Cerco di parlare di come i motori di
ricerca stanno via via perdendo la loro funzione.
Intendo per funzione del motore di
ricerca l’accompagnare la mente umana nel pensare, e dunque nel
produrre conoscenza.
Intendo per pensiero ‘conoscenza
adeguata alla situazione, all’istante -ciò che ho intorno mentre
ora mi accingo a cercare tramite il motore di ricerca qualcosa che mi
è venuto in mente; all’attimo -se pongo in sequenza, in
cronologia, le ricerche tentate tramite il motore, ognuna è compiuta
in un attimo (‘atomo di tempo’) diverso; al momento: il mio
cercare in un momento (‘momento’ è contrazione di ‘movimento’)
irripetibile, ogni singola ricerca appartiene a un flusso, a un
processo di pensiero che si evolve.
Il motore di ricerca come protesi
della mente pensante
Possiamo dunque intendere il motore
come una protesi, un prolungamento della nostra mente. Così come lo
è la penna con la quale verghiamo segni su un supporto. Così come
le mie dita avvinte alla penna mi portano a sciogliere il garbuglio
che ho in mente tramite il processo di scrittura, le mie dita
appoggiate sulla tastiera, i miei arti, il mio corpo, contribuiscono
al pensiero favorendo l’‘accoppiamento strutturale’ con una
macchina che chiamiamo computer. Di questa macchina ora non interessa
il funzionamento specifico, interessa il fatto che tramite il motore
di ricerca mi permette di allargare l’area della mia coscienza.
La tecnologia della scrittura su carta
aiuta a sbrogliare il groviglio che ho in mente – ma la mia mente
durante quel lavoro ‘resta sola’. La lettura mi aiuta a
sbrogliare il groviglio che ho in mente in altro modo: fornisce nuovi
stimoli, propone nuove connessioni – ma posso leggere solo un libro
alla volta; e devo fidarmi di come ha sbrogliato il groviglio che ha
in mente quel singolo autore; e devo fidarmi di come la mia mente
semidesta mi ha guidato nel prendere in mano in quell’istante quel
libro, mi ha guidato fino ad aprirlo a quello pagina.
Rispetto ai limitati aiuti offerti
dalla scrittura e dalla lettura, gli unici aiuti che per lunghissimo
tempo l’uomo ha avuto a disposizione, l’aiuto del motore di
ricerca è enormemente più alto, vasto, profondo.
Il motore di ricerca mi permette di
affacciarmi su un infinito spazio di ‘cose che non ho saputo
pensare da solo’, di ‘cose che non ho ancora pensato’. O forse
meglio: non solo mi permette di affacciarmi, ma mi porta
ad affacciarmi. La spinta virtuosa sta nello sbattermi in faccia
anche quello che non vorrei vedere.
Portare fortuna
Vediamo ora perché il verbo più
adeguato per parlare della funzione del motore di ricerca è portare,
o meglio, è il latino ferre.
La fortuna, di cui il motore di
ricerca è dispensatore, è il farci vedere ciò che è visibile alla
luce del ‘caso’, della ‘sorte’, del ‘destino’,
prescindendo dalla nostra stessa volontà, dalla pressione limitante
di schemi mentali già dati, ideologie, censure ed autocensure,
paure. Potremmo dire: prescindendo dal Super Io. E portando invece
alla luce l’Es.
Possiamo ricordare che fortuna,
fortuito, forse discendono dal latino fortus,
‘sorte’. Fors è il nome d’azione del verbo ferre,
‘portare’. Da fors, fortus, ‘l’atto di portare
il destino’. Da fortus, fortuitus, ‘che avviene per
caso’. L’italiano forse discende dalla locuzione latina fors
it, ‘destino sia’. La fortuna, o destino, è l’azione di
portare la sorte che spetta a ciascuno. Qualcosa che ci coinvolge, ma
che è inatteso.
L’accoppiamento strutturale tra
essere umano che pensa e motore di ricerca genera novità inattesa,
nuova conoscenza.
A ben guardare, il limite di Google, o
l’autolimitazione implicita nel motore di ricerca, o
l’inconsapevolezza del senso profondo del motore di ricerca, sono
già testimoniati dalla tradizionale opzione offerta da Google. Sotto
la finestra nella quale siamo invitato a formulare tramite parole la
nostra ricerca, vediamo due tasti: “Google Search”, tradotto in
italiano con “Cerca con Google” e “I’m Feeling Lucky”,
tradotto in italiano con “Mi sento fortunato”.
Se scegliamo la seconda opzione, Google
ci offre un solo risultato. Perché mai dovrei sentirmi fortunato se
Google mi offre un solo risultato, quando può offrire alla mia mente
pensante più risultati, tutti diversamente utili, tra cui scegliere?
Posso sentirmi soddisfatto dall’unico risultato solo se mi contento
di avere restituite da Google informazioni relative a qualcosa che
avevo già in mente. La soddisfazione sta nella conferma.
Ma se Google mi restituisce ciò che
sapevo già, se Google trova ciò di cui conoscevo già l’esistenza,
tanto da farmi considerare ‘giusta’ la risposta, allora Google mi
è stata utile solo come variante dello schedario di un biblioteca, o
come data base retto da un modello dei dati previamente definito.
Google, così, non mi ha offerto niente
di nuovo. Con il solo risultato, sopratutto se quel risultato mi
appare ‘gisuto’, sono stato ricacciato indietro, nel mio passato,
nel tempo in cui avevo già pensato a quella cosa. Non sono stato in
realtà fortunato: la fortuna, appunto, comporta l’ignoto, il caso,
il non consapevole, riguarda ciò che non so, o non so di sapere.
Google ci è utile non perché, e
quando, ci offre conferme; ci è utile perché, e quando, porta a noi
l’ignoto e l’inatteso. Quando ci connette con il perturbante,
quando porta a noi, anche contro la nostra volontà, con ciò che ci
dà disagio, e che vorremmo non vedere.
Personalizzazione dei risultati
Ora, questo vizio già implicito nello
spingermi a considerarmi fortunato i fronte ad un unico risultato
giusto, si ripresenta in forma generalizzata, con conseguenze più
gravi, da quando Google ha via via ‘personalizzato’ i risultati
delle mie ricerche.
Siamo lungi dal sapere tutto di come
funzioni l’algoritmo di Google, ma di questo cambiamento ci siamo
accorti tutti.
Google del resto l’ha dichiarato
ufficialmente nel mese di dicembre 2009: chiunque effettua una
ricerca si ritrova serp -search engine results page- inficiati
dalle ricerche precedenti e dai click sui siti visitati.
Google, come del resto gli altri motori
di ricerca sopravvissuti alla sua monopolistica presenza, modifica
costantemente i propri algoritmi di ricerca nel tentativo di produrre
risultati di alta qualità, più rilevanti.
Possiamo chiederci però dove stia la
‘più alta qualità’. Possiamo chiederci quali sono i risultati
‘più rilevanti’.
Possiamo sopratutto chiederci come fa
Google a sapere quali risultati per me sono più rilevanti. Google
non ha che una possibilità: tenere conto delle mie ricerche
precedenti; dei miei “previous search habits”. Ma così, appunto,
mi ricaccia nel passato. Chiude la mia ricerca in un feedback.
Mentre invece il World Wide Web ci è utile se ci impone feed
forward, . Ci è utile un motore che elabori le informazioni in
ingresso -ciò che scriviamo nella finestra del motore di ricerca-
purché l’elaborazione degli ingressi (input) non pretenda di
prefigurare il valore dell'uscita (output).
I feed che tramite Xml possiamo
attivare -ogni link, ogni connessione, ogni RSS- sono feedforward,
non feedback. Navigando nella Rete, di nodo in nodo allarghiamo le
nostre conoscenze proprio perché ci allontaniamo dai limiti
impliciti del punto di partenza, punto dal quale ci muoviamo,
condizionati dalla nostra ignoranza. Il motore di ricerca è lo
strumento principe per allontanarci dai limiti impliciti nella nostra
ignoranza. Ma ora ce lo ritroviamo depotenziato, perché ripercorre
nostre vecchie tracce. Tracce di quando ci ponevamo altre domande,
tracce di quando ci muovevamo in un altro contesto, tracce di quando
eravamo ancora più ignoranti di quanto lo siamo ora. Ora sto
pensando. Ma Google, di cui mi ero abituato a fidarmi, perché avevo
appreso come mi aiuta a pensare, ora mi inganna, allontanandomi dal
presente, riportandomi a ripensare il già pensato. Nell’evoluzione
del mio pensiero l’eventuale tornare sulle cose già pensate è una
possibilità. Ma qui diviene un vincolo, un obbligo imposto mio
malgrado, oltretutto imposto in modo non trasparente.
Discovery Engine
Di fronte al successo, ed ai limiti di
Google, altri attori cercano strade diverse. Appaiono quindi motori
che pretendono di superare i limiti di Google e di ogni altro search
engine, e che affermano la propria differenza chiamandosi
discovery engine.
Basti un esempio: trap.it. Qualcuno si
esalta: “Il web si sta spostando dalla ricerca alla scoperta!”.
Purtroppo, si tratta entusiasmi del tutto ingiustificati. Dalla
padella nella brace, direi.
Lo scopo di questi nuovi motori è
duplice: velocizzare le ricerche, e scongiurare i pericoli derivanti
dalla ridondanza e dall’overflow.
Cioè, ancora una volta, lo scopo è
limitare la capacità del motore nell’aiutarci a produrre nuovo
pensiero.
Ciò che chiede la persona che pensa al
motore è essere sorpresi da risposte inattese, eppure in qualche
modo legate a qualcosa che era implicito nella nostra domanda. Se
l’aspettativa è questa cosa mai importa una risposta più veloce
di qualche nanosecondo, o magari anche di qualche secondo.
Importa semmai che i crawler abbiano
visitato anche i server più remoti; importa cioè che si sia
accumulata la maggior massa possibile di materiali tra i quali
cercare. La ridondanza è una benedizione; lì sta la ricchezza. Non
sappiamo quale dato ci servirà, quando ci servirà. Ciò che
chiamiamo ‘dati’ non è altro che la materia prima, grezza, non
importa di che grana, con la quale ognuno di noi, pensando
liberamente, costruisce conoscenza.
E parlare di overflow, è ancora una
volta parlare della nostra paura di fronte al flusso, all’abbondanza,
alla sconfinata ricchezza di conoscenza che in in qualche luogo c’è,
e che il nostro pensiero potrebbe attingere – appunto, con l’aiuto
di motori di ricerca, o di scoperta.
Dalla padella nella brace, passo
indietro, perché il preteso passo avanti dei Discovery Engine
rispetto a Google si fonda su strumenti di intelligenza artificiale.
Ora, Google, comunque la si guardi, ha
un pregio: il suo algoritmo costruisce ordinamenti a partire dai
comportamenti degli esseri umani. Legare me ai miei comportamenti
passati è un difetto. Ma dare importanza ai siti e alle pagine e ai
post e agli oggetti che altri essere umani hanno considerato
importanti è un gran pregio. L’ordinamento di Google è frutto
dell’azione umana. A questa nei Discovery Engine si sostituisce
un’intelligenza artificiale, una pretesa intelligenza della
macchina pensante. Un passo indietro.