di siti web, così come la diffusione di processi di Knowledge Management presso aziende, rende necessari strumenti per pubblicare e condividere.
Rispetto alle piattaforme destinate ai LMS, i CMS offrono ovviamente un vantaggio: sono, in partenza, piattaforme generaliste, destinati ad ospitare conoscenze diverse, attraverso strumenti differenti. Il punto di vista di chi si occupa di didattica non ha influenza su di loro. Inoltre, più spesso di quanto accada con i LMS, si tratta di piattaforme Open Source, frutto del lavoro di comunità, frutto di progetti orientati alla condivisione della conoscenza – anziché all'apprendimento programmato, come accade invece per l'e-Learning. E anche questa non è una differenza dappoco. Penso a Plone, a Drupal, Joomla, Liferay.
Evidentemente, i CMS aprono la strada al Web 2.0 e al lavoro collaborativo. Eppure ci sono aspetti che accomunano CMS e LMS. CMS e LMS considerano necessaria l'amministrazione e il controllo. Prevedono le figure di specialisti che 'danno forma' alla conoscenza e preparano materiali per utenti passivi.
Insomma, LMS e CMS, così come libro e consolidato modello di educazione scolastica, prevedono l'esistenza di un mediatore necessario, di un Gatekeeper.
Gatekeeper
Gutenberg scoprì una tecnologia che poneva i libri alla portata di tutti. Ma contemporaneamente si affermava la distanza organizzativa tra maestri e dicenti, tra le persone e il libro.
Lutero, traducendo la Bibbia, ne aveva fatto un libro alla portata di chiunque sapesse leggere –e l'esistenza della Bibbia stampata era un incentivo ad imparare a leggere–. Ma Lutero aveva anche inventato un metodo di insegnamento massivo: il catechismo, un corso programmato di fatto di domande e di risposte. La Chiesa Cattolica risponde con la Controriforma, che specularmente congela la sua dottrina in un suo catechismo.
Nel 1922 Walter Lippmann, grande giornalista famoso per l'indipendenza di giudizio, dà alle stampe Public Opinion, libro anticipatore, ancora oggi di grande attualità. “Nel momento in cui raggiunge il lettore, il giornale è il risultato di un'intera serie di scelte”, afferma. Il giornalista, filtra le notizie in base a personali criteri.
L'idea di Lippmann è ripresa da Kurt Lewin, psicologo tedesco di forte formazione filosofica, emigrato negli States nel 1933. Nella sua ultima ricerca, i cui risultati saranno pubblicati postumi, nel 1947, studia le dinamiche di interazione nei gruppi sociali. I comportamenti relativi ad un campo d'azione scorrono lungo canali. In dati luoghi dei canali si trovano zone filtro, lì operano 'guardiani'. Lewin, che ormai scriveva direttamente in inglese, usa l'espressione gatekeeper, 'custode del cancello'. (Ma già il tardo latino cancellarius - da cui l'italiano cancelliere, e l'inglese chancellor- aveva lo stesso significato: 'guardiano dei cancelli delle stanze del potere').
Il controllo sociale, più che da vincoli esterni posti da legislatori o autorità, dipende dal lavoro di attori che -legittimati da una pretesa necessità- agiscono all'interno del processo di creazione della conoscenza. Il giornalista, così come l'insegnante, l'editore, l'autore di libri o di courseware finiscono per decidere per noi cosa dobbiamo sapere e imparare.
Siamo prigionieri dei nostri guardiani.
Semantic Web, wiki
Più che di Web 2.0 preferisco parlare di Semantic web e di wiki.
Intendo il ogni caso strumenti che permettano di lavorare attorno alla conoscenza così come era
prefigurato negli anno '40 del secolo scorso da Vannevar Bush, e poi immaginato negli anni '60 da Doug Engelbart e Ted Nelson. Faccio riferimento a come il Web era stato inizialmente pensato da Tim Berners-Lee, e all'idea di lavoro collaborativo che Ward Cunningham ha reso praticabile tramite il wiki.
Lo scenario tecnologico, infatti, è radicalmente cambiato. E si tratta di un cambiamento così profondo che passerà forse qualche secolo prima che i comportamenti sociali, e le stesse istituzioni, cambino di conseguenza.
Macchine che sono protesi della mente umana permettono oggi alle persone di lavorare connesse in rete, condividendo conoscenze, essendo di volta in volta autori e lettori, docenti e discenti, produttori e consumatori. Le unità minime di conoscenza sono descritte tramite etichette (tag) dagli stessi produttori. Le etichette descrivono la forma degli oggetti ed il loro significato ed il loro uso.
La conoscenza, così, si costruisce e ricostruisce istante dopo istante, in un processo privo di discontinuità – dunque senza transiti attraverso i luoghi dove si esercitava il filtro del gatekeeper.
L'agire del giornalista non è in fondo diverso dall'agire dell'editore, che sceglie quali libri pubblicare; ma anche dell'Inquisitore, che decide quali libri dovevano essere pubblicati oppure no. Analoghi i ruoli del pedagogo o del ministro o del singolo insegnante che decidono quali conoscenze debbono entrare a far parte di un programma; o dall'amministratore di un CMS, che decide quali contenuti debbano essere pubblicati oppure no.
In tutti questi casi il processo di circolazione delle conoscenze funziona per mezzo di tecnologie che prevedono la necessaria presenza di un momento di discontinuità: la distanza che separa la cattedra dai banchi dei discenti; il momento della stampa o della messa in onda di trasmissioni radio o televisive. Lì, in quel momento, in virtù di uno spazio concesso dalla tecnologia, si esercita il controllo.
Nessuno ora vuole negare che talvolta il controllo sia necessario, né che l'insegnante o il giornalista possano aggiungere valore. Ma è evidente che le cose sono cambiate: oggi ognuno, avendo a disposizione le piattaforme che chiamiamo web 2.0, non dipende più dal giornalista e dall'insegnante. Ognuno può imparare ed insegnare senza mediazioni (e spesso anche senza costi). Così come è evidente che il professionista, per esempio il giornalista, non più protetto da tecnologie che impediscono ad altri di diffondere notizie, deve confrontarsi con il blogger.
domenica 31 maggio 2009
giovedì 21 maggio 2009
Elogio della ridondanza
La nostra tendenza a considerare pregio di un sistema informativo l’assenza di ridondanze –di dati duplicati, di informazioni ripetute– risale dunque a quando le risorse di memoria a nostra disposizione erano scarse.
Abbiamo poi aggiunto una considerazione: ciò che nel momento in cui l’informazione è stata memorizzata può apparire mero rumore, ciò che oggi ci appare scartabile, può risultare ricco ed utile in un momento futuro.
Da qui possiamo ripartire per parlare stavolta non di sistemi ma di persone.
Viviamo in un contesto che non possiamo che definire complesso. Non possiamo illuderci che i processi –i processi di sviluppo di una soluzione così come i processi di gestione sistemistica, ed anche, più in generale, qualsiasi processo organizzativo–, non possiamo immaginare che i processi si evolveranno, a partire da una situazione data, in modo lineare. Dobbiamo prepararci ad affrontare sempre nuove emergenze: ‘circostanze non già previste’.
Lo scenario che fa da sfondo alla nostra azione quotidiana non è quello che abbiamo già appreso a conoscere, ma è lo scenario emergente. Otterrà risultati chi sa leggere prima e meglio degli altri leggere indizi, segnali deboli, tracce del cambiamento che sta per avvenire.
Ecco perché è importante lavorare sulla ridondanza: non sappiamo cosa accadrà domani, quindi non possiamo sapere quali informazioni ci saranno utili. Perciò è utile dare corda alla nostra curiosità, allargare lo sguardo su campi contigui, o anche lontani dalla nostra specializzazione. Perciò è importanti fare esperienze diverse.
L’eccesso di specializzazione danneggia l’adattamento. Lo dimostra il nostro codice genetico. Ora che possiamo leggerlo, ci appare come un codice ridondante. Contiene informazioni che oggi come oggi non servono a nulla. Ma è in virtù di questa ridondanza che la nostra specie ha saputo adattarsi a cambiamenti anche catastrofici: informazioni disponibili, sulla cui concreta utilità era impossibile prima fare previsioni, si rivelano importanti e risolutive nel contesto emergente.
Ecco perché credo che serva leggere romanzi e coltivare interessi apparentemente lontani dal nostro lavoro. Dedicare tempo a queste attività è ridondante se ragioniamo, linearmente, n una ottica di ottimizzazione del tempo e delle nostre risorse. Sarebbe la scelta –forse– migliore se ci muovessimo in uno scenario stabile. Ma lo scenario non è stabile. E comunque, la capacità di comportarsi in modo adeguato in circostanze normali è merce utile, ma di poco valore. È così diffusa che non ci conviene puntare su di essa.
Perciò, in realtà guadagniamo tempo se perdiamo tempo: accresciamo così la nostra ridondanza, incrementiamo la probabilità di appropriarci di informazioni che risulteranno utili quando il gioco si farà duro, e si tratterà di inventare un modo per affrontare una situazione nuova ed inattesa.
Abbiamo poi aggiunto una considerazione: ciò che nel momento in cui l’informazione è stata memorizzata può apparire mero rumore, ciò che oggi ci appare scartabile, può risultare ricco ed utile in un momento futuro.
Da qui possiamo ripartire per parlare stavolta non di sistemi ma di persone.
Viviamo in un contesto che non possiamo che definire complesso. Non possiamo illuderci che i processi –i processi di sviluppo di una soluzione così come i processi di gestione sistemistica, ed anche, più in generale, qualsiasi processo organizzativo–, non possiamo immaginare che i processi si evolveranno, a partire da una situazione data, in modo lineare. Dobbiamo prepararci ad affrontare sempre nuove emergenze: ‘circostanze non già previste’.
Lo scenario che fa da sfondo alla nostra azione quotidiana non è quello che abbiamo già appreso a conoscere, ma è lo scenario emergente. Otterrà risultati chi sa leggere prima e meglio degli altri leggere indizi, segnali deboli, tracce del cambiamento che sta per avvenire.
Ecco perché è importante lavorare sulla ridondanza: non sappiamo cosa accadrà domani, quindi non possiamo sapere quali informazioni ci saranno utili. Perciò è utile dare corda alla nostra curiosità, allargare lo sguardo su campi contigui, o anche lontani dalla nostra specializzazione. Perciò è importanti fare esperienze diverse.
L’eccesso di specializzazione danneggia l’adattamento. Lo dimostra il nostro codice genetico. Ora che possiamo leggerlo, ci appare come un codice ridondante. Contiene informazioni che oggi come oggi non servono a nulla. Ma è in virtù di questa ridondanza che la nostra specie ha saputo adattarsi a cambiamenti anche catastrofici: informazioni disponibili, sulla cui concreta utilità era impossibile prima fare previsioni, si rivelano importanti e risolutive nel contesto emergente.
Ecco perché credo che serva leggere romanzi e coltivare interessi apparentemente lontani dal nostro lavoro. Dedicare tempo a queste attività è ridondante se ragioniamo, linearmente, n una ottica di ottimizzazione del tempo e delle nostre risorse. Sarebbe la scelta –forse– migliore se ci muovessimo in uno scenario stabile. Ma lo scenario non è stabile. E comunque, la capacità di comportarsi in modo adeguato in circostanze normali è merce utile, ma di poco valore. È così diffusa che non ci conviene puntare su di essa.
Perciò, in realtà guadagniamo tempo se perdiamo tempo: accresciamo così la nostra ridondanza, incrementiamo la probabilità di appropriarci di informazioni che risulteranno utili quando il gioco si farà duro, e si tratterà di inventare un modo per affrontare una situazione nuova ed inattesa.
lunedì 18 maggio 2009
Macchine per pensare, o archeologia di un futuro imminente
L'altro giorno sono andato a vedere una mostra (Cordelia von den Steinen, Il sogno e i segni, 7 aprile-31 maggio 2009, Milano, Castello Sforzesco, Museo d'Arte Antica. Catalogo: Silvana Editoriale, 2009).
Cordelia von den Steinen costruisce figure con la terracotta. Una operazione molto diversa dalla scultura.
Scolpire: lavoro svolto con un utensile da taglio, lo scalpello. Con lo scalpello si può fare anche un lavoro sottile e delicato, ma resta centrale l'idea di un duro lavoro, svolto picchiando con un martello. Già l'arte della scultura in bronzo si allontana da questo originario gesto. Così in latino si sostituisce a scalpere, 'graffiare una superficie', il più nobile sculpere. Non ci deve sfuggire la vicinanza tra questo 'graffiare' e il ''graffiare', l''incidere', 'grattare', 'graffiare', 'tagliare', 'intagliare' cui rimandano le espressioni che ci parlano della scrittura: scrivere, grafia, segno. Come se solo attraverso ferite inferte alla superficie si potesse tenere memoria, costruire immagini. Come se l'arte e la poesia e la conoscenza fossero intrinsecamente legate a questi gesti duri.
La manipolazione della terracotta, l'uso della materia più antica, la terra, ci mostra la creazione in una diversa dimensione. Non manipolo simboli ma interagisco con la natura stessa, dandole forma.
La radice indoeuropea swer- ci ricorda l'idea di 'stare nel mondo': ‘osservare’, ‘prendersi cura’.
In inglese, dall’idea di ‘safe keeping’, ‘protection’, si passa all’idea di oggetto degno di attenzione, forse d’amore: ware, 'manufactured goods'. Il valore aggiunto sta nella manifattura, il ware è definito in base alla lavorazione. Giungiamo così ai ‘products of art or craft’. Ecco dunque l’earthenware, il manufatto del vasaio. (Anche l’hardware viene a noi da questa storia).
Così, manipolando la terra, Cordelia von den Steinen ci racconta storie. Donne che lavorano in cucina, donne che stirano, donne che tessono – e il tessuto è subito, come per magia, abito per l'uomo. Ma il tessuto nasce dal filo, e il filo è innanzitutto un gomitolo, enormi gomitoli che incombono sulla persona, il grande compito è, prima di ogni altra cosa, farsi carico del gomitolo, dipanarlo. Ci sono donne tranquillamente adagiate tra i libri, su libri aperti. Ci sono scrivanie sulle quali regna il gran disordine, la rete solo parzialmente tessuta che abbiamo in mente. Ci sono donne solitarie sedute fuori dal tempo, sempre altrove, intente a lavorare con un personal computer in grembo, alla lettera laptop. E c'è -mi appare come l'immagine più evocativa- un gruppo di persone sedute su una sorta di scala, ognuno su uno scalino stretto, una fila, da una persona con i piedi a terra fino ad un'altra lassù, lontana in alto, ognuno chiuso in sé, quasi curvo sullo schermo del suo portatile, immedesimato nel gesto della mano che muove il mouse.
Intendo questa immagine come l'archeologia di un futuro: torna a noi, come da un domani lontano, come l'immagine di una storia remota, così come è per noi l'immagine di un antico scriba che traccia segni su una pergamena o su una tavoletta di cera, torna a noi l'immagine di come noi stiamo diventando, ognuno di noi assorto con lo sguardo fisso sul suo sullo schermo, la mente semidesta, ognuno di noi strutturalmente accoppiato alla sua macchina per pensare, per costruire conoscenza. Uno accanto all'altro su una scala che sale forse verso il cielo, forse anche connessi, ma ognuno solo con la sua macchina, come lo eravamo un tempo con un foglio e una penna, con un libro.
Cordelia von den Steinen costruisce figure con la terracotta. Una operazione molto diversa dalla scultura.
Scolpire: lavoro svolto con un utensile da taglio, lo scalpello. Con lo scalpello si può fare anche un lavoro sottile e delicato, ma resta centrale l'idea di un duro lavoro, svolto picchiando con un martello. Già l'arte della scultura in bronzo si allontana da questo originario gesto. Così in latino si sostituisce a scalpere, 'graffiare una superficie', il più nobile sculpere. Non ci deve sfuggire la vicinanza tra questo 'graffiare' e il ''graffiare', l''incidere', 'grattare', 'graffiare', 'tagliare', 'intagliare' cui rimandano le espressioni che ci parlano della scrittura: scrivere, grafia, segno. Come se solo attraverso ferite inferte alla superficie si potesse tenere memoria, costruire immagini. Come se l'arte e la poesia e la conoscenza fossero intrinsecamente legate a questi gesti duri.
La manipolazione della terracotta, l'uso della materia più antica, la terra, ci mostra la creazione in una diversa dimensione. Non manipolo simboli ma interagisco con la natura stessa, dandole forma.
La radice indoeuropea swer- ci ricorda l'idea di 'stare nel mondo': ‘osservare’, ‘prendersi cura’.
In inglese, dall’idea di ‘safe keeping’, ‘protection’, si passa all’idea di oggetto degno di attenzione, forse d’amore: ware, 'manufactured goods'. Il valore aggiunto sta nella manifattura, il ware è definito in base alla lavorazione. Giungiamo così ai ‘products of art or craft’. Ecco dunque l’earthenware, il manufatto del vasaio. (Anche l’hardware viene a noi da questa storia).
Così, manipolando la terra, Cordelia von den Steinen ci racconta storie. Donne che lavorano in cucina, donne che stirano, donne che tessono – e il tessuto è subito, come per magia, abito per l'uomo. Ma il tessuto nasce dal filo, e il filo è innanzitutto un gomitolo, enormi gomitoli che incombono sulla persona, il grande compito è, prima di ogni altra cosa, farsi carico del gomitolo, dipanarlo. Ci sono donne tranquillamente adagiate tra i libri, su libri aperti. Ci sono scrivanie sulle quali regna il gran disordine, la rete solo parzialmente tessuta che abbiamo in mente. Ci sono donne solitarie sedute fuori dal tempo, sempre altrove, intente a lavorare con un personal computer in grembo, alla lettera laptop. E c'è -mi appare come l'immagine più evocativa- un gruppo di persone sedute su una sorta di scala, ognuno su uno scalino stretto, una fila, da una persona con i piedi a terra fino ad un'altra lassù, lontana in alto, ognuno chiuso in sé, quasi curvo sullo schermo del suo portatile, immedesimato nel gesto della mano che muove il mouse.
Intendo questa immagine come l'archeologia di un futuro: torna a noi, come da un domani lontano, come l'immagine di una storia remota, così come è per noi l'immagine di un antico scriba che traccia segni su una pergamena o su una tavoletta di cera, torna a noi l'immagine di come noi stiamo diventando, ognuno di noi assorto con lo sguardo fisso sul suo sullo schermo, la mente semidesta, ognuno di noi strutturalmente accoppiato alla sua macchina per pensare, per costruire conoscenza. Uno accanto all'altro su una scala che sale forse verso il cielo, forse anche connessi, ma ognuno solo con la sua macchina, come lo eravamo un tempo con un foglio e una penna, con un libro.
domenica 17 maggio 2009
L'informatica come filosofia. Una involontaria lezione di Richard Rorty
Non so quanto Rorty fosse interessato alla Computer Science. Ma mi piace immaginare che avrebbe accolto questo testo, questo abuso del suo pensiero, con un mezzo sorriso. Certo tutto quello che ha scritto, e che sappiamo di lui, ci ricorda che –a differenza da molti professionisti della filosofia– si è tenuto lontano dall'usare il suo acuminato argomentare per svalutare la Computer Science e, in generale, per occultare le proprie aree di ignoranza.
Il suo pensiero ci parla di un momento di passaggio, di allontanamento da un modello che si pretendeva indiscutibile. Il suo pensiero ci parla di come si costruisce conoscenza. Seguendo il filo del discorso di Rorty possiamo cogliere il senso profondo di due modi diversi di intendere l'informatica. Da un lato l'informatica fondata su modelli costruiti a propri, tesa a conservare in modo strutturato e controllato informazioni considerate certe. Dall'altro lato l'informatica che ci aiuta a porci domande nuove, e a trovare risposte nuove, anche lontane dalle attese e dai luoghi comuni.
Delle opere di Rorty, mi limito qui alla lettura Mirror of Nature (Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton: Princeton University Press, 1979; trad. it. La filosofia e lo specchio della natura (Testo inglese a fronte), Bompiani).
Pars destruens
Rorty: Dobbiamo in particolare a Kant la nozione della filosofia come tribunale della ragione pura, che conferma o respinge le pretese della cultura restante.
L'informatica intesa come tribunale della ragione pura, che accetta o respinge la conoscenza degna di essere presa in considerazione.
Rorty: Un bimillenario modo di filosofare ci ha abituati all'idea di un 'sapere fondazionale' che giudica la validità di tutte le altre aree della cultura (dalla scienza alla religione, dalla matematica alla poesia) assegnando, ad ognuna di esse, un posto specifico: immagine che trova in Kant, e nella sua concezione della filosofia come metacritica delle scienze speciali, la manifestazione esemplare.
Da questo bimillenario modo di filosofare nasce il modo di intendere lo studio teorico del management e la moderna organizzazione delle conoscenze e delle attività. Un sistema totale, gerarchico centralizzato e dettagliato, un modello perfetto, che si pretende orientato all'ottimizzazione. Essendo il modello fondato su una (illusoria) pretesa di perfezione, l'azione finisce per ridursi al controllo: la prassi deve conformarsi al modello. L'informatica, così come prima la burocrazia ottocentesca, di cui è erede, è in quanto idea, il frutto del feticismo scientistico; ed è allo stesso tempo, in quanto sistema, la piattaforma sulla quale il modello si appoggia.
Rorty: Il platonismo tiene fisso lo sguardo sulle idee immutabili del 'buono' e del 'vero', fino a creare una rete di distinzioni categoriali che tutto spiega, tutto contiene.
Riteniamo ben fatte solo le basi dati che si fondano su un data model. Il data model impone organizzazione immutabile alle informazioni, alla luce di una idea immutabile del 'buono' e del 'vero'. Già si rifacevano a un data model i sistemi mnemotecnici, i teatri della memoria che, almeno a partire dalla Grecia classica, presiedevano all'uso del nostro cervello come base dati. Le stanze dei teatri della memoria, così come i 'campi' ed i 'record', le tabelle relazionate l'una con l'altra, impongono alla conoscenza una struttura di distinzioni categoriali discendenti da un modello previamente costruito. Al di fuori di questo modello, di questa struttura, platonicamente non esiste conoscenza.
Rorty: Nella filosofia platonico–kantiana, priorità della sostanza sul fenomeno, dell'universale sul particolare, della necessità sulla contingenza, della natura sulla storia.
Possiamo esprimerci analogamente a proposito dell'informatica. Priorità della sostanza: attenzione alla coerenza interna del modello, non importa se astratto, decontestualizzato. Orientamento alla generalizzazione: la lettura del fenomeno è subordinata alle regole che, in funzione della sua stabilità, presiedono al funzionamento della base dati. Ansia di ottimizzazione: il mondo è un orologio, la macchina che meglio lo rappresenta funziona con l'esattezza di un orologio. Il sistema più efficace è il sistema che funziona con maggiore economia di mezzi.
La procedura è fondata sulla necessità, mentre la contingenza si manifesta come irrilevante varianza, destinata ad essere riassorbita senza tenere conto delle sue tracce.
Rorty prende spunto dal Canone Occidentale di Harold Bloom per parlare di canone platonico–kantiano. Bloom, osservando quella specifica manifestazione della conoscenza che chiamiamo 'letteratura' si arroga il diritto di definire i luoghi e i confini, il buono ed il vero: Shakespeare al centro, e poi via via gli altri autori degni di essere letti e studiati e ricordati, in base a un criterio di inclusione e di esclusione. Un preteso attacco da parte di portatori di interessi particolari, al 'vero sapere' , ai 'veri valori' giustifica la costruzione di un modello chiuso.
Così anche il canone platonico–kantiano: una rete categoriale in grado di abbracciare il tutto, in grado di tutto ordinare e di tutto spiegare.
Possiamo allora parlare, guardando all'informatica applicata al business e al funzionamento organizzativo, di canone IBM–Microsoft–Sap. Anche qui, come nel Canone di Bloom, ordinamento, controllo, norma.
Una sola macchina, un solo hardware, un solo software, un solo standard, un solo modello.
Rorty: Esiste un'immagine che continua a tenere prigioniera la filosofia. È l'immagine –si pensi ancora a Kant– della mente come un grande specchio. Il funzionamento della mente-specchio può essere studiato attraverso metodi puri, non empirici.
Ecco l'immagine della mente come computer, e del computer come mente. Una immagine menzognera, che ci allontana dall'esperienza empirica del lavoro quotidiano con il computer. Se domina la metafora della mente specchio, domina anche l'immagine del sistema informativo fondato su data model, modelli puri. Sapere esattamente incasellato in contenitori predefiniti.
Rorty: Per la filosofia platonico–kantiana, la mente è 'specchio' che rappresenta la realtà.
Dunque la conoscenza è 'rappresentazione'. Gli sforzi di Cartesio e di Kant sono volti ad ottenere rappresentazioni più accurate attraverso l'esame, la riparazione e la pulitura dello specchio.
Rorty: La filosofia platonico–kantiana intende se stessa come disciplina che possiede una sua specifica e privilegiata via d'accesso ai fondamenti della conoscenza e ai meccanismi della mente. Per la filosofia platonico–kantiana conoscere significa rappresentare accuratamente quel che si trova fuori della mente. La 'vecchia' filosofia pretende di sapere il modo in cui la mente riesce a costruire tali rappresentazioni.
Per Rorty la metafora dello specchio è centrale: descrive la 'vecchia' filosofia. Per l'informatica la metafora dello specchio è centrale: descrive l'informatica che chiamo 'infantile'.
Per questa filosofia e questa informatica la persona osservante ed operante non conta. La sua soggettività è considerata ininfluente. Della persona, non contano carattere, cultura, collocazione storica e sociale. Conta la purezza del metodo di analisi e rappresentazione del 'vero'. Della mente della persona conta solo la capacità di essere specchio, rispecchiare il 'buono' ed il 'vero'.
Lo specchio può essere ripulito e reso più luminoso, brillante. Questa è l'unica via attraverso la quale ottenere 'rappresentazioni' –fotocopie del 'reale'– più adeguate.
La mente come specchio porta, per analogia cognitiva, al 'sistema informativo come specchio'. Il 'sistema informativo' è la mente artificiale che 'rappresenta' la realtà. Così le informazioni fornite dai 'sistemi informativi', specchio della realtà, finiscono per apparire l'unica affidabile fonte di conoscenza. Così l'approfondimento della conoscenza passa sempre e necessariamente attraverso l'affinamento degli strumenti, dei meccanismo di rappresentazione: specchio più pulito, più luminoso e brillante, hardware e software in grado di garantire una più accurata gestione del dato. Solo fotocopie più nitide.
Rorty: Nevrotica ansia cartesiana di certezze.
In informatica: nevrotica sussunzione all'idea di una necessaria certezza e all'univocità del dato.
L'informatica che pone al centro del proprio progetto il dato univoco e la struttura, cerca vanamente la lingua astrattamente perfetta. Servono invece sistemi in grado di interagire tra di loro, e con le persone.
Si cercano linguaggi eleganti e raffinati'. Si usano i linguaggi (informatici) che si conoscono –Cobol o C++ o Java o .net– nell'illusione che riescano a descrivere neutralmente ogni mondo.
Rorty: Il pensiero rappresentativo e 'fotocopiativo' porta con sé la figura dello 'spettatore' e l'atteggiamento dello 'spettatore'. Il filosofo e lo scienziato 'spettatore' osserva il mondo in base a modelli che sovrastano lo spettatore, e che lo spettatore non può e non vuole mettere in discussione. Lo spettatore è sempre innocente, mai individualmente responsabile delle immagini del mondo che pure produce, e presenta come 'vere'.
Così agisce in fondo il professionista dell'informatica: è spettatore innocente. E' attore irresponsabile. La qualità dell'informazione dipende dal modello dei dati. Il modello dei dati dipende dall'analisi, e cioè da ciò che ha detto e richiesto il cliente. L'output dipende dall'input. La macchina –che si limita ad eseguire il programma– non può sbagliare. La responsabilità del professionista dell'informatica si riassume nel fotografare la realtà con un programma e nel far funzionare la macchina come da programma.
Pars construens
Rorty, per presentarci l'approccio platonico–kantiano parla di 'canone'. Si riferisce esplicitamente al 'Canone Occidentale' di Harlod Bloom: così come Bloom pretende di definire i luoghi e i confini, il buono ed il vero, di quella specifica manifestazione della conoscenza che chiamiamo 'letteratura', così più in generale l'approccio platonico–kantiano subordina la lettura del mondo ad un 'sapere fondazione' e ad una rete (imposta previamente e dall'esterno) di distinzioni categoriali.
Ma l'analogia ha un limite evidente.
Per Bloom è una ipostasi; è una struttura di base immutabile e vera e giusta; è, platonicamente, sostanza, essenza che permane immutabile al di là degli accidenti. Rorty, invece, con il concetto di 'canone' gioca. Su di lui ha influito più Thomas Kuhn di Harold Bloom. E allora il 'canone' è in realtà un 'paradigma': un modello che in un dato momento storico gode di un alto grado di consenso, ma che è soggetto a sconferma empirica. E gli scienziati ed i filosofi più apprezzabili sono coloro che, lavorando come si deve all'interno di un paradigma, scoprono i segni di un diverso paradigma emergente).
Possiamo dunque opporre al canone platonico–kantiano -nella sua versione informatica il canone IBM–Microsoft–Sap- il canone (o meglio: emergente paradigma) Bush–Nelson–Engelbart–Berners-Lee–Cunningham.
Vannevar Bush: l'idea di una macchina che aiuta la persona a pensare, a interrogarsi sul mondo.
Ted Nelson: l'idea di un nuovo tipo di letteratura, che è conoscenza e che è piacere, fondata sul superamento della gabbia del libro, della sequenza ordinata: l'ipertesto, testo reticolare percorribile in diversi modi, potenzialmente infinito, nasce qui.
Douglas Engelbart: interazione tra uomo e macchina. Interfacce grafiche, mouse. Ipertesti.
Berners-Lee: il Word Wide Web come grande Rete Semantica aperta a diverse connessioni, multimediale, ipertestuale, interattiva.
Ward Cunningham: piattaforme di lavoro collaborativo, in particolare di scrittura collaborativa. Azzeramento del confine tra specialista e utente.
Si arriva per questa via ad intendere la conoscenza come common, risorsa collettiva di tutti e di nessuno. Non ci sono confini (se non confini fittizi) tra il sapere (e il sistema informativo) di ogni persona e di ogni azienda. Di fronte a questi mondi, finanza e denaro non sono più metri adeguati: 'the for-pay economy is not the only way to create value'.
Rorty non manca di cogliere in Martin Heidegger la presunzione greco-germanica, quella hybris che ha percorso la filosofia da Platone a Kant a Hegel. Né sottovaluta le simpatie naziste del filosofo tedesco. Eppure apprezza Heidegger. Apprezza l'Heidegger pragmatista di Sein und Zeit (L'essere e il tempo), l'ultimo Heidegger. Lo accomuna al 'secondo Wittgensein', il Wittgeinstein delle Philosophische Untersuchungen (Ricerche filosofiche). Una 'svolta linguistica' porta entrambi al cruciale passaggio “dalla coscienza al linguaggio”. Nella prospettiva che era già di Humboldt, per Heidegger e Wittgenstein il linguaggio è Welterschliessung: 'apertura di mondo', 'world disclosure'.
La conoscenza non esiste se non attraverso la percezione soggettiva. La conoscenza non esiste se non tramite un linguaggio in grado di descriverla e di esprimerla. Quindi, centralità della Sprachphilosophie. Centralità dei 'giochi linguistici', degli 'atti linguistici'.
Quello che conta non è la lingua in sé. La lingua perfetta non esiste, e comunque non serve.
Heidegger e Wittgenstein ci mostrano come linguaggio emerge dall'interazione tra persone, e tra persone e mondi. Un linguaggio non vale l'altro. Non tutti i linguaggi sono buoni a descrivere tutti i mondi.
Invece di privilegiare linguaggi eleganti e raffinati, ci si dovrebbe dunque preoccupare dell'adeguatezza del linguaggio 'al mondo in cui io sono'.
E' il salto di qualità che ci propone l'XML, Extensible Markup Language, 'a general-purpose specification for creating custom markup languages': strumento ermeneutico (techne hermeneutiké, 'arte di interpretare') e gnoseologico, con il suo apparentemente semplice approccio, fondato sull'apporre etichette, permette agli attori di descrivere il mondo esplicitando i nomi delle cose che popolano quel mondo. Evitando l'uso di simboli astratti, si può narrare il mondo, parlare dell'essere-nel-mondo. Tendere alla comprensione ontologica.
Rorty: Sbarazzarsi del bimillenario modo di filosofare che ci ha abituati all'idea di un 'sapere fondazionale': un sapere che giudica la validità di tutte le altre aree della cultura (dalla scienza alla religione, dalla matematica alla poesia) assegnando, ad ognuna di esse, un posto specifico.
Promuovere, in cambio, una cultura libera dalle ossessioni concettuali della metafisica greca, e dalle ossessioni del feticismo scientistico che ne segue le tracce.
Se vediamo un solo modello, è solo a causa della nostra miopia. Se crediamo che il nostro modello sia il migliore, stiamo adottando un meccanismo di difesa. Se pensiamo che esista un unico mondo, è perché viaggiando altrove temiamo di scoprire qualcosa in grado di minare le nostre sicurezze. Se ci sforziamo di ridurre la ridondanza, se cerchiamo una apparente sicurezza in modelli semplificati, è perché non vogliamo ammettere che viviamo comunque sull'orlo del caos.
L'uomo (tramite un qualsiasi linguaggio) costruisce (edifica) conoscenza, e si mantiene in relazione con la conoscenza, e accede alla conoscenza, e rinnova continuamente la conoscenza.
In questo, l'informatica ci è amica, ci accompagna. Navigando nel World Wide Web, scrivendo con un word processor, raccogliendo e interpolando informazioni, costruendo testi multimediali mescolando parole immagini e suoni, ogni uomo partecipa alla costruzione di una cultura sempre più lontana dalle ossessioni della metafisica greca e del moderno feticismo scientistico.
Rorty: Noi non possiamo descrivere la natura usando un linguaggio che crediamo essere il suo.
La presunzione, o la fallace convinzione di chi si occupa di informatica pota a pensare che il linguaggio –sia il Cobol o o C++ o Java o .net o quello che sia– possa rappresentare, rispecchiare il mondo.
Ma il linguaggio con il quale descriviamo 'la natura' -qualsiasi linguaggio- non è il linguaggio della natura. E' un linguaggio creato dall'uomo, uno dei linguaggi possibili. Relativamente efficace, nato all'interno di una cultura, capace di leggere solo alcuni aspetti del mondo.
Rorty: I fatti non sono pensabili a prescindere dalla struttura proposizionale del linguaggio.
Il linguaggio determina la visione del mondo. La scelta del linguaggio –anche del linguaggio informatico– non è né irrilevante né innocente. Non è irrilevante perché solo attraverso il linguaggio i fatti sono pensabili. Non è innocente perché la scelta del linguaggio porta con sé la scelta della struttura: e quindi porta scritta in sé sia la modalità di rappresentare il mondo, sia la modalità di interagire con il mondo.
Si usano i linguaggi (informatici) che si conoscono –Cobol o C++ o Java o .net o quello che sia–nell'illusione che riescano a descrivere neutralmente ogni mondo.
Ma il linguaggio, portando in sé una propria sintassi e una propria semantica, –Cobol o C++ o Java o .net o quello che sia– si trasforma così in un Cavallo di Troia: impone al mondo una visione del mondo già fatta.
Rorty: Conoscere la realtà non significa 'fotocopiarla', ma 'venire a capo delle sue sfide'.
Prendere per buoni sistemi informativi esistenti, edificati in tempi precedenti, è vano e fallace. In ogni istante possiamo fotografare la realtà, ed ogni fotografia sarà diversa.
Possiamo invece usare gli operatori booleani per interagire con la realtà. Interrogarsi sulla natura e sugli stati del mondo significa partecipare a costruire: l'organizzazione è frutto di co-creazione.
Rorty: Ciò che chiamiamo 'mondo' non è la totalità dei dati di fatto. Esso è l' insieme delle limitazioni cognitivamente significative che sono imposte ai nostri sforzi di imparare dalle –e di avere il controllo sulle– reazioni della natura a partire da previsioni attendibili.
Ciò che chiamiamo 'sistema informativo' è lungi dall'accogliere la totalità dei dati. Il sistema informativo non è una rappresentazione, uno specchio del mondo. E' solo l'insieme di informazioni raccolte a partire da limitate e limitanti domande che ci siamo posti a proposito degli stati del mondo.
Rorty: Le risposte che ci dà la natura sono sempre indirette, in quanto restano legate alla struttura delle nostre domande.
L'informatica che pone al centro della propria attenzione la 'struttura dei dati' si illude di rappresentare la natura, replicandone la struttura. Ma la 'struttura' che filtra il nostro rapporto con la 'natura', con il mondo osservato –e quindi: la struttura dei dati– non è la struttura della 'natura' –per noi inattingibile, invisibile– ma 'la struttura delle nostre domande'. Sia che le domande siano state formulate una volta per tutte, previamente, attraverso 'query strutturate'. Sia che le domande siano ri-formulate di volta in volta, attraverso strumenti di Knowledge Discovery, Data Mining, Information Retrieval. Ovvio che, dove la tecnologia lo permette –e oggi la tecnologia lo permette pressoché in ogni caso– meglio riformulare di volta in volta le domande. Le domande anche in apparenza simili, formulate in momenti diversi, di fronte a stati del mondo diversi, sono diverse.
Rorty: Per queste sue caratteristiche di sapere narrativo, la filosofia appare protesa a edificare, cioè a formare gli uomini, più che a 'conoscere' oggettivamente il mondo. In questa nuova veste, di tipo etico-formativo, la filosofia non si pone più come espressione privilegiata del sapere, ma come una delle tante voci all'interno della 'conversazione' complessiva dell'umanità. Conversazione che si nutre del dialogo, ossia di una 'democrazia dialettica' che vive del confronto costante dei diversi punti di vista, senza pretese di sopraffazione reciproca.
E' questa la confusa, incerta, ma ricca 'democrazia' fondata sulla conversazione che vediamo emergere nella pluralità di voci della Grande Rete, fatta di diverse e interconnesse 'reti sociali', nei blog.
Conversazioni alle quali concorrono 'filosofi' e pretesi ignoranti. La conoscenza non nasce dall'ordine e dal controllo, ma dalla contaminazione, dal dialogo. Se un gioco non si basa su una partita unica –come accade con i sistemi fondati sull'univocità del dato– ma viene ripetuto nel tempo, allora verranno a crearsi dei meccanismi di credibilità e di reputazione in grado di condurre le parti a comportamenti di tipo cooperativo.
Al posto del garante, o platonico guardiano della 'qualità dell'informazione', garante o platonico guardiano del 'grado di verità della conoscenza', emerge –in virtù degli strumenti informatici oggi disponibili– la figura del narratore: la persona che osserva il mondo, e può essere ognuno di noi, e contribuisce al sapere collettivo osservando il mondo a partire dalla propria cultura e dalla propria storia e dal proprio carattere.
Rorty: Questo soggetto, portatore di credenze, emozioni e speranze non assomiglia al filosofo tradizionale ma piuttosto al narratore, al romanziere.
A ben guardare, l'informatica intesa secondo il paradigma Bush–Nelson–Engelbart–Berners-Lee–Cunningham non offre altro che strumenti per narrare.
Rorty: Gradualmente sostituire il concetto di verità come corrispondenza alla realtà con l'idea che verità è la convinzione che si forma durante scontri liberi e aperti.
Chi si occupa di informatica crede (spera, si illude) di essere di essere il garante e il depositario della 'vera' informazione, l'informazione che descrive il mondo come è. Ma esistono all'interno dell'organizzazione –di ogni impresa– diverse visioni del mondo, diverse letture della realtà. Ogni stakeholder è portatore di una propria visione. All'informatica intesa come strumentazione che difende l'immagine (unica) della realtà, pretesa immagine 'vera', si contrappone l'informatica che offre strumenti per scoprire e per collaborare. Portare alla luce conoscenze tacite e latenti, favorire il lavoro collaborativo teso a costruire una sempre mutevole 'verità' ragionevolmente condivisa.
Il suo pensiero ci parla di un momento di passaggio, di allontanamento da un modello che si pretendeva indiscutibile. Il suo pensiero ci parla di come si costruisce conoscenza. Seguendo il filo del discorso di Rorty possiamo cogliere il senso profondo di due modi diversi di intendere l'informatica. Da un lato l'informatica fondata su modelli costruiti a propri, tesa a conservare in modo strutturato e controllato informazioni considerate certe. Dall'altro lato l'informatica che ci aiuta a porci domande nuove, e a trovare risposte nuove, anche lontane dalle attese e dai luoghi comuni.
Delle opere di Rorty, mi limito qui alla lettura Mirror of Nature (Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton: Princeton University Press, 1979; trad. it. La filosofia e lo specchio della natura (Testo inglese a fronte), Bompiani).
Pars destruens
Rorty: Dobbiamo in particolare a Kant la nozione della filosofia come tribunale della ragione pura, che conferma o respinge le pretese della cultura restante.
L'informatica intesa come tribunale della ragione pura, che accetta o respinge la conoscenza degna di essere presa in considerazione.
Rorty: Un bimillenario modo di filosofare ci ha abituati all'idea di un 'sapere fondazionale' che giudica la validità di tutte le altre aree della cultura (dalla scienza alla religione, dalla matematica alla poesia) assegnando, ad ognuna di esse, un posto specifico: immagine che trova in Kant, e nella sua concezione della filosofia come metacritica delle scienze speciali, la manifestazione esemplare.
Da questo bimillenario modo di filosofare nasce il modo di intendere lo studio teorico del management e la moderna organizzazione delle conoscenze e delle attività. Un sistema totale, gerarchico centralizzato e dettagliato, un modello perfetto, che si pretende orientato all'ottimizzazione. Essendo il modello fondato su una (illusoria) pretesa di perfezione, l'azione finisce per ridursi al controllo: la prassi deve conformarsi al modello. L'informatica, così come prima la burocrazia ottocentesca, di cui è erede, è in quanto idea, il frutto del feticismo scientistico; ed è allo stesso tempo, in quanto sistema, la piattaforma sulla quale il modello si appoggia.
Rorty: Il platonismo tiene fisso lo sguardo sulle idee immutabili del 'buono' e del 'vero', fino a creare una rete di distinzioni categoriali che tutto spiega, tutto contiene.
Riteniamo ben fatte solo le basi dati che si fondano su un data model. Il data model impone organizzazione immutabile alle informazioni, alla luce di una idea immutabile del 'buono' e del 'vero'. Già si rifacevano a un data model i sistemi mnemotecnici, i teatri della memoria che, almeno a partire dalla Grecia classica, presiedevano all'uso del nostro cervello come base dati. Le stanze dei teatri della memoria, così come i 'campi' ed i 'record', le tabelle relazionate l'una con l'altra, impongono alla conoscenza una struttura di distinzioni categoriali discendenti da un modello previamente costruito. Al di fuori di questo modello, di questa struttura, platonicamente non esiste conoscenza.
Rorty: Nella filosofia platonico–kantiana, priorità della sostanza sul fenomeno, dell'universale sul particolare, della necessità sulla contingenza, della natura sulla storia.
Possiamo esprimerci analogamente a proposito dell'informatica. Priorità della sostanza: attenzione alla coerenza interna del modello, non importa se astratto, decontestualizzato. Orientamento alla generalizzazione: la lettura del fenomeno è subordinata alle regole che, in funzione della sua stabilità, presiedono al funzionamento della base dati. Ansia di ottimizzazione: il mondo è un orologio, la macchina che meglio lo rappresenta funziona con l'esattezza di un orologio. Il sistema più efficace è il sistema che funziona con maggiore economia di mezzi.
La procedura è fondata sulla necessità, mentre la contingenza si manifesta come irrilevante varianza, destinata ad essere riassorbita senza tenere conto delle sue tracce.
Rorty prende spunto dal Canone Occidentale di Harold Bloom per parlare di canone platonico–kantiano. Bloom, osservando quella specifica manifestazione della conoscenza che chiamiamo 'letteratura' si arroga il diritto di definire i luoghi e i confini, il buono ed il vero: Shakespeare al centro, e poi via via gli altri autori degni di essere letti e studiati e ricordati, in base a un criterio di inclusione e di esclusione. Un preteso attacco da parte di portatori di interessi particolari, al 'vero sapere' , ai 'veri valori' giustifica la costruzione di un modello chiuso.
Così anche il canone platonico–kantiano: una rete categoriale in grado di abbracciare il tutto, in grado di tutto ordinare e di tutto spiegare.
Possiamo allora parlare, guardando all'informatica applicata al business e al funzionamento organizzativo, di canone IBM–Microsoft–Sap. Anche qui, come nel Canone di Bloom, ordinamento, controllo, norma.
Una sola macchina, un solo hardware, un solo software, un solo standard, un solo modello.
Rorty: Esiste un'immagine che continua a tenere prigioniera la filosofia. È l'immagine –si pensi ancora a Kant– della mente come un grande specchio. Il funzionamento della mente-specchio può essere studiato attraverso metodi puri, non empirici.
Ecco l'immagine della mente come computer, e del computer come mente. Una immagine menzognera, che ci allontana dall'esperienza empirica del lavoro quotidiano con il computer. Se domina la metafora della mente specchio, domina anche l'immagine del sistema informativo fondato su data model, modelli puri. Sapere esattamente incasellato in contenitori predefiniti.
Rorty: Per la filosofia platonico–kantiana, la mente è 'specchio' che rappresenta la realtà.
Dunque la conoscenza è 'rappresentazione'. Gli sforzi di Cartesio e di Kant sono volti ad ottenere rappresentazioni più accurate attraverso l'esame, la riparazione e la pulitura dello specchio.
Rorty: La filosofia platonico–kantiana intende se stessa come disciplina che possiede una sua specifica e privilegiata via d'accesso ai fondamenti della conoscenza e ai meccanismi della mente. Per la filosofia platonico–kantiana conoscere significa rappresentare accuratamente quel che si trova fuori della mente. La 'vecchia' filosofia pretende di sapere il modo in cui la mente riesce a costruire tali rappresentazioni.
Per Rorty la metafora dello specchio è centrale: descrive la 'vecchia' filosofia. Per l'informatica la metafora dello specchio è centrale: descrive l'informatica che chiamo 'infantile'.
Per questa filosofia e questa informatica la persona osservante ed operante non conta. La sua soggettività è considerata ininfluente. Della persona, non contano carattere, cultura, collocazione storica e sociale. Conta la purezza del metodo di analisi e rappresentazione del 'vero'. Della mente della persona conta solo la capacità di essere specchio, rispecchiare il 'buono' ed il 'vero'.
Lo specchio può essere ripulito e reso più luminoso, brillante. Questa è l'unica via attraverso la quale ottenere 'rappresentazioni' –fotocopie del 'reale'– più adeguate.
La mente come specchio porta, per analogia cognitiva, al 'sistema informativo come specchio'. Il 'sistema informativo' è la mente artificiale che 'rappresenta' la realtà. Così le informazioni fornite dai 'sistemi informativi', specchio della realtà, finiscono per apparire l'unica affidabile fonte di conoscenza. Così l'approfondimento della conoscenza passa sempre e necessariamente attraverso l'affinamento degli strumenti, dei meccanismo di rappresentazione: specchio più pulito, più luminoso e brillante, hardware e software in grado di garantire una più accurata gestione del dato. Solo fotocopie più nitide.
Rorty: Nevrotica ansia cartesiana di certezze.
In informatica: nevrotica sussunzione all'idea di una necessaria certezza e all'univocità del dato.
L'informatica che pone al centro del proprio progetto il dato univoco e la struttura, cerca vanamente la lingua astrattamente perfetta. Servono invece sistemi in grado di interagire tra di loro, e con le persone.
Si cercano linguaggi eleganti e raffinati'. Si usano i linguaggi (informatici) che si conoscono –Cobol o C++ o Java o .net– nell'illusione che riescano a descrivere neutralmente ogni mondo.
Rorty: Il pensiero rappresentativo e 'fotocopiativo' porta con sé la figura dello 'spettatore' e l'atteggiamento dello 'spettatore'. Il filosofo e lo scienziato 'spettatore' osserva il mondo in base a modelli che sovrastano lo spettatore, e che lo spettatore non può e non vuole mettere in discussione. Lo spettatore è sempre innocente, mai individualmente responsabile delle immagini del mondo che pure produce, e presenta come 'vere'.
Così agisce in fondo il professionista dell'informatica: è spettatore innocente. E' attore irresponsabile. La qualità dell'informazione dipende dal modello dei dati. Il modello dei dati dipende dall'analisi, e cioè da ciò che ha detto e richiesto il cliente. L'output dipende dall'input. La macchina –che si limita ad eseguire il programma– non può sbagliare. La responsabilità del professionista dell'informatica si riassume nel fotografare la realtà con un programma e nel far funzionare la macchina come da programma.
Pars construens
Rorty, per presentarci l'approccio platonico–kantiano parla di 'canone'. Si riferisce esplicitamente al 'Canone Occidentale' di Harlod Bloom: così come Bloom pretende di definire i luoghi e i confini, il buono ed il vero, di quella specifica manifestazione della conoscenza che chiamiamo 'letteratura', così più in generale l'approccio platonico–kantiano subordina la lettura del mondo ad un 'sapere fondazione' e ad una rete (imposta previamente e dall'esterno) di distinzioni categoriali.
Ma l'analogia ha un limite evidente.
Per Bloom è una ipostasi; è una struttura di base immutabile e vera e giusta; è, platonicamente, sostanza, essenza che permane immutabile al di là degli accidenti. Rorty, invece, con il concetto di 'canone' gioca. Su di lui ha influito più Thomas Kuhn di Harold Bloom. E allora il 'canone' è in realtà un 'paradigma': un modello che in un dato momento storico gode di un alto grado di consenso, ma che è soggetto a sconferma empirica. E gli scienziati ed i filosofi più apprezzabili sono coloro che, lavorando come si deve all'interno di un paradigma, scoprono i segni di un diverso paradigma emergente).
Possiamo dunque opporre al canone platonico–kantiano -nella sua versione informatica il canone IBM–Microsoft–Sap- il canone (o meglio: emergente paradigma) Bush–Nelson–Engelbart–Berners-Lee–Cunningham.
Vannevar Bush: l'idea di una macchina che aiuta la persona a pensare, a interrogarsi sul mondo.
Ted Nelson: l'idea di un nuovo tipo di letteratura, che è conoscenza e che è piacere, fondata sul superamento della gabbia del libro, della sequenza ordinata: l'ipertesto, testo reticolare percorribile in diversi modi, potenzialmente infinito, nasce qui.
Douglas Engelbart: interazione tra uomo e macchina. Interfacce grafiche, mouse. Ipertesti.
Berners-Lee: il Word Wide Web come grande Rete Semantica aperta a diverse connessioni, multimediale, ipertestuale, interattiva.
Ward Cunningham: piattaforme di lavoro collaborativo, in particolare di scrittura collaborativa. Azzeramento del confine tra specialista e utente.
Si arriva per questa via ad intendere la conoscenza come common, risorsa collettiva di tutti e di nessuno. Non ci sono confini (se non confini fittizi) tra il sapere (e il sistema informativo) di ogni persona e di ogni azienda. Di fronte a questi mondi, finanza e denaro non sono più metri adeguati: 'the for-pay economy is not the only way to create value'.
Rorty non manca di cogliere in Martin Heidegger la presunzione greco-germanica, quella hybris che ha percorso la filosofia da Platone a Kant a Hegel. Né sottovaluta le simpatie naziste del filosofo tedesco. Eppure apprezza Heidegger. Apprezza l'Heidegger pragmatista di Sein und Zeit (L'essere e il tempo), l'ultimo Heidegger. Lo accomuna al 'secondo Wittgensein', il Wittgeinstein delle Philosophische Untersuchungen (Ricerche filosofiche). Una 'svolta linguistica' porta entrambi al cruciale passaggio “dalla coscienza al linguaggio”. Nella prospettiva che era già di Humboldt, per Heidegger e Wittgenstein il linguaggio è Welterschliessung: 'apertura di mondo', 'world disclosure'.
La conoscenza non esiste se non attraverso la percezione soggettiva. La conoscenza non esiste se non tramite un linguaggio in grado di descriverla e di esprimerla. Quindi, centralità della Sprachphilosophie. Centralità dei 'giochi linguistici', degli 'atti linguistici'.
Quello che conta non è la lingua in sé. La lingua perfetta non esiste, e comunque non serve.
Heidegger e Wittgenstein ci mostrano come linguaggio emerge dall'interazione tra persone, e tra persone e mondi. Un linguaggio non vale l'altro. Non tutti i linguaggi sono buoni a descrivere tutti i mondi.
Invece di privilegiare linguaggi eleganti e raffinati, ci si dovrebbe dunque preoccupare dell'adeguatezza del linguaggio 'al mondo in cui io sono'.
E' il salto di qualità che ci propone l'XML, Extensible Markup Language, 'a general-purpose specification for creating custom markup languages': strumento ermeneutico (techne hermeneutiké, 'arte di interpretare') e gnoseologico, con il suo apparentemente semplice approccio, fondato sull'apporre etichette, permette agli attori di descrivere il mondo esplicitando i nomi delle cose che popolano quel mondo. Evitando l'uso di simboli astratti, si può narrare il mondo, parlare dell'essere-nel-mondo. Tendere alla comprensione ontologica.
Rorty: Sbarazzarsi del bimillenario modo di filosofare che ci ha abituati all'idea di un 'sapere fondazionale': un sapere che giudica la validità di tutte le altre aree della cultura (dalla scienza alla religione, dalla matematica alla poesia) assegnando, ad ognuna di esse, un posto specifico.
Promuovere, in cambio, una cultura libera dalle ossessioni concettuali della metafisica greca, e dalle ossessioni del feticismo scientistico che ne segue le tracce.
Se vediamo un solo modello, è solo a causa della nostra miopia. Se crediamo che il nostro modello sia il migliore, stiamo adottando un meccanismo di difesa. Se pensiamo che esista un unico mondo, è perché viaggiando altrove temiamo di scoprire qualcosa in grado di minare le nostre sicurezze. Se ci sforziamo di ridurre la ridondanza, se cerchiamo una apparente sicurezza in modelli semplificati, è perché non vogliamo ammettere che viviamo comunque sull'orlo del caos.
L'uomo (tramite un qualsiasi linguaggio) costruisce (edifica) conoscenza, e si mantiene in relazione con la conoscenza, e accede alla conoscenza, e rinnova continuamente la conoscenza.
In questo, l'informatica ci è amica, ci accompagna. Navigando nel World Wide Web, scrivendo con un word processor, raccogliendo e interpolando informazioni, costruendo testi multimediali mescolando parole immagini e suoni, ogni uomo partecipa alla costruzione di una cultura sempre più lontana dalle ossessioni della metafisica greca e del moderno feticismo scientistico.
Rorty: Noi non possiamo descrivere la natura usando un linguaggio che crediamo essere il suo.
La presunzione, o la fallace convinzione di chi si occupa di informatica pota a pensare che il linguaggio –sia il Cobol o o C++ o Java o .net o quello che sia– possa rappresentare, rispecchiare il mondo.
Ma il linguaggio con il quale descriviamo 'la natura' -qualsiasi linguaggio- non è il linguaggio della natura. E' un linguaggio creato dall'uomo, uno dei linguaggi possibili. Relativamente efficace, nato all'interno di una cultura, capace di leggere solo alcuni aspetti del mondo.
Rorty: I fatti non sono pensabili a prescindere dalla struttura proposizionale del linguaggio.
Il linguaggio determina la visione del mondo. La scelta del linguaggio –anche del linguaggio informatico– non è né irrilevante né innocente. Non è irrilevante perché solo attraverso il linguaggio i fatti sono pensabili. Non è innocente perché la scelta del linguaggio porta con sé la scelta della struttura: e quindi porta scritta in sé sia la modalità di rappresentare il mondo, sia la modalità di interagire con il mondo.
Si usano i linguaggi (informatici) che si conoscono –Cobol o C++ o Java o .net o quello che sia–nell'illusione che riescano a descrivere neutralmente ogni mondo.
Ma il linguaggio, portando in sé una propria sintassi e una propria semantica, –Cobol o C++ o Java o .net o quello che sia– si trasforma così in un Cavallo di Troia: impone al mondo una visione del mondo già fatta.
Rorty: Conoscere la realtà non significa 'fotocopiarla', ma 'venire a capo delle sue sfide'.
Prendere per buoni sistemi informativi esistenti, edificati in tempi precedenti, è vano e fallace. In ogni istante possiamo fotografare la realtà, ed ogni fotografia sarà diversa.
Possiamo invece usare gli operatori booleani per interagire con la realtà. Interrogarsi sulla natura e sugli stati del mondo significa partecipare a costruire: l'organizzazione è frutto di co-creazione.
Rorty: Ciò che chiamiamo 'mondo' non è la totalità dei dati di fatto. Esso è l' insieme delle limitazioni cognitivamente significative che sono imposte ai nostri sforzi di imparare dalle –e di avere il controllo sulle– reazioni della natura a partire da previsioni attendibili.
Ciò che chiamiamo 'sistema informativo' è lungi dall'accogliere la totalità dei dati. Il sistema informativo non è una rappresentazione, uno specchio del mondo. E' solo l'insieme di informazioni raccolte a partire da limitate e limitanti domande che ci siamo posti a proposito degli stati del mondo.
Rorty: Le risposte che ci dà la natura sono sempre indirette, in quanto restano legate alla struttura delle nostre domande.
L'informatica che pone al centro della propria attenzione la 'struttura dei dati' si illude di rappresentare la natura, replicandone la struttura. Ma la 'struttura' che filtra il nostro rapporto con la 'natura', con il mondo osservato –e quindi: la struttura dei dati– non è la struttura della 'natura' –per noi inattingibile, invisibile– ma 'la struttura delle nostre domande'. Sia che le domande siano state formulate una volta per tutte, previamente, attraverso 'query strutturate'. Sia che le domande siano ri-formulate di volta in volta, attraverso strumenti di Knowledge Discovery, Data Mining, Information Retrieval. Ovvio che, dove la tecnologia lo permette –e oggi la tecnologia lo permette pressoché in ogni caso– meglio riformulare di volta in volta le domande. Le domande anche in apparenza simili, formulate in momenti diversi, di fronte a stati del mondo diversi, sono diverse.
Rorty: Per queste sue caratteristiche di sapere narrativo, la filosofia appare protesa a edificare, cioè a formare gli uomini, più che a 'conoscere' oggettivamente il mondo. In questa nuova veste, di tipo etico-formativo, la filosofia non si pone più come espressione privilegiata del sapere, ma come una delle tante voci all'interno della 'conversazione' complessiva dell'umanità. Conversazione che si nutre del dialogo, ossia di una 'democrazia dialettica' che vive del confronto costante dei diversi punti di vista, senza pretese di sopraffazione reciproca.
E' questa la confusa, incerta, ma ricca 'democrazia' fondata sulla conversazione che vediamo emergere nella pluralità di voci della Grande Rete, fatta di diverse e interconnesse 'reti sociali', nei blog.
Conversazioni alle quali concorrono 'filosofi' e pretesi ignoranti. La conoscenza non nasce dall'ordine e dal controllo, ma dalla contaminazione, dal dialogo. Se un gioco non si basa su una partita unica –come accade con i sistemi fondati sull'univocità del dato– ma viene ripetuto nel tempo, allora verranno a crearsi dei meccanismi di credibilità e di reputazione in grado di condurre le parti a comportamenti di tipo cooperativo.
Al posto del garante, o platonico guardiano della 'qualità dell'informazione', garante o platonico guardiano del 'grado di verità della conoscenza', emerge –in virtù degli strumenti informatici oggi disponibili– la figura del narratore: la persona che osserva il mondo, e può essere ognuno di noi, e contribuisce al sapere collettivo osservando il mondo a partire dalla propria cultura e dalla propria storia e dal proprio carattere.
Rorty: Questo soggetto, portatore di credenze, emozioni e speranze non assomiglia al filosofo tradizionale ma piuttosto al narratore, al romanziere.
A ben guardare, l'informatica intesa secondo il paradigma Bush–Nelson–Engelbart–Berners-Lee–Cunningham non offre altro che strumenti per narrare.
Rorty: Gradualmente sostituire il concetto di verità come corrispondenza alla realtà con l'idea che verità è la convinzione che si forma durante scontri liberi e aperti.
Chi si occupa di informatica crede (spera, si illude) di essere di essere il garante e il depositario della 'vera' informazione, l'informazione che descrive il mondo come è. Ma esistono all'interno dell'organizzazione –di ogni impresa– diverse visioni del mondo, diverse letture della realtà. Ogni stakeholder è portatore di una propria visione. All'informatica intesa come strumentazione che difende l'immagine (unica) della realtà, pretesa immagine 'vera', si contrappone l'informatica che offre strumenti per scoprire e per collaborare. Portare alla luce conoscenze tacite e latenti, favorire il lavoro collaborativo teso a costruire una sempre mutevole 'verità' ragionevolmente condivisa.
Nel giardino della conoscenza: Linneo vs. Goethe
Si scrive anche con la voce.
Presso il Corso di Laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica dell'Università di Pisa (dove insegno), nell'ambito dei Seminari di cultura digitale, il 4 marzo 2009 ho parlato su questo tema: Linneo vs. Goethe. Due paradigmi per l'informatica
Riporto qui la breve presentazione del seminario:
"L'informatica ripercorre il cammino già percorso dalla filosofia della conoscenza. Osservando i contrapposti approcci alla comprensione della Natura proposti da Linneo e da Goethe è possibile mettere in luce due diversi approcci compresenti oggi nella teoria e nella pratica dell'informatica, due diversi modi di muoversi nel giardino della conoscenza."
Si tratta, in realtà, di una breve versione orale di uno dei testi compresi nel testo che sto scrivendo.
Qui trovate la registrazione del seminario, in formato mp3 (dura circa un'ora).
Presso il Corso di Laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica dell'Università di Pisa (dove insegno), nell'ambito dei Seminari di cultura digitale, il 4 marzo 2009 ho parlato su questo tema: Linneo vs. Goethe. Due paradigmi per l'informatica
Riporto qui la breve presentazione del seminario:
"L'informatica ripercorre il cammino già percorso dalla filosofia della conoscenza. Osservando i contrapposti approcci alla comprensione della Natura proposti da Linneo e da Goethe è possibile mettere in luce due diversi approcci compresenti oggi nella teoria e nella pratica dell'informatica, due diversi modi di muoversi nel giardino della conoscenza."
Si tratta, in realtà, di una breve versione orale di uno dei testi compresi nel testo che sto scrivendo.
Qui trovate la registrazione del seminario, in formato mp3 (dura circa un'ora).
C'è un gran disordine sulla mia scrivania
Posso anche rinunciare per un istante a guardare alle sterminate fonti che il Web mi propone, alla incommensurabile Rete, e guardare solo a me stesso – posso per un istante limitarmi a pensare alla mia rete neurale e alla mia personalissima memoria.
Qualche anno fa, riflettendo sul tema della conoscenza, mi sono trovato ad osservare il gran disordine sulla mia scrivania.
Biglietti del treno, custodie di occhiali, due diverse edizioni del Gattopardo, un libro di management in inglese, dato in lettura da un editore (“The Book will give you an understanding of what has made…”), le bozze del mio libro finalmente in stampa, il libro di Ursula Le Guin da cui ora copio una frase: “Sapere locale non significa sapere parziale, gli spiegarono. Esistono vari modi di conoscere. Ognuno ha i suoi pregi, difetti, soddisfazioni. La conoscenza storica e la conoscenza scientifica rappresentano un modo di conoscere. Come la conoscenza locale, richiedono apprendimento”, bicchieri vuoti e il vassoio del cibo di un forzato che lavora di domenica pomeriggio, un depliant dedicato alle iniziative culturali primaverili della Regione Toscana, una lettera di incarico per attività professionali da svolgersi nell’ambito del progetto 05FSE251039.01, un elefantino portafortuna regalato non so più da chi, tre mie fototessera, un certo numero di biglietti da visita che forse ho copiato sull’agenda elettronica o forse no, una scatolina di Daygum, chewing gum in confetti integratore alimentari di calcio e fluoro, la cassetta audio di una intervista fatta più di un anno fa.
Tra la tastiera e lo schermo in un vassoio di legno penne e matite che non uso più so neanche più se funzionano, un cestino di viminicon dentro una ghiaia della mia spiaggia preferita, un portachiavi, un sigillo di ottone per sigillare con ceralacca, porta le iniziali di mio nonno, due timbri a nastro scorrevole, anch’essi credo di mio nonno: uno per scrivere la data, l’altro con una scelta di scritte del tipo: urgente, pagato, fatt. comm. aperta, un barattolo di latta da quale spuntano due lenti di ingrandimento, altre penne, un tagliacarte, due paia di forbici, una lampada con la palpebra blu, attorno al quale è attorcigliato un cavo usb, lì accanto il modem adsl, e dischetti e cd e fogli di carta stratificati, memoria di giorni o mesi o anni passati, ma in qualche maniera ancora presenti, segno di interessi e curiosità che convivono nella mia mente, e solo ora mi accorgo dell’assenza di un oggetto al quale ero particolarmente affezionato, che da trent’anni mi ha accompagnato, se sempre su ogni mia scrivania.
Disordine e spazio malamente utilizzato. Ma se qualcuno spostasse qualcosa non troverei più nulla. Se qualcuno mettesse in ordine, magari raccogliendo per genere gli oggetti, i fogli sparsi insieme ai fogli sparsi, i biglietti da visita uno sopra l’altro, vivrei l’intervento come una ferita inferta ai miei processi mentali, come un turbare il mio lavoro creativo.
Il disordine sulla mia scrivania, mi dicevo, è un disordine fertile. Potrei precisare ora: è una metafora del groviglio, del gnommero, della matassa che ho in mente.
Ma ora -come dicevo, è passato qualche anno- la mia scrivania è più sgombra. Non perché sono diventato più ordinato, né perché ho cambiato modo di pensare. La mia scrivania è più sgombra perché via via lavoro meno con libri e e fogli e quaderni, uso sempre menu utensili fisici, penne e matite e gomme e graffette. Via via trovo più vantaggio e piacere nel lavorare con supporti virtuali, con utensili digitali.
Scrivo tramite un word processor ormai da venticinque anni. Ma il processo che ha portato a sostituire in modo sempre più completo la scrivania fisica con gli utensili pensati da Engelbart -tastiera, mouse, puntatori, schermo grafico, icone- è stato lento. Lentezza legata alla difficoltà di cambiare abitudini, ma sopratutto legata al reale vantaggio: ora, appunto, tramite il motore di ricerca (Google desk, o sul Macintosh Spotlight) posso muovermi nel disordine apparente dei miei testi cercando, ritrovando, cancellando e copiando, tagliando e cucendo. Posso aggiungere nuovo testo come sto facendo in questo istante.
Tramite la tastiera, il mouse, lo schermo, le cuffie, ho accesso ad ogni cassetto fisico o mentale, ad ogni recesso del mio mondo privato -anche a quelle segrete stanze che avevo chiuso o dimenticato, anche a quei percorsi di cui avevo perso memoria-. Ho a disposizione, in questo istante, non solo tutte le mie parole ordinatamente scritte e rifinite, i testi dei miei libri e dei miei articoli, ma tutti i brogliacci, gli appunti, i fogli di carta appallottolati nel cestino. E ancor più: sono potenzialmente presenti i luoghi di pensiero che la mia mente ha visitato, le connessioni, i percorsi di senso le che la mia mente ha prodotto – e anche tutti i percorsi di senso che a mia mente, in questo istante o nel futuro, potrebbe produrre.
Certo, sul desktop non posso vedere il piatto del cibo che ho appena mangiato (anche se, noto di passaggio, proprio dal piatto piatto, latino discus, trae origine l’espressione inglese desk, "table to write on"), ma trovo icone, metafore, che descrivono gli oggetti, penne e forbici e fogli di carta, che prima giacevano a mia disposizione sul tavolo di legno. Ma sopratutto, il desktop è un’interfaccia, o uno schermo (pensiamo all’origine della parola schermo: qualcosa che occulta e protegge) dietro al quale sta la complessità dei miei processi mentali di questi venticinque anni.
Così, il disordine apparente della scrivania virtuale è lo stesso disordine apparente delle mia scrivania fisica. Ma sono di fronte ad una differenza sostanziale, ad un guadagno che non ha prezzo. Nel disordine del tavolo e nell'accumulo di scartoffie resta nascosta un ricchezza in gran parte persa per sempre, una ricchezza che solo un lampo mentale, la felice connessione che talvolta scatta potrebbero rendere attuale, fruibile. Ma la mia memoria, da sola, non ricorda abbastanza, la mia mente non sa tentare che alcune connessioni. Mentre tutto ciò che è conservato nella memoria virtuale, per la mia mente, potenziata dall'accoppiamento strutturale con questa macchina, è vivo, presente qui ed ora. Sempre accessibile, emerge nell'istante, è appunto, conoscenza: torno alle parole di Maturana che mi sstanno guidando: la conoscenza è condotta adeguata, questa macchina mi aiuta a rendere più adeguata la mia condotta.
Qualche anno fa, riflettendo sul tema della conoscenza, mi sono trovato ad osservare il gran disordine sulla mia scrivania.
Biglietti del treno, custodie di occhiali, due diverse edizioni del Gattopardo, un libro di management in inglese, dato in lettura da un editore (“The Book will give you an understanding of what has made…”), le bozze del mio libro finalmente in stampa, il libro di Ursula Le Guin da cui ora copio una frase: “Sapere locale non significa sapere parziale, gli spiegarono. Esistono vari modi di conoscere. Ognuno ha i suoi pregi, difetti, soddisfazioni. La conoscenza storica e la conoscenza scientifica rappresentano un modo di conoscere. Come la conoscenza locale, richiedono apprendimento”, bicchieri vuoti e il vassoio del cibo di un forzato che lavora di domenica pomeriggio, un depliant dedicato alle iniziative culturali primaverili della Regione Toscana, una lettera di incarico per attività professionali da svolgersi nell’ambito del progetto 05FSE251039.01, un elefantino portafortuna regalato non so più da chi, tre mie fototessera, un certo numero di biglietti da visita che forse ho copiato sull’agenda elettronica o forse no, una scatolina di Daygum, chewing gum in confetti integratore alimentari di calcio e fluoro, la cassetta audio di una intervista fatta più di un anno fa.
Tra la tastiera e lo schermo in un vassoio di legno penne e matite che non uso più so neanche più se funzionano, un cestino di viminicon dentro una ghiaia della mia spiaggia preferita, un portachiavi, un sigillo di ottone per sigillare con ceralacca, porta le iniziali di mio nonno, due timbri a nastro scorrevole, anch’essi credo di mio nonno: uno per scrivere la data, l’altro con una scelta di scritte del tipo: urgente, pagato, fatt. comm. aperta, un barattolo di latta da quale spuntano due lenti di ingrandimento, altre penne, un tagliacarte, due paia di forbici, una lampada con la palpebra blu, attorno al quale è attorcigliato un cavo usb, lì accanto il modem adsl, e dischetti e cd e fogli di carta stratificati, memoria di giorni o mesi o anni passati, ma in qualche maniera ancora presenti, segno di interessi e curiosità che convivono nella mia mente, e solo ora mi accorgo dell’assenza di un oggetto al quale ero particolarmente affezionato, che da trent’anni mi ha accompagnato, se sempre su ogni mia scrivania.
Disordine e spazio malamente utilizzato. Ma se qualcuno spostasse qualcosa non troverei più nulla. Se qualcuno mettesse in ordine, magari raccogliendo per genere gli oggetti, i fogli sparsi insieme ai fogli sparsi, i biglietti da visita uno sopra l’altro, vivrei l’intervento come una ferita inferta ai miei processi mentali, come un turbare il mio lavoro creativo.
Il disordine sulla mia scrivania, mi dicevo, è un disordine fertile. Potrei precisare ora: è una metafora del groviglio, del gnommero, della matassa che ho in mente.
Ma ora -come dicevo, è passato qualche anno- la mia scrivania è più sgombra. Non perché sono diventato più ordinato, né perché ho cambiato modo di pensare. La mia scrivania è più sgombra perché via via lavoro meno con libri e e fogli e quaderni, uso sempre menu utensili fisici, penne e matite e gomme e graffette. Via via trovo più vantaggio e piacere nel lavorare con supporti virtuali, con utensili digitali.
Scrivo tramite un word processor ormai da venticinque anni. Ma il processo che ha portato a sostituire in modo sempre più completo la scrivania fisica con gli utensili pensati da Engelbart -tastiera, mouse, puntatori, schermo grafico, icone- è stato lento. Lentezza legata alla difficoltà di cambiare abitudini, ma sopratutto legata al reale vantaggio: ora, appunto, tramite il motore di ricerca (Google desk, o sul Macintosh Spotlight) posso muovermi nel disordine apparente dei miei testi cercando, ritrovando, cancellando e copiando, tagliando e cucendo. Posso aggiungere nuovo testo come sto facendo in questo istante.
Tramite la tastiera, il mouse, lo schermo, le cuffie, ho accesso ad ogni cassetto fisico o mentale, ad ogni recesso del mio mondo privato -anche a quelle segrete stanze che avevo chiuso o dimenticato, anche a quei percorsi di cui avevo perso memoria-. Ho a disposizione, in questo istante, non solo tutte le mie parole ordinatamente scritte e rifinite, i testi dei miei libri e dei miei articoli, ma tutti i brogliacci, gli appunti, i fogli di carta appallottolati nel cestino. E ancor più: sono potenzialmente presenti i luoghi di pensiero che la mia mente ha visitato, le connessioni, i percorsi di senso le che la mia mente ha prodotto – e anche tutti i percorsi di senso che a mia mente, in questo istante o nel futuro, potrebbe produrre.
Certo, sul desktop non posso vedere il piatto del cibo che ho appena mangiato (anche se, noto di passaggio, proprio dal piatto piatto, latino discus, trae origine l’espressione inglese desk, "table to write on"), ma trovo icone, metafore, che descrivono gli oggetti, penne e forbici e fogli di carta, che prima giacevano a mia disposizione sul tavolo di legno. Ma sopratutto, il desktop è un’interfaccia, o uno schermo (pensiamo all’origine della parola schermo: qualcosa che occulta e protegge) dietro al quale sta la complessità dei miei processi mentali di questi venticinque anni.
Così, il disordine apparente della scrivania virtuale è lo stesso disordine apparente delle mia scrivania fisica. Ma sono di fronte ad una differenza sostanziale, ad un guadagno che non ha prezzo. Nel disordine del tavolo e nell'accumulo di scartoffie resta nascosta un ricchezza in gran parte persa per sempre, una ricchezza che solo un lampo mentale, la felice connessione che talvolta scatta potrebbero rendere attuale, fruibile. Ma la mia memoria, da sola, non ricorda abbastanza, la mia mente non sa tentare che alcune connessioni. Mentre tutto ciò che è conservato nella memoria virtuale, per la mia mente, potenziata dall'accoppiamento strutturale con questa macchina, è vivo, presente qui ed ora. Sempre accessibile, emerge nell'istante, è appunto, conoscenza: torno alle parole di Maturana che mi sstanno guidando: la conoscenza è condotta adeguata, questa macchina mi aiuta a rendere più adeguata la mia condotta.
Scrivere per mezzo della Rete
Apprezzo sempre di più la conoscenza che nessun libro ospita e restituisce: le tracce sparse che trovo sulla Rete: non testi completi ma anzi testi programmaticamente incompleti, poveri spezzoni, citazioni, sunti, stralci, curiose divagazione, segnali deboli, scritture provvisorie, commenti, indicazioni di percorso. Contano più i testi inediti dei libri già pubblicati. Essendo ogni testo in fondo già noto, già letto, più del testo conta il commento. Conta più una pluralità divergente di commenti opinabili -ognuno dei quali apre una pista- di un'unica convergente interpretazione autorevole. Sono tracce di pensiero emergente, matassa da sbrogliare – ma per questo potenzialmente più ricche dei libri già scritti, conclusi.
E anche nel tempo presente, nel momento in cui sto scrivendo, convivono modalità diverse di scrittura: si produce conoscenza interagendo con un supporto cartaceo, ma anche lavorando con la sola voce. Sopratutto, oggi sta, dietro ogni forma di produzione di conoscenza, la codifica digitale: posso così usare, e tenere insieme, conoscenza prodotta tramite sistemi di segni diversi: segni vergati su un supporto, sì, ma anche voce e musica e immagini fisse e in movimento.
Sto sbrogliando una matassa, sto scrivendo un testo, che tra le altre forme di diffusione avrà, forse quella del libro. Ma non potrei scrivere quello che sto scrivendo, non potrei scrivere come se sto scrivendo - perdendomi nel gomitolo, nella maraña, clew, coil, écheveau, die Strähne, espressioni solo parzialmente vicine, lo so: non cerco una traduzione 'giusta', esatta, che in fondo non può esistere, cerco invece lo scivolamento di senso, la catacresi, nuove illuminazioni -nuovi mondi possibili, o una possibile mappa del mondo che sto attraversando, appunto come un lettore di libri gialli. Perché aiutato a pensare da questa macchina non ragiono più (solo) in italiano, trovo potenziate le mie capacità di ragionare in lingue che conosco bene, che conosco appena, che non conosco per nulla.
Non importa se i traduttori automatici sono approssimativi, non chiedo a loro nessuna precisione, accetto anzi come rivelazione poetica la loro imprecisione. Mi muovo nell'impermanenza, nella vacuità, nell'indeterminazione, e per questo posso creare conoscenza. Non cerco la verità in nessuna fonte. Né del resto mi aspetto dalla macchina una qualsiasi intelligenza. Mi basta la mia.
Penso a Proust alle prese con il tentativo di chiudere la Recherche, costretto a lavorare con la propria mente troppo debolmente connessa ai diversi strati di testo scritti a mano: dai quaderni di appunti al quaderno contenenti appunti disconnessi fino al manoscritto della versione finali. Strati impermeabili l'uno all'altro, perforabili solo dalla personale memoria. Testi che terminata la scrittura appaiono freddi e muti.
E io ora invece non ho nessun obbligo di terminare, di chiudere. Per rendere accessibile il frutto del mio pensiero, non ho bisogno di stampare su carta, una volta per tutte, una versione finale del testo. Questo testo potrà restare aperto. Non sarò costretto a smettere di scrivere.
Il testo che ho in mente come Devanarse los sesos, plastico e polimorfo, è per ora appoggiato su files diversi. E mentre scrivo, riesco a tenere in mente -ora, accoppiato strutturalmente a questa macchina- una infinità di fili parzialmente intrecciati: conto quante pagine web ho aperte in questo istante, cinquantasei, ognuna un indizio, una traccia che devo ancora connettere e collocare in una certo sempre temporanea struttura: libri aperti, voci di dizionari e di enciclopedie, testi che parlano di altri testi: Doug Engbelbart, Cellular Automaton, Genetic Algorithm, Embodiments of Mind, The Black Mask School, What the Frog's Eye Tells the Frog's Brain, monismo anomalo, Rudolf Carnap.
Osservo con tranquillità questo groviglio in cui sono immerso perché la macchina mi aiuta a perdermi e allo stesso tempo stesso mi aiuta a pensare che vedrò un filo - mi aiuta a trovare, per tentativi ed errori, per giochi ripetuti -come Philip Dick alle prese con il testo di The Man in the Hight Castle- un filo. Il Web, interrogato da te tramite il motore di ricerca, è il mio I Ching. Penso alla ricchezza dei mezzi di cui dispongo.
La sincronicità può 'funzionare', perché è coinvolta pienamente la mia mente: abbandono, mente semidesta, emozioni, passioni, gioco. (Mentre scrivo trovo incongruenze in testi già scritti, posso se voglio scrivere all'autore. Posso emendare e migliorare le voci di Wikipedia che incontro per strada).
Non solo ho a disposizione la parola scritta, ma anche immagini e voci. Mi appare così evidente come sia limitante conoscere un 'autore' -in questo contesto, la definizione è da prendere con le molle, e mi appare in tutta la sua imperfezione, in tutta la sua fallacia: chi è autore, e di cosa?- mi appare così evidente come la parola scritta su carta costringa la conoscenza del pensiero dell'altro in spazi angusti, unilineari, monodimensionali, freddi, appiattiti. Non conta forse l'eloquio, il tono di voce, lo sguardo – non sono anche queste manifestazioni di conoscenza? Se mi assoggetto ai limiti del libro, è solo perché ho solo il libro. Ma oggi, già nel momento in cui sto scrivendo, i tempi in cui avevamo a disposizione solo il libro sono alle spalle.
Posso, tramite il Web, leggere le personali prefazioni con le quali Humberto Maturana e Francisco Varela ripercorrono -sbrogliandola ognuno a suo modo- la vicenda scientifica ed epistemologica che intreccia le loro vite e i loro testi. Ma posso anche vedere ed ascoltare loro interviste. E posso farlo in un contesto che è anche caldamente autobiografico, legato all'essere vivente Francesco Varanini, perché posso ascoltare le conversazioni televisive di entrambi con Cristián Warnken Lihn, poeta cileno – essendo stato anch'io intervistato da Cristián in quello stesso luogo, in quello stesso contesto (a proposito del mio Viaje literario por América Latina), la mia comprensione dell'opera e del pensiero di
Maturana e Varela ne esce arricchita, illuminata da una luce che altrimenti non sarei riuscito ad accendere. Un'ora di conversazione, forse vale più di centinaia di pagine scritte.
E anche nel tempo presente, nel momento in cui sto scrivendo, convivono modalità diverse di scrittura: si produce conoscenza interagendo con un supporto cartaceo, ma anche lavorando con la sola voce. Sopratutto, oggi sta, dietro ogni forma di produzione di conoscenza, la codifica digitale: posso così usare, e tenere insieme, conoscenza prodotta tramite sistemi di segni diversi: segni vergati su un supporto, sì, ma anche voce e musica e immagini fisse e in movimento.
Sto sbrogliando una matassa, sto scrivendo un testo, che tra le altre forme di diffusione avrà, forse quella del libro. Ma non potrei scrivere quello che sto scrivendo, non potrei scrivere come se sto scrivendo - perdendomi nel gomitolo, nella maraña, clew, coil, écheveau, die Strähne, espressioni solo parzialmente vicine, lo so: non cerco una traduzione 'giusta', esatta, che in fondo non può esistere, cerco invece lo scivolamento di senso, la catacresi, nuove illuminazioni -nuovi mondi possibili, o una possibile mappa del mondo che sto attraversando, appunto come un lettore di libri gialli. Perché aiutato a pensare da questa macchina non ragiono più (solo) in italiano, trovo potenziate le mie capacità di ragionare in lingue che conosco bene, che conosco appena, che non conosco per nulla.
Non importa se i traduttori automatici sono approssimativi, non chiedo a loro nessuna precisione, accetto anzi come rivelazione poetica la loro imprecisione. Mi muovo nell'impermanenza, nella vacuità, nell'indeterminazione, e per questo posso creare conoscenza. Non cerco la verità in nessuna fonte. Né del resto mi aspetto dalla macchina una qualsiasi intelligenza. Mi basta la mia.
Penso a Proust alle prese con il tentativo di chiudere la Recherche, costretto a lavorare con la propria mente troppo debolmente connessa ai diversi strati di testo scritti a mano: dai quaderni di appunti al quaderno contenenti appunti disconnessi fino al manoscritto della versione finali. Strati impermeabili l'uno all'altro, perforabili solo dalla personale memoria. Testi che terminata la scrittura appaiono freddi e muti.
E io ora invece non ho nessun obbligo di terminare, di chiudere. Per rendere accessibile il frutto del mio pensiero, non ho bisogno di stampare su carta, una volta per tutte, una versione finale del testo. Questo testo potrà restare aperto. Non sarò costretto a smettere di scrivere.
Il testo che ho in mente come Devanarse los sesos, plastico e polimorfo, è per ora appoggiato su files diversi. E mentre scrivo, riesco a tenere in mente -ora, accoppiato strutturalmente a questa macchina- una infinità di fili parzialmente intrecciati: conto quante pagine web ho aperte in questo istante, cinquantasei, ognuna un indizio, una traccia che devo ancora connettere e collocare in una certo sempre temporanea struttura: libri aperti, voci di dizionari e di enciclopedie, testi che parlano di altri testi: Doug Engbelbart, Cellular Automaton, Genetic Algorithm, Embodiments of Mind, The Black Mask School, What the Frog's Eye Tells the Frog's Brain, monismo anomalo, Rudolf Carnap.
Osservo con tranquillità questo groviglio in cui sono immerso perché la macchina mi aiuta a perdermi e allo stesso tempo stesso mi aiuta a pensare che vedrò un filo - mi aiuta a trovare, per tentativi ed errori, per giochi ripetuti -come Philip Dick alle prese con il testo di The Man in the Hight Castle- un filo. Il Web, interrogato da te tramite il motore di ricerca, è il mio I Ching. Penso alla ricchezza dei mezzi di cui dispongo.
La sincronicità può 'funzionare', perché è coinvolta pienamente la mia mente: abbandono, mente semidesta, emozioni, passioni, gioco. (Mentre scrivo trovo incongruenze in testi già scritti, posso se voglio scrivere all'autore. Posso emendare e migliorare le voci di Wikipedia che incontro per strada).
Non solo ho a disposizione la parola scritta, ma anche immagini e voci. Mi appare così evidente come sia limitante conoscere un 'autore' -in questo contesto, la definizione è da prendere con le molle, e mi appare in tutta la sua imperfezione, in tutta la sua fallacia: chi è autore, e di cosa?- mi appare così evidente come la parola scritta su carta costringa la conoscenza del pensiero dell'altro in spazi angusti, unilineari, monodimensionali, freddi, appiattiti. Non conta forse l'eloquio, il tono di voce, lo sguardo – non sono anche queste manifestazioni di conoscenza? Se mi assoggetto ai limiti del libro, è solo perché ho solo il libro. Ma oggi, già nel momento in cui sto scrivendo, i tempi in cui avevamo a disposizione solo il libro sono alle spalle.
Posso, tramite il Web, leggere le personali prefazioni con le quali Humberto Maturana e Francisco Varela ripercorrono -sbrogliandola ognuno a suo modo- la vicenda scientifica ed epistemologica che intreccia le loro vite e i loro testi. Ma posso anche vedere ed ascoltare loro interviste. E posso farlo in un contesto che è anche caldamente autobiografico, legato all'essere vivente Francesco Varanini, perché posso ascoltare le conversazioni televisive di entrambi con Cristián Warnken Lihn, poeta cileno – essendo stato anch'io intervistato da Cristián in quello stesso luogo, in quello stesso contesto (a proposito del mio Viaje literario por América Latina), la mia comprensione dell'opera e del pensiero di
Maturana e Varela ne esce arricchita, illuminata da una luce che altrimenti non sarei riuscito ad accendere. Un'ora di conversazione, forse vale più di centinaia di pagine scritte.
Certo, niente vale di più della com-presenza, della vicinanza dei corpi vivi, io e l'altro a portata di voce e di sguardo e di tocco. Ma la parola scritta -e dunque la lettera e il libro- non sono l'unico surrogato dell'assenza e della distanza (nel tempo e nello spazio) e della morte. Di più, credo, vale la mobile parola scritta del testo digitale; di più valgono nell'insieme, credo, le risorse che il Web ci rende accessibili.
Scrivendo con un macchina che aiuta a pensare
Sto scrivendo, interagendo con una macchina che mi aiuta a pensare, la scrittura non è che una manifestazione del pensiero che emerge dal mio accoppiamento strutturale con questa macchina, che chiamiamo volgarmente, impropriamente, personal computer. Posso tramite la stessa macchina leggere. (La macchina mi fornisce anche una colonna sonora, ora, in questi istanti: canto gregoriano, Ave Maria (Antiphona); L'Arte della fuga BW1080, Contrapunctus n. 4, Bach e e Glenn Gould; Alternative 3, Brian Eno; Battiato, E ti vengo a cercare; Dans un bois solitaire, Mozartlieder). Potrei ricorrere ai libri della mia biblioteca, e alcuni sono sul tavolo, ma più mi immergo nel lavoro più restano chiusi, trovo più semplice, efficace e naturale ricorrere a versioni digitali dello stesso testo, di ognuno dei testi che possiedo sotto forma di oggetto fisico, libro, è che ho sul mio tavolo o nel mio studio, esiste -mi rendo conto- una versione digitale accessibile (spesso gratuitamente), tramite Google Book, Amazon, o Scribd, o altre fonti. Non in italiano, se non in rari casi, ma in inglese, in spagnolo, o in tedesco, in francese. E la Rete mi rende evidenti ed accessibili connessioni tra testi che la mia mente da solo non avrebbe saputo cogliere. E la Rete mi mette a disposizione una infinità di altri testi, tanto da farmi apparire la mia biblioteca una capocchia di spillo in un in un a sconfinata massa di conoscenze.
In fondo la mia biblioteca fisica è fallace e mi lega al passato: rappresentata la rete di conoscenze nella quale mi sono mosso fino ad ora. La mia biblioteca rappresenta la mia conoscenza come struttura fissa e limitata, assoggettata ai limiti del libro. Il libro mi condiziona, imponendomi il suo stock di conoscenze chiuse, imponendomi un suo percorso sequenziale, il suo ordine indiscutibile. Mentre io ho bisogno di ritrovare solo una parola, una frase, un nome, ho bisogno di attraversare il testo in quel luogo preciso; e vivo nella speranza di cogliere, tramite quel luogo, nuove connessioni, oltre i confini della mia biblioteca.
Ascolto partecipe i racconti commossi di chi ha voluto visitare quei templi del sapere, è lì si è sentito partecipe, ha colto l'aura, l'enormità della conoscenza accumulata, lì aleggiante, oltre i confini del tempo. Capisco meno gli amici che dicono di aver bisogno, per studiare e scrivere, di recarsi a lavorare in biblioteche prestigiose.
In ogni caso, mi chiedo, perché andare a Berlino, o a Londra quando posso avere a disposizione qui il catalogo della British Library e della Library of Congress di Washington, e di ogni biblioteca. E posso avere accesso tramite la macchina con cui lavoro e penso ad ogni libro. Considero il disincanto una malattia, non rinuncio ad affacciarmi sugli infiniti nuovi mondi della conoscenza con lo sguardo appassionato di chi sosta con silenzioso stupore nelle antiche sale delle grandi biblioteche. Ma alle fonti della conoscenza voglio accedere – e niente mi garantisce un accesso felice e profondo e illimitato come la mia macchina connessa in Rete.
Borges ci parla della Biblioteca di Babele, l'unica biblioteca in fondo degna di questo nome, perché universale: infinita, illimitata e ricorsiva: a questa Biblioteca, posso accedere solo tramite la Rete. E solo tramite il motore di ricerca posso penetrare attraverso i libri e oltre i confini fisici dei libri - senza subire la forma del libro, ma anzi sbrogliando la matassa che ho in mente.
Tramite la Rete, poi, posso andare oltre il libro: chi l'ha detto che la conoscenza buona ed utile ed arricchente è solo la conoscenza offerta dai libri. Semplicemente, c'è stato un tempo nel quale la conoscenza era accessibile solo tramite i libri. Ma c'è stato un tempo in cui l'uomo ha creato conoscenza usando esclusivamente la propria mente. C'è stato un tempo in cui l'uomo ha creato conoscenza usando supporti diversi dal libro, rotoli di pergamena, per esempio. Sono tempi di cui ci parla la storia, ma anche, a ben guardare, tempi compresenti alla gloriosa stagione del libro. Senza cultura e narrazione orale, la stessa
Il libro continuerà ad avere forse un senso negli anni e nei secoli e nei millenni a venire. Ma già oggi non possiamo contentarci del libro. Già oggi non c'è motivo di confondere il testo con il libro.
Così come già a cavallo tra 1800 e 1900 si poteva notare che una ricca conoscenza stava in fogli di carta di cattiva qualità, malamente rilegati -libri e riviste pulp, dime- appare sempre più evidente che oggi la conoscenza più ricca, oggi, sta fuori dai libri.
La bookishness, la rispettabile millenaria consuetudine di cui parla George Stenier -l'abitudine a considerare il libro come tramite elettivo, e peggio: esclusivo nell'accesso alla conoscenza- è un lusso che forse non ci possiamo più concedere. Perché dietro la snobistica predilezione per il libro si nasconde una nuova ignoranza. Siamo ignoranti se guardiamo solo ai libri.
In fondo la mia biblioteca fisica è fallace e mi lega al passato: rappresentata la rete di conoscenze nella quale mi sono mosso fino ad ora. La mia biblioteca rappresenta la mia conoscenza come struttura fissa e limitata, assoggettata ai limiti del libro. Il libro mi condiziona, imponendomi il suo stock di conoscenze chiuse, imponendomi un suo percorso sequenziale, il suo ordine indiscutibile. Mentre io ho bisogno di ritrovare solo una parola, una frase, un nome, ho bisogno di attraversare il testo in quel luogo preciso; e vivo nella speranza di cogliere, tramite quel luogo, nuove connessioni, oltre i confini della mia biblioteca.
Ascolto partecipe i racconti commossi di chi ha voluto visitare quei templi del sapere, è lì si è sentito partecipe, ha colto l'aura, l'enormità della conoscenza accumulata, lì aleggiante, oltre i confini del tempo. Capisco meno gli amici che dicono di aver bisogno, per studiare e scrivere, di recarsi a lavorare in biblioteche prestigiose.
In ogni caso, mi chiedo, perché andare a Berlino, o a Londra quando posso avere a disposizione qui il catalogo della British Library e della Library of Congress di Washington, e di ogni biblioteca. E posso avere accesso tramite la macchina con cui lavoro e penso ad ogni libro. Considero il disincanto una malattia, non rinuncio ad affacciarmi sugli infiniti nuovi mondi della conoscenza con lo sguardo appassionato di chi sosta con silenzioso stupore nelle antiche sale delle grandi biblioteche. Ma alle fonti della conoscenza voglio accedere – e niente mi garantisce un accesso felice e profondo e illimitato come la mia macchina connessa in Rete.
Borges ci parla della Biblioteca di Babele, l'unica biblioteca in fondo degna di questo nome, perché universale: infinita, illimitata e ricorsiva: a questa Biblioteca, posso accedere solo tramite la Rete. E solo tramite il motore di ricerca posso penetrare attraverso i libri e oltre i confini fisici dei libri - senza subire la forma del libro, ma anzi sbrogliando la matassa che ho in mente.
Tramite la Rete, poi, posso andare oltre il libro: chi l'ha detto che la conoscenza buona ed utile ed arricchente è solo la conoscenza offerta dai libri. Semplicemente, c'è stato un tempo nel quale la conoscenza era accessibile solo tramite i libri. Ma c'è stato un tempo in cui l'uomo ha creato conoscenza usando esclusivamente la propria mente. C'è stato un tempo in cui l'uomo ha creato conoscenza usando supporti diversi dal libro, rotoli di pergamena, per esempio. Sono tempi di cui ci parla la storia, ma anche, a ben guardare, tempi compresenti alla gloriosa stagione del libro. Senza cultura e narrazione orale, la stessa
Il libro continuerà ad avere forse un senso negli anni e nei secoli e nei millenni a venire. Ma già oggi non possiamo contentarci del libro. Già oggi non c'è motivo di confondere il testo con il libro.
Così come già a cavallo tra 1800 e 1900 si poteva notare che una ricca conoscenza stava in fogli di carta di cattiva qualità, malamente rilegati -libri e riviste pulp, dime- appare sempre più evidente che oggi la conoscenza più ricca, oggi, sta fuori dai libri.
La bookishness, la rispettabile millenaria consuetudine di cui parla George Stenier -l'abitudine a considerare il libro come tramite elettivo, e peggio: esclusivo nell'accesso alla conoscenza- è un lusso che forse non ci possiamo più concedere. Perché dietro la snobistica predilezione per il libro si nasconde una nuova ignoranza. Siamo ignoranti se guardiamo solo ai libri.
Istanziazione
Si legge in manuali di informatica che l'italiano istanziare è una aberrante traduzione dall'inglese to instance, e si dice che sarebbe più corretto, nella nostra lingua, parlare di classificazione. Fuorviati dalla convinzione che il sapere informatico è 'un'altra cosa', si perde la memoria filosofica, e si dimentica che l'inglese deriva dal latino.
Dalla radice indoeuropea sta- 'stare', in stare, 'stare vicino'. E anche 'star sopra', 'incombere', 'incalzare'. Vicinanza non solo spaziale, ma temporale: instans, 'ciò che accade ora'.
Istantia ci parla dunque di 'imminenza', 'domanda che insiste' (insistere: ancora 'stare sopra).
Il greco la parola era enstasis, usata anche nel senso di 'obiezione'. Di qui l'istantia della filosofia scolastica: 'obiezione alla tesi dell'avversario', 'contraddittorio', 'ragione addotta a sostegno della propria tesi'.
Bacone riprende il termine. Le tabulae instantiarum dispongono in modo ordinato il frutto della Natura. Ma sono tavole che hanno ancora molto a che fare con gli strumenti di decifrazione dei codici segreti, dei crittogrammi. Linneo va oltre. Nel suo Systema Naturae -siamo alla metà del 1700- si fa carico del compito immane di individuare univocamente ogni pianta, ogni animale, ogni minerale.
Tra il progetto di Linneo e l'approccio alla gestione delle informazioni che ci propone ancora oggi l'informatica non c'è soluzione di continuità. Il mondo è visto come sistema di classi gerarchicamente organizzato.
Conoscere, dunque, significa istanziare: attribuire gli oggetti, univocamente, ad una classe. Ogni oggetto è un'istanza della classe cui appartiene.
Nella classificazione linneiana l'uomo, con qualche motivo, sta vicino alla scimmia. Ma il limite del metodo linneiano, così comee della ragione kantiana, così come dell'informatica orientata a conservare solo informazioni strutturate, appare qui: considerare tecnicamente possibile una sola struttura. Di tutte le diverse chiavi di lettura che possono considerare vicini o lontani l'uomo alla scimmia, ci si costringe ad assumerne una ed una sola. Un solo codice, una sola struttura, una sola possibilità di istanziazione.
Dante ci mostra l'alternativa. “Da questa istanza può deliberarti/ esperïenza, se già mai la provi/ ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti” (Paradiso, II, 94-96). Da questa obiezione -ma anche: da questo rigido criterio di lettura del mondo- può liberati l'esperienza, che è fonte di conoscenza. Si possono considerare vicini e lontani gli enti in base a criteri diversi. La diversità è ricchezza.
Dalla radice indoeuropea sta- 'stare', in stare, 'stare vicino'. E anche 'star sopra', 'incombere', 'incalzare'. Vicinanza non solo spaziale, ma temporale: instans, 'ciò che accade ora'.
Istantia ci parla dunque di 'imminenza', 'domanda che insiste' (insistere: ancora 'stare sopra).
Il greco la parola era enstasis, usata anche nel senso di 'obiezione'. Di qui l'istantia della filosofia scolastica: 'obiezione alla tesi dell'avversario', 'contraddittorio', 'ragione addotta a sostegno della propria tesi'.
Bacone riprende il termine. Le tabulae instantiarum dispongono in modo ordinato il frutto della Natura. Ma sono tavole che hanno ancora molto a che fare con gli strumenti di decifrazione dei codici segreti, dei crittogrammi. Linneo va oltre. Nel suo Systema Naturae -siamo alla metà del 1700- si fa carico del compito immane di individuare univocamente ogni pianta, ogni animale, ogni minerale.
Tra il progetto di Linneo e l'approccio alla gestione delle informazioni che ci propone ancora oggi l'informatica non c'è soluzione di continuità. Il mondo è visto come sistema di classi gerarchicamente organizzato.
Conoscere, dunque, significa istanziare: attribuire gli oggetti, univocamente, ad una classe. Ogni oggetto è un'istanza della classe cui appartiene.
Nella classificazione linneiana l'uomo, con qualche motivo, sta vicino alla scimmia. Ma il limite del metodo linneiano, così comee della ragione kantiana, così come dell'informatica orientata a conservare solo informazioni strutturate, appare qui: considerare tecnicamente possibile una sola struttura. Di tutte le diverse chiavi di lettura che possono considerare vicini o lontani l'uomo alla scimmia, ci si costringe ad assumerne una ed una sola. Un solo codice, una sola struttura, una sola possibilità di istanziazione.
Dante ci mostra l'alternativa. “Da questa istanza può deliberarti/ esperïenza, se già mai la provi/ ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti” (Paradiso, II, 94-96). Da questa obiezione -ma anche: da questo rigido criterio di lettura del mondo- può liberati l'esperienza, che è fonte di conoscenza. Si possono considerare vicini e lontani gli enti in base a criteri diversi. La diversità è ricchezza.
Modello
Modello organizzativo. Modello dei dati. Siamo vagamente consapevoli di come il modello sia necessario. Come, senza modello, potremmo osservare la realtà, conoscere e descrivere il mondo. Ma cosa distingue il modello dal mondo? Come si costruisce il modello? Quando un modello è adeguato? E sopratutto: a cosa serve il modello?
In origine sta l'idea espressa dalla radice indoeuropea med-: 'pensare', 'giudicare', 'misurare', 'curare', 'consigliare', 'adottare misure appropriate', 'governare'. Di qui meditare e medicare, modestia, modico, ma anche modo.
Il latino modus ci parla di 'misura', 'ritmo', 'norma', 'regola', 'maniera'. Con il senso, anche, di 'strumento di misura', indirizzo e confine dell'azione, richiamo alla moderazione, al senso del limite.
Da modus, il diminutivo modulus: 'modo', 'misura'. E' l'elemento architetturale che si assume come base per determinare le misure di un insieme. Palladio: “Imitando Vitruvio, il quale partisce e divide l'ordine dorico con una misura cavata dalla grossezza della colonna, la quale è comune a tutti e dai lui chiamata modulo, mi servirò ancor io di tal misura”. E poi Galileo: “avendo riguardo al modulo, e cioè cioè alla norma e all'esempio...”.
Modulus appare termine tecnico, forse troppo lontano dal parlar quotidiano. E' così che il latino popolare ne trae un ulteriore diminutivo: modellus.
Una densa quartina di Michelangelo (Rime, 236) colloca il modello nel suo contesto, e ne illustra l'uso.
“Se ben concetto ha la divina parte/ il volto e gli atti d'alcun, po' di quello/ doppio valor con breve e vil modello/ dà vita a' sassi, e non è forza d'arte”
Prima di tutto sta la concezione dell'immagine (“il volto e gli atti d'alcun”), ovvero l'osservazione, la lettura critica del mondo. Operazione di ordine intellettuale che vede in gioco la “divina parte” di ognuno di noi, artista, progettista.
L'immagine è quindi concretizzata in abbozzo provvisorio (“breve e vil modello”). Lo scultore usa cera, legno o argilla, noi useremo altri strumenti, ma ricordiamoci: il modello è solo questo: approssimazione, prova, esempio.
Perché poi sempre, l'artista, come chi crea organizzazioni e di chi sviluppa software, dovrà realizzare l'opera, mettendo in campo al contempo il saper fare pratico e le qualità intellettuali (“doppio valor”). Solo così l'immagine abbozzata farà prender vita al blocco di marmo. Non per mera “forza d'arte”, ribadisce Michelangelo. Non basta la competenza tecnica, serve un investimento anche 'spirituale'.
L'esistenza del modello non costituisce alibi. Dietro il modello sta il modus: capacità di giudizio, azione responsabile.
In origine sta l'idea espressa dalla radice indoeuropea med-: 'pensare', 'giudicare', 'misurare', 'curare', 'consigliare', 'adottare misure appropriate', 'governare'. Di qui meditare e medicare, modestia, modico, ma anche modo.
Il latino modus ci parla di 'misura', 'ritmo', 'norma', 'regola', 'maniera'. Con il senso, anche, di 'strumento di misura', indirizzo e confine dell'azione, richiamo alla moderazione, al senso del limite.
Da modus, il diminutivo modulus: 'modo', 'misura'. E' l'elemento architetturale che si assume come base per determinare le misure di un insieme. Palladio: “Imitando Vitruvio, il quale partisce e divide l'ordine dorico con una misura cavata dalla grossezza della colonna, la quale è comune a tutti e dai lui chiamata modulo, mi servirò ancor io di tal misura”. E poi Galileo: “avendo riguardo al modulo, e cioè cioè alla norma e all'esempio...”.
Modulus appare termine tecnico, forse troppo lontano dal parlar quotidiano. E' così che il latino popolare ne trae un ulteriore diminutivo: modellus.
Una densa quartina di Michelangelo (Rime, 236) colloca il modello nel suo contesto, e ne illustra l'uso.
“Se ben concetto ha la divina parte/ il volto e gli atti d'alcun, po' di quello/ doppio valor con breve e vil modello/ dà vita a' sassi, e non è forza d'arte”
Prima di tutto sta la concezione dell'immagine (“il volto e gli atti d'alcun”), ovvero l'osservazione, la lettura critica del mondo. Operazione di ordine intellettuale che vede in gioco la “divina parte” di ognuno di noi, artista, progettista.
L'immagine è quindi concretizzata in abbozzo provvisorio (“breve e vil modello”). Lo scultore usa cera, legno o argilla, noi useremo altri strumenti, ma ricordiamoci: il modello è solo questo: approssimazione, prova, esempio.
Perché poi sempre, l'artista, come chi crea organizzazioni e di chi sviluppa software, dovrà realizzare l'opera, mettendo in campo al contempo il saper fare pratico e le qualità intellettuali (“doppio valor”). Solo così l'immagine abbozzata farà prender vita al blocco di marmo. Non per mera “forza d'arte”, ribadisce Michelangelo. Non basta la competenza tecnica, serve un investimento anche 'spirituale'.
L'esistenza del modello non costituisce alibi. Dietro il modello sta il modus: capacità di giudizio, azione responsabile.
Gatekeeper
Quando nel 1931 Walter Lippmann, grande giornalista famoso per l'indipendenza di giudizio, lascia il radicale New York World per il conservatore Herald Tribune, il direttore lo presenta tranquillizzando i lettori: Lippmann continuerà a scrivere su ciò che gli pare e come gli pare.
Nel 1922 Lippmann dà alle stampe Public Opinion, libro anticipatore, ancora oggi di grande attualità. “Nel momento in cui raggiunge il lettore, il giornale è il risultato di un'intera serie di scelte”, afferma. La pura informazione, fatti separati dalle opinioni, è un mito o un sogno, o una ipocrita illusione. Il giornalista, filtra le notizie in base a personali criteri.
L'idea di Lippmann è ripresa da Kurt Lewin, psicologo tedesco di forte formazione filosofica, emigrato negli States nel 1933. Nella sua ultima ricerca, i cui risultati saranno pubblicati postumi, nel 1947, studia le dinamiche di interazione nei gruppi sociali. I comportamenti relativi ad un campo d'azione scorrono lungo canali. In dati luoghi dei canali si trovano zone filtro, lì operano 'guardiani'. Lewin, che ormai scriveva direttamente in inglese, usa l'espressione gatekeeper, 'custode del cancello'.
Il controllo sociale, più che da vincoli esterni posti da legislatori o autorità, dipende dal lavoro di gatekeeper che agiscono all'interno del processo. La donna di casa è gatekeeper, perché decide cosa comparirà sulla tavola, e in ultima analisi cosa mangeranno marito e figli.
A conferma di ciò che aveva intuito Lippmann, e Lewin aveva generalizzato e modellizzato, sta -nel 1950- la ricerca empirica di David Manning White sul ruolo del giornalista. Presso il quotidiano di un piccolo centro degli Stati Uniti, solo il dieci per cento delle notizie pervenute in redazione vengono pubblicate. Il giornalista-gatekeeper può essere più o meno consapevole dei criteri di scelta: mancanza di spazio, scarso interesse, lontananza geografica o culturale. Si illude magari di operare in base all'etica o ad una rigorosa cultura professionale. Di fatto, sta intervenendo nel processo di circolazione delle conoscenze, imponendo al flusso regole che si traducono in selezione e controllo.
Gran parte del recente dibattito sulla crisi dei modelli di governo delle grandi imprese si è concentrato sui carenti comportamenti di Amministratori Delegati e Presidenti. Dovremmo però guardare con più attenzione al ruolo svolto dai loro consulenti. Veri e propri gatekeeper, filtrano informazioni e conoscenze, influendo grandemente sui processi decisionali.
Siamo prigionieri dei nostri guardiani.
Nel 1922 Lippmann dà alle stampe Public Opinion, libro anticipatore, ancora oggi di grande attualità. “Nel momento in cui raggiunge il lettore, il giornale è il risultato di un'intera serie di scelte”, afferma. La pura informazione, fatti separati dalle opinioni, è un mito o un sogno, o una ipocrita illusione. Il giornalista, filtra le notizie in base a personali criteri.
L'idea di Lippmann è ripresa da Kurt Lewin, psicologo tedesco di forte formazione filosofica, emigrato negli States nel 1933. Nella sua ultima ricerca, i cui risultati saranno pubblicati postumi, nel 1947, studia le dinamiche di interazione nei gruppi sociali. I comportamenti relativi ad un campo d'azione scorrono lungo canali. In dati luoghi dei canali si trovano zone filtro, lì operano 'guardiani'. Lewin, che ormai scriveva direttamente in inglese, usa l'espressione gatekeeper, 'custode del cancello'.
Il controllo sociale, più che da vincoli esterni posti da legislatori o autorità, dipende dal lavoro di gatekeeper che agiscono all'interno del processo. La donna di casa è gatekeeper, perché decide cosa comparirà sulla tavola, e in ultima analisi cosa mangeranno marito e figli.
A conferma di ciò che aveva intuito Lippmann, e Lewin aveva generalizzato e modellizzato, sta -nel 1950- la ricerca empirica di David Manning White sul ruolo del giornalista. Presso il quotidiano di un piccolo centro degli Stati Uniti, solo il dieci per cento delle notizie pervenute in redazione vengono pubblicate. Il giornalista-gatekeeper può essere più o meno consapevole dei criteri di scelta: mancanza di spazio, scarso interesse, lontananza geografica o culturale. Si illude magari di operare in base all'etica o ad una rigorosa cultura professionale. Di fatto, sta intervenendo nel processo di circolazione delle conoscenze, imponendo al flusso regole che si traducono in selezione e controllo.
Gran parte del recente dibattito sulla crisi dei modelli di governo delle grandi imprese si è concentrato sui carenti comportamenti di Amministratori Delegati e Presidenti. Dovremmo però guardare con più attenzione al ruolo svolto dai loro consulenti. Veri e propri gatekeeper, filtrano informazioni e conoscenze, influendo grandemente sui processi decisionali.
Siamo prigionieri dei nostri guardiani.
Titoli
Perché Dieci chili di perle è il possibile titolo del testo, inteso nel suo complesso, lo racconto altrove.
Qui elenco, senza dettagli, i titoli di alcuni dei testi che -nella versione provvisoria che ho in mente in questo momento- compongono il testo.
Scusate la ripetizione (testo, testo), ma -come ho fatto presente descrivendo questo blog- non voglio usare il termine libro, così come non voglio usare i termini che rimandano alla scansione del libro: scrivo un testo che è composto di diversi testi. Il testo che sto scrivendo forse sarà pubblicato anche sotto forma di libro. Nel testo pubblicato sotto forma di libro, i testi che lo compongono si chiamano capitoli.
Discorso notturno a me stesso (qui ne trovate qualche brano)
Qui elenco, senza dettagli, i titoli di alcuni dei testi che -nella versione provvisoria che ho in mente in questo momento- compongono il testo.
Scusate la ripetizione (testo, testo), ma -come ho fatto presente descrivendo questo blog- non voglio usare il termine libro, così come non voglio usare i termini che rimandano alla scansione del libro: scrivo un testo che è composto di diversi testi. Il testo che sto scrivendo forse sarà pubblicato anche sotto forma di libro. Nel testo pubblicato sotto forma di libro, i testi che lo compongono si chiamano capitoli.
Discorso notturno a me stesso (qui ne trovate qualche brano)
Un certo tipo di letteratura
Dati più o meno strutturati
Come un corvo dalla vista aguzza che spia ogni cosa che luccica e la afferra
Viaggio nelle nebulose regioni dell'I&CT
Permanentemente registrare, in vista di giorni migliori
Penultimi libri
Scrivere cancellando, ovvero Flaubert, Proust, Derrida e la conoscenza digitalizzata
Una studentessa a Pisa durante la lezione fa un cenno. Le chiedo cosa c’è. Mi dice: “Ma se dobbiamo seguire il suo ragionamento, allora vuol dire che oggi scrivere è cancellare”.
Mi fermo un attimo a pensare, poi le dico che ha ragione.
Stavo ragionando sulla produzione narrativa. Il narratore sa cogliere al volo il rumore della vita, le frasi pregne di significato in grado di rappresentare un mondo. Per questo il narratore usa i propri sensi, il proprio sguardo, il proprio orecchio, acuto ed esercitato, la propria capacità di ascolto.
Ma tutta questa conoscenza, questo sapere, è vano se non è tradotto in scrittura. Il copista, non a caso, è figura centrale nei romanzi dell’Ottocento. Flaubert ci presenta la situazione estrema. Bouvard e Pécuchet, scrivani, copisti, alle prese con l’opera impossibile: riscrivere, in insieme organizzato, l’intero scibile umano.
Eppure, fino a pochi anni fa l’organizzazione –l’organizzazione di un discorso come l’organizzazione di un testo e come l’organizzazione di un’impresa– dipendeva ancora totalmente dalla scrittura; diventava efficace solo attraverso la scrittura.
Senza il lavoro dello scrivano non c’è informazione gestibile, non c’è ‘base dati’. E’ questa base dati che permette ogni successivo lavoro: la correzione, il controllo, le ulteriori copie, l’aggiunta di glosse e l’approntamento di sintesi.
Pensiamo all’ultima incarnazione del copista: la segretaria dattilografa. Oppure pensiamo a quella che forse resta la sua più alta incarnazione moderna: la governante di Marcel Proust, Celéste Albaret. Proust, gelosissimo della propria opera, fin al limite delle proprie forze aveva scritto di proprio pugno. Finisce però per arrendersi a dettare a Celéste, che comunque, oltre a lui, quasi co-autrice, è l’unica persona in grado di muoversi negli strati informativi che intercorrono tra la materia prima, l’appunto colto al volo e fissato in fretta -frase rubata di bocca in un salotto, schizzo di un carattere- e l’ultima stesura destinata alla stampa. Sono tutti quaderni scritti a mano, conservati in quella camera foderata di sughero dove l’autore, per diminuire distorsioni, per restare solo con la propria memoria, si è volontariamente rinchiuso. Quaderni di serie diverse, ognuna appunto corrispondente ad uno strato informativo: quaderni di meri appunti privi di qualsiasi struttura, quaderni contenenti informazioni collocate all’interno di una ancora approssima struttura, quaderni contenenti una prima stesura, quaderni contenenti la versione finale.
Nella scrittura su carta, l’accesso ai diversi strati informativi è negato. Come ritrovare all’interno del testo, quella frase? Come ripercorrere la vicenda di un personaggio? Come intervenire sul testo già scritto?
Proust combatte con la struttura informativa a mani nude. Non gli resta che ricorrere alla memoria, forse al caso o alla coincidenza che lo porta a riaprire alla tal pagina un vecchio quaderno. E non gli resta infine, per correggere e migliorare la struttura del testo in corso d’opera, non gli resta che lo strumento estremo delle paperolles. Così lui chiamava le strisce di carta incollate al margine del quaderno da Céleste, negli estremi giorni, quando l’autore sentiva il bisogno di intervenire sulla struttura del testo già scritto. Solo aggiungendo queste strisce di carta, alcune delle quali lunghe più di due metri, era possibile aggiungere altre parole all’interno della sequenza di parole già scritte.
Mettiamoci ora, invece, nei panni di uno scrittore, se non di oggi, del prossimo secolo. Insomma, come lavorerà un Proust del prossimo secolo?
Il life caching –la massa di tracce digitali lasciata dalle nostre vite: telefonate digitalizzate, Sms, e-mail, testi contenuti nelle cartelle del desktop, testi pubblicati su blog, stream video, foto, registrazioni vocali, agende e calendari– ci garantisce quella base di informazioni che prima dovevamo chiedere al copista. O che a Proust richiedeva una lunga e lenta prima stesura.
Ecco il punto. Mentre il Proust del ventesimo secolo doveva affannarsi a scrivere, il Proust del futuro potrà tranquillamente dedicarsi a cancellare.
Lavorando su masse di informazioni grezze, non importa se e come strutturate, costruiremo testi sottoponendo l’informazione a un processo di estrazione selettiva. In funzione di un obiettivo comunicativo o estetico, in un dato istante elimineremo da questa gran massa tutto quello che non serve a dire quello che vogliamo dire. (Il senso dell’italiano cancellare è proprio questo, coprire, rendere invisibile).
Questo, credo, intendeva Derrida parlando di ‘scrittura’. Senza saperlo ci parlava di 'conoscenza' digitalizzata, base necessaria e allo stesso tempo massa informe, sempre passibile di diversa organizzazione. La ‘decostruzione’ di Derrida non ci appare più oscura se la intendiamo come la perenne ristrutturazione di cui è passibile l’informazione digitalizzata.
Di qui una provvisoria, ma credo non irrilevante conclusione. Se ci abituiamo a considerare nostra ‘penna’ gli strumenti di Information Retrieval e di Data Mining, la gran massa di informazioni che ci troviamo a gestire non ci apparirà un ingombrante peso, ma al contrario l’indispensabile base materiale della scrittura avvenire. La fonte della nostra personale libertà espressiva.
Mi fermo un attimo a pensare, poi le dico che ha ragione.
Stavo ragionando sulla produzione narrativa. Il narratore sa cogliere al volo il rumore della vita, le frasi pregne di significato in grado di rappresentare un mondo. Per questo il narratore usa i propri sensi, il proprio sguardo, il proprio orecchio, acuto ed esercitato, la propria capacità di ascolto.
Ma tutta questa conoscenza, questo sapere, è vano se non è tradotto in scrittura. Il copista, non a caso, è figura centrale nei romanzi dell’Ottocento. Flaubert ci presenta la situazione estrema. Bouvard e Pécuchet, scrivani, copisti, alle prese con l’opera impossibile: riscrivere, in insieme organizzato, l’intero scibile umano.
Eppure, fino a pochi anni fa l’organizzazione –l’organizzazione di un discorso come l’organizzazione di un testo e come l’organizzazione di un’impresa– dipendeva ancora totalmente dalla scrittura; diventava efficace solo attraverso la scrittura.
Senza il lavoro dello scrivano non c’è informazione gestibile, non c’è ‘base dati’. E’ questa base dati che permette ogni successivo lavoro: la correzione, il controllo, le ulteriori copie, l’aggiunta di glosse e l’approntamento di sintesi.
Pensiamo all’ultima incarnazione del copista: la segretaria dattilografa. Oppure pensiamo a quella che forse resta la sua più alta incarnazione moderna: la governante di Marcel Proust, Celéste Albaret. Proust, gelosissimo della propria opera, fin al limite delle proprie forze aveva scritto di proprio pugno. Finisce però per arrendersi a dettare a Celéste, che comunque, oltre a lui, quasi co-autrice, è l’unica persona in grado di muoversi negli strati informativi che intercorrono tra la materia prima, l’appunto colto al volo e fissato in fretta -frase rubata di bocca in un salotto, schizzo di un carattere- e l’ultima stesura destinata alla stampa. Sono tutti quaderni scritti a mano, conservati in quella camera foderata di sughero dove l’autore, per diminuire distorsioni, per restare solo con la propria memoria, si è volontariamente rinchiuso. Quaderni di serie diverse, ognuna appunto corrispondente ad uno strato informativo: quaderni di meri appunti privi di qualsiasi struttura, quaderni contenenti informazioni collocate all’interno di una ancora approssima struttura, quaderni contenenti una prima stesura, quaderni contenenti la versione finale.
Nella scrittura su carta, l’accesso ai diversi strati informativi è negato. Come ritrovare all’interno del testo, quella frase? Come ripercorrere la vicenda di un personaggio? Come intervenire sul testo già scritto?
Proust combatte con la struttura informativa a mani nude. Non gli resta che ricorrere alla memoria, forse al caso o alla coincidenza che lo porta a riaprire alla tal pagina un vecchio quaderno. E non gli resta infine, per correggere e migliorare la struttura del testo in corso d’opera, non gli resta che lo strumento estremo delle paperolles. Così lui chiamava le strisce di carta incollate al margine del quaderno da Céleste, negli estremi giorni, quando l’autore sentiva il bisogno di intervenire sulla struttura del testo già scritto. Solo aggiungendo queste strisce di carta, alcune delle quali lunghe più di due metri, era possibile aggiungere altre parole all’interno della sequenza di parole già scritte.
Mettiamoci ora, invece, nei panni di uno scrittore, se non di oggi, del prossimo secolo. Insomma, come lavorerà un Proust del prossimo secolo?
Il life caching –la massa di tracce digitali lasciata dalle nostre vite: telefonate digitalizzate, Sms, e-mail, testi contenuti nelle cartelle del desktop, testi pubblicati su blog, stream video, foto, registrazioni vocali, agende e calendari– ci garantisce quella base di informazioni che prima dovevamo chiedere al copista. O che a Proust richiedeva una lunga e lenta prima stesura.
Ecco il punto. Mentre il Proust del ventesimo secolo doveva affannarsi a scrivere, il Proust del futuro potrà tranquillamente dedicarsi a cancellare.
Lavorando su masse di informazioni grezze, non importa se e come strutturate, costruiremo testi sottoponendo l’informazione a un processo di estrazione selettiva. In funzione di un obiettivo comunicativo o estetico, in un dato istante elimineremo da questa gran massa tutto quello che non serve a dire quello che vogliamo dire. (Il senso dell’italiano cancellare è proprio questo, coprire, rendere invisibile).
Questo, credo, intendeva Derrida parlando di ‘scrittura’. Senza saperlo ci parlava di 'conoscenza' digitalizzata, base necessaria e allo stesso tempo massa informe, sempre passibile di diversa organizzazione. La ‘decostruzione’ di Derrida non ci appare più oscura se la intendiamo come la perenne ristrutturazione di cui è passibile l’informazione digitalizzata.
Di qui una provvisoria, ma credo non irrilevante conclusione. Se ci abituiamo a considerare nostra ‘penna’ gli strumenti di Information Retrieval e di Data Mining, la gran massa di informazioni che ci troviamo a gestire non ci apparirà un ingombrante peso, ma al contrario l’indispensabile base materiale della scrittura avvenire. La fonte della nostra personale libertà espressiva.
Scrivere con la voce
Nella notte tra giovedì 27 e venerdì 28 marzo 2008, verso le tre, mi sono svegliato improvvisamente. Non riuscivo a prendere di nuovo sonno, non avevo voglia di leggere. Sulla mensola accanto al letto libri, qualche pezzo di carta, la boccettina di gocce che prendo talvolta per dormire. Mi cade l’occhio sul piccolo registratore digitale, Olympus (Digital Voice Recorder WS-321 M).
In quei giorni avevo intenzione di verificare come lavora sui file vocali WMA –uno standard Microsoft– prodotti dal registratore il software di ricognizione vocale Dragon NaturallySpeaking 9.5. Perché stavo ragionando sugli argomenti attorno ai quali si muove un testo che avevo finito da poco di scrivere, Permanentemente registrare, in vista di giorni migliori. Cosa accade se, in virtù di tecnologie oggi di facile accesso, -mi chiedo in questo testo- sfuma il confine tra oralità e scrittura, tra parole pronunciate e parole scritte, tra mente e supporto, tra ragionamenti emergenti nella conversazione e lenta costruzione del testo attraverso sorvegliato processo di scrittura?
Un conto è testo scritto, un conto è una conversazione, volatile parola orale, come la lezione universitaria di Antonio Banfi delle quali parlo in quel testo. Lezione destinata a lasciare deficiente traccia, destinata a conservare deficiente traccia solo in virtù degli appunti di uno studente. Registrare la voce; mantenere memoria, parola per parola, dell’articolarsi del discorso, è un’altra cosa. Pensavo così di registrare una mia lezione universitaria – dopo aver esplicitato la cosa ai miei studenti, perché la mia coscienza di etnografo mi impedisce di occultare questo esercizio di potere, questa violazione unilaterale dell’ambiente comunicativo. Ma non mi decidevo a farlo. Un conto è accettare un mondo dove tutto sia permanente registrato, un conto è compiere un atto unilaterale – registrare per risparmiarsi il tempo della scrittura, quasi un trucco o una scappatoia. C’è, nel life caching, nel conservare ogni traccia, un aspetto maniacale e narcisistico dal quale guardarsi, un aspetto che –mi viene in mente ora– non ho toccato in quel capitolo.
E comunque sentivo il bisogno di sperimentare la differenza tra un processo di scrittura e l'altro. E comunque quella notte non riuscivo a riprendere sonno. Così accendo il registratore e mi metto a parlare. Parlo a me stesso, nel silenzio notturno, voce che narra nello spaesamento della veglia. All'inizio senza avere previsto cosa avrei detto, parlo senza avere in mente un consapevole filo logico. Parlo per un ora, quarantatre minuti e ventuno secondi, e in questo tempo detto a me stesso un testo che risulterà essere di 50.594 caratteri.
Parlo, posso supporre ricordando ora, avendo confusamente presenti i temi che per vie diverse, da punti di vista diversi, dipano in questo libro. E avendo anche in mente chiacchiere del giorno appena trascorso, nuovi appunti e spunti che si aggiungono a una mappa mentale che preferisco lasciare segreta, che preferisco leggere attraverso le parole che via via emergono e si concatenano in discorso. Per abitudine, conosciamo come questo processo si manifesta attraverso il vergare segni sulla carta. E da anni ormai siamo abituati ad una differente modalità: il costruirsi decostruirsi e ricostruirsi del testo sullo schermo. Questa –narrare oralmente e sottoporre la voce al lavoro di un software– è una modalità ancora diversa, di cui poco sappiamo. Interessante guardare alle sue caratteristiche distintive.
Il testo che appare sullo schermo, frutto del lavoro del software, ci appare interpretato da un lettore lontano, dotato direi di una sua saggezza: come letto da un oracolo. Os è antichissima parola indeouropea che sta per 'bocca', parola che ritroviamo in latino. L'oracolo è la voce del dio che disambigua il testo oscuro, il grezzo materiale che è la voce digitalizzata, trasformata in codice. L'oracolo Dragon interpreta il testo a suo modo, la sua lettura è un responso che talvolta sorprende. Soprattutto il dio si acciglia se vario il codice: il software mi rimprovera per il mio indulgere a espressioni inglesi, tecniche, non sa che le uso per antica consuetudine, non sa che considero quelle parole pienamente appartenenti al mio lessico privato, e mi punisce: parlo di come il gatekeeper si interponga tra autore e lettore e Dragon l'oracolo severamente e misteriosamente legge: venti chili di perle. (" invece la conoscenza così come viene codificata nel libro così come è controllata da 20 chili di perle ...").
Ma allo stesso tempo Dragon è un lettore fedelissimo, che ignora le autocensure dell'autore
le sue incertezze, le sue debolezze. Ci sono parole che si dicono, ma che mai si scriverebbero. Ed ecco invece che me le ritrovo lì, conservate ed esposte alla lettura mio malgrado.
Di solito, del processo di scrittura è visibile al lettore, solo una versione, di solito l'ultima, la stesura ripulita, mondata degli inciampi, semplificata, ripulita delle ipotassi eccessive, degli incisi inutili, delle deviazioni troppo insistite che allontanano dal flusso principale. Sulla bozza che Dragon mi propone, avrei naturalmente potuto intervenire, trasformando il testo in un testo simile al testo che avrei potuto scrivere, come sono abituato a fare, limandolo e ripulendolo via via, approssimandomi ad una stesura 'finale'. Avrei potuto scandire il testo in paragrafi, avrei potuto attribuire ad ognuno con un suo titolo. Ma mi sono limitato a indicare con una riga vuota il luogo dove, in un testo più sorvegliato o rifinito, rileggendo, avrei aperto e chiuso i paragrafi.
Forzandomi, ho ridotto al minimo gli interventi, agendo là dove mi sembrava indispensabile per restituire senso al testo. Testo che spero appaia quindi al lettore mostrato nel suo farsi, lasciando evidenti le incertezze, le ridondanze e le lacune. Leggendo, mi sono meravigliato, mi sono affacciato sul mio stesso testo: ho detto veramente io queste cose, ho pronunciato queste parole, ho compiuto questi passaggi? Ho detto così tante cose in così poco tempo. Alcune svolte, alcune connessioni, non le ritrovo mie: scrivendo a penna, o come in questo istante con le dita sulla tastiera, di fronte allo schermo, non avrei saputo fare questi voli, non avrei saputo prendermi queste libertà. L'oracolo sono io, l'autore non sa quello che dice. Si potrà sempre poi tentare di rendere fruibile il testo -accettandone la versione orale e al contempo la versione scritta-, come faccio qui.
Dieci, venti, cento chili di perle. Chi l'ha detto che il software non può scrivere poesie?
In quei giorni avevo intenzione di verificare come lavora sui file vocali WMA –uno standard Microsoft– prodotti dal registratore il software di ricognizione vocale Dragon NaturallySpeaking 9.5. Perché stavo ragionando sugli argomenti attorno ai quali si muove un testo che avevo finito da poco di scrivere, Permanentemente registrare, in vista di giorni migliori. Cosa accade se, in virtù di tecnologie oggi di facile accesso, -mi chiedo in questo testo- sfuma il confine tra oralità e scrittura, tra parole pronunciate e parole scritte, tra mente e supporto, tra ragionamenti emergenti nella conversazione e lenta costruzione del testo attraverso sorvegliato processo di scrittura?
Un conto è testo scritto, un conto è una conversazione, volatile parola orale, come la lezione universitaria di Antonio Banfi delle quali parlo in quel testo. Lezione destinata a lasciare deficiente traccia, destinata a conservare deficiente traccia solo in virtù degli appunti di uno studente. Registrare la voce; mantenere memoria, parola per parola, dell’articolarsi del discorso, è un’altra cosa. Pensavo così di registrare una mia lezione universitaria – dopo aver esplicitato la cosa ai miei studenti, perché la mia coscienza di etnografo mi impedisce di occultare questo esercizio di potere, questa violazione unilaterale dell’ambiente comunicativo. Ma non mi decidevo a farlo. Un conto è accettare un mondo dove tutto sia permanente registrato, un conto è compiere un atto unilaterale – registrare per risparmiarsi il tempo della scrittura, quasi un trucco o una scappatoia. C’è, nel life caching, nel conservare ogni traccia, un aspetto maniacale e narcisistico dal quale guardarsi, un aspetto che –mi viene in mente ora– non ho toccato in quel capitolo.
E comunque sentivo il bisogno di sperimentare la differenza tra un processo di scrittura e l'altro. E comunque quella notte non riuscivo a riprendere sonno. Così accendo il registratore e mi metto a parlare. Parlo a me stesso, nel silenzio notturno, voce che narra nello spaesamento della veglia. All'inizio senza avere previsto cosa avrei detto, parlo senza avere in mente un consapevole filo logico. Parlo per un ora, quarantatre minuti e ventuno secondi, e in questo tempo detto a me stesso un testo che risulterà essere di 50.594 caratteri.
Parlo, posso supporre ricordando ora, avendo confusamente presenti i temi che per vie diverse, da punti di vista diversi, dipano in questo libro. E avendo anche in mente chiacchiere del giorno appena trascorso, nuovi appunti e spunti che si aggiungono a una mappa mentale che preferisco lasciare segreta, che preferisco leggere attraverso le parole che via via emergono e si concatenano in discorso. Per abitudine, conosciamo come questo processo si manifesta attraverso il vergare segni sulla carta. E da anni ormai siamo abituati ad una differente modalità: il costruirsi decostruirsi e ricostruirsi del testo sullo schermo. Questa –narrare oralmente e sottoporre la voce al lavoro di un software– è una modalità ancora diversa, di cui poco sappiamo. Interessante guardare alle sue caratteristiche distintive.
Il testo che appare sullo schermo, frutto del lavoro del software, ci appare interpretato da un lettore lontano, dotato direi di una sua saggezza: come letto da un oracolo. Os è antichissima parola indeouropea che sta per 'bocca', parola che ritroviamo in latino. L'oracolo è la voce del dio che disambigua il testo oscuro, il grezzo materiale che è la voce digitalizzata, trasformata in codice. L'oracolo Dragon interpreta il testo a suo modo, la sua lettura è un responso che talvolta sorprende. Soprattutto il dio si acciglia se vario il codice: il software mi rimprovera per il mio indulgere a espressioni inglesi, tecniche, non sa che le uso per antica consuetudine, non sa che considero quelle parole pienamente appartenenti al mio lessico privato, e mi punisce: parlo di come il gatekeeper si interponga tra autore e lettore e Dragon l'oracolo severamente e misteriosamente legge: venti chili di perle. (" invece la conoscenza così come viene codificata nel libro così come è controllata da 20 chili di perle ...").
Ma allo stesso tempo Dragon è un lettore fedelissimo, che ignora le autocensure dell'autore
le sue incertezze, le sue debolezze. Ci sono parole che si dicono, ma che mai si scriverebbero. Ed ecco invece che me le ritrovo lì, conservate ed esposte alla lettura mio malgrado.
Di solito, del processo di scrittura è visibile al lettore, solo una versione, di solito l'ultima, la stesura ripulita, mondata degli inciampi, semplificata, ripulita delle ipotassi eccessive, degli incisi inutili, delle deviazioni troppo insistite che allontanano dal flusso principale. Sulla bozza che Dragon mi propone, avrei naturalmente potuto intervenire, trasformando il testo in un testo simile al testo che avrei potuto scrivere, come sono abituato a fare, limandolo e ripulendolo via via, approssimandomi ad una stesura 'finale'. Avrei potuto scandire il testo in paragrafi, avrei potuto attribuire ad ognuno con un suo titolo. Ma mi sono limitato a indicare con una riga vuota il luogo dove, in un testo più sorvegliato o rifinito, rileggendo, avrei aperto e chiuso i paragrafi.
Forzandomi, ho ridotto al minimo gli interventi, agendo là dove mi sembrava indispensabile per restituire senso al testo. Testo che spero appaia quindi al lettore mostrato nel suo farsi, lasciando evidenti le incertezze, le ridondanze e le lacune. Leggendo, mi sono meravigliato, mi sono affacciato sul mio stesso testo: ho detto veramente io queste cose, ho pronunciato queste parole, ho compiuto questi passaggi? Ho detto così tante cose in così poco tempo. Alcune svolte, alcune connessioni, non le ritrovo mie: scrivendo a penna, o come in questo istante con le dita sulla tastiera, di fronte allo schermo, non avrei saputo fare questi voli, non avrei saputo prendermi queste libertà. L'oracolo sono io, l'autore non sa quello che dice. Si potrà sempre poi tentare di rendere fruibile il testo -accettandone la versione orale e al contempo la versione scritta-, come faccio qui.
Dieci, venti, cento chili di perle. Chi l'ha detto che il software non può scrivere poesie?
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