martedì 22 dicembre 2020

Quale filosofia per i tempi digitali

Sommario

Di fronte alla 'novità digitale', dove sembra che l'umana capacità di pensare possa essere trasferita ad una macchina, la filosofia è sempre più necessaria. Ugualmente è necessaria filosofia di fronte alla conoscenza scientifica, settoriale e specialistica, fondata su linguaggi escludenti.

Purtroppo ciò che vediamo accadere è invece la genuflessione della filosofia di fronte alla 'novità digitale', alla scienza ed alla tecnica.

Ma più che di morte della filosofia si deve parlare di resa dei filosofi. 

Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome. Possiamo anche affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione. Possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell'essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi e la propria saggezza.



Il filosofo non è il sapiente, è l'amatore di sapienza. Non chi ha acquisito la sapienza, ma chi tende ad essa. Chi desidera attingere a conoscenza. Il filosofare è il pensiero che va oltre limiti e costrizioni, cercando il sapere al di là di ogni conoscenza settoriale. Per questo si arriva a proclamare la morte della filosofia: di fronte al proliferare di discipline, una conoscenza multidisciplinare appare oggi inattingibile.
Abbiamo assistito negli ultimi secoli al trionfo del pensiero scientifico e tecnico. Scienziati e tecnici non sono filosofi, perché rinunciano a priori ad accettare la complessità, la rete che tutto connette, l'interlacciamento, il garbuglio che lega tra di loro i saperi specialistici. Non solo scienziati e tecnici di discipline diverse non sono in grado di parlare tra di loro, ma anche all'interno della stessa disciplina la ricerca procede per crescente specializzazione. Esemplare il caso dell'informatica: chi conosce un codice non conosce l'altro, chi lavora su una tecnologia ignora del tutto l'altra. 
Si potrebbe da questa situazione dedurre che la figura del filosofo acquista oggi, nell'Era Digitale, una nuova centralità. Si potrebbe sostenere che più che mai servono oggi filosofi: esseri umani liberi pensatori tesi oltre ogni conoscenza settoriale, specialistica. Disposti a cercare il 'dischiudimento': la conoscenza narrata andando oltre i linguaggi escludenti degli addetti ai lavori. Disposti al rischiaramento: l'illuminazione che rende chiaro l'oscuro. Disposti a svelare il senso nascosto, quel senso che ogni scienza nomina e descrive a suo modo. Si potrebbe pensare al filosofo come al miglior compagno per il cittadino che cerca una via per addentrarsi nella novità digitale. 
  
Filosofie digitali 
Ciò che vediamo accadere, è qualcosa di diverso. Più che di morte della filosofia, possiamo forse parlare di resa dei filosofi. 
E' in fondo una resa quella dei finissimi pensatori che restano legati al passato, e lo proiettano sul presente che resta incompreso, non studiato né veramente accettato. L'antico esercizio si ripete uguale, si rileggono i classici e alla loro luce tutto si spiega. Bellamente si evita così di prendere in esame il mondo che si ha sotto gli occhi, di esercitarsi a comprendere ciò che in tempi recenti è accaduto ed emerso. Scienza e tecnica, ai loro occhi, nulla di differente mostrano, tutto è giù stato visto e detto. Tantomeno rilevante appare al loro sguardo la novità digitale. Non c'è non c'è discontinuità, catastrofe che non venga ricondotta a ciò che la storia in tempi andati ha già mostrato. Si evita così di osservare la novità che interroga. 
Basta citare un aspetto della novità: mai prima degli ultimi cent'anni, mai prima dell'apparire sulla scena della macchina digitale si era immaginato che potesse essere progettata da un umano una macchina in grado di prendere il posto dell'umano. Sostituendolo, come propone Turing, anche nel suo agire più alto e più nobile: il pensare. La novità è evidente – eppure si sceglie di non vederla. 
Altri filosofi di gran traiettoria hanno invece accettato la discontinuità: scienza e tecnica hanno ormai trionfato. Hanno accettato il fato avverso: la filosofia è ormai obsoleta. Con un misto di invidia nei confronti degli scienziati e di rimpianto per il tempo che fu, questi filosofi continuano a esercitare il loro pensiero finissimo, ma rivolti al passato, ripassando la storia, distinguendo filoni. Umiliati dagli abbaglianti successi della scienza e della tecnica, dubbiosi si interrogano, e cercano di ritagliarsi spazi sul terreno ormai così solidamente occupato. Se andrà bene, d'ora in poi la filosofia sopravviverà come epistemologia, studio dei metodi e dei fondamenti della scienza. Eppure qualcuno di questi filosofi coraggiosamente cerca di trovare ancora motivi per non rinunciare all'antica vocazione al pensiero senza confini: si inchina ai suoi successi della scienza e della tecnica, ma osserva come ogni disciplina sia chiusa nella propria stretta cultura, chiusa proprio lessico. Conclude quindi che forse resta aperto un possibile ruolo: il 'traduttore', dedito a promuove il dialogo tra famiglie professionali di scienziati e tecnici. 
Altri filosofi ancora, anche in età matura o avanzata, si avventurano invece con giovanile baldanza nelle nuove terre scientifiche e tecniche. E soprattutto, con speciale entusiasmo, si dichiarano abitatori della terra promessa digitale. Proclamano allora la loro dedizione a far proprio il nuovo verbo. Osservano giovani generazioni per imitarne i comportamenti; leggono e citano con reverente attenzione testi che cantano la bellezza e le virtù di algoritmi e di intelligenze artificiali. Finiscono così per essere ingenui ed acritici apologeti di una nuova indiscussa verità. 
C'è poi il nutrito gruppo di filosofi che da subito hanno incassato la sconfitta, e che su questa sconfitta, con abile giravolta, hanno costruito la propria carriera. Privi di qualsiasi nostalgia o rimpianto per un ruolo perduto, semplicemente badano a crearsene uno nuovo. Essi hanno rinunciato sotto ogni aspetto al pensiero senza limiti e costrizioni. Si sono fatti al contrario sacerdoti di un singolo, settoriale, escludente campo di ricerca. Hanno rinunciato ad essere 'filosofi', per essere invece 'filosofi di ...'. Non una, ma enne filosofie. Ognuna commenta e celebra la storia di una disciplina, la sua pretesa autonomia, ognuna si fa custode di un lessico specifico, di un metodo di ricerca. Filosofie di servizio, al servizio, abbelliscono così il panorama di ogni disciplina. 
Di queste filosofie fattesi ancelle di singoli rami della scienza e della tecnica, sono caso esemplare le varie filosofie, ognuna delle quali accompagna una sfaccettatura della ricerca e dello sviluppo nel campo della computer science. Filosofie con l'aggettivo, dove 'digitale' è solo uno dei diversi aggettivi usati. 
Il filosofo qui ha un ruolo di complemento; ruolo che può essere esercitato con un grado di libertà non concesso agli addetti ai lavori: tecnici, imprenditori e finanziatori. Il tecnico è impegnato a costruire strumenti e sistemi che funzionino davvero. L'imprenditore e il finanziatore cercano il ritorno dell'investimento. Il filosofo si limita a cantare le gesta. Storia e tradizione ci ricordano il filosofo che attraversava terre incognite alla ricerca di conoscenza, il filosofo che sondava l'oscuro alla ricerca della luce. Ma ora il pensiero che conta e quello degli scienziati e dei tecnici; il filosofo si limita ad accompagnarli. Ma in questo accompagnamento, il ruolo della filosofia appare rovesciato. Il vecchio filosofo cercava il rischiaramento. Il nuovo filosofo cerca l'oscurità. Neologismi e gerghi, abbondantemente usati, hanno un preciso scopo: confondere il cittadino, intimidirlo, mostrando la forza e la superiorità della tecnica digitale. E quindi, anche, la necessità del nuovo filosofo-accompagnatore. 
  
Spiacevoli costanti 
Le filosofie digitali appaiono accomunate da due spiacevoli costanti. Questa costante è la terzietà. 
La prima costante consiste nell'ambito di indagine e nell'ampiezza dello sguardo. Questi nuovi filosofi guardano esclusivamente al terreno digitale. Ciò che esiste al di fuori, al di là, del terreno digitale -la vita, la natura- è ignorato o rimosso. La storia del pensiero degna di essere presa in considerazione inizia con Alan Turing. Di quel vasto e sfumato esercizio umano che possiamo definire con la parola 'pensiero' sembra degno di restar vivo solo ciò che computabile, cioè calcolabile tramite una macchina. 
La seconda costante della filosofia dell'era digitale è la terzietà. Sul terreno digitale, si afferma, esistono due 'agenti ': l'essere umano e la macchina. Di fronte alla duplice presenza, il filosofo sceglie di seguire la via del fair play indicata da Alan Turing: offrire ad entrambi gli agenti le stesse chances, le stesse probabilità di successo. 
Il nuovo filosofo si pone nella posizione di estraneo, imparziale osservatore privo di interessi in comune con entrambe le parti in causa. Ci sono certo accenti diversi. C'è il filosofo digitale che mostra compassionevole interesse per gli esseri umani, e c'è il filosofo digitale che scommette sull'avvento di nuovi esseri digitali, di macchine morali che saranno migliori degli esseri umani. Ci sono filosofi che di fronte ad ogni innovazione tornano a dichiararsi sostenitori di una tecnologia Human-centered. E ci sono filosofi che invece si lanciano decisamente sullo scenario post-umano. 
Ma in ogni caso il nuovo filosofo considera doveroso produrre il massimo sforzo soggettivamente possibile per allontanare da sé ogni umana inclinazione; considera doveroso allontanarsi dal proprio essere umano.

Turing, Heidegger, Wittgenstein 
Insomma, nel Ventesimo Secolo si afferma una filosofia che guarda con lo stesso distacco ad esseri umani e macchine. Celebra infatti Turing, che era mosso dalla speranza di poter costruire una macchine migliore di lui stesso. 
Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein rispondono a Turing. Come ho mostrato in Macchine per pensare. L'informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi, entrambi avevano ben presente in cosa consistesse quella novità che oggi comunemente riassumiamo tramite il termine digitale. Heidegger ci parla del senso dell'esperienza umana: si impara ad usare il martello nel martellare. Ma qualcosa cambia quando l'essere umano è privato della possibilità di fare esperienza, perché gli sono proposte o imposte esperienze già confezionate, progettate da tecnici nel chiuso dei loro laboratori. Come mostro nelle Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale, questo è ciò che accade nell'odierna situazione digitale. 
E' sempre Heidegger a ricordarci che l'agire umano pienamente inteso consiste nell'accettare di trovarsi sbattuti a vivere in una terra sconosciuta, nell'essere nella condizione di chi si trova ad avventurarsi in luoghi dei quali nulla sappiamo veramente. 
Ora, proprio questo appare essere l'atteggiamento più conveniente per noi esseri umani di fronte alla novità digitale. Ci conviene pensare che ci avventuriamo nell'ignoto. Ignoto per tutti. Nessuno dei tecnici dediti a progettare un qualche aspetto della scena digitale ha una visione d'insieme. Nessuno di loro sa veramente cosa sta facendo. Anche i cosiddetti 'nativi digitali' si avventurano su un terreno nuovo - e nel farlo non dispongono nemmeno dell'esperienza di chi ha vissuto nel tempo precedente, e ha visto emergere la novità digitale. Heidegger ci dice: vivere è sentire su di sé il peso di una ansiosa preoccupazione, ed è solo da questa inquietudine che può nascere l'agire efficace e allo stesso tempo responsabile. Questo vale per ogni essere umano, ma innanzitutto per chi oggi progetta strumenti o mondi digitali. Heidegger ci ricorda che il progettare è sempre connesso al progettare sé stessi; è connesso alla personale ricerca di consapevolezza, alla personale saggezza. 
Facile notare come i filosofi digitali scelgono invece la via opposta. Non chiamano il progettista a fare i conti con la responsabilità personale. Al tecnico è chiesto solo di sviluppare nuove tecniche. 
Il filosofo digitale si rivolge semmai al cittadino, invitandolo a non dubitare, a fidarsi, a prendere per buona ogni innovazione. 
Wittgenstein non è tanto lontano da Heidegger quando ci invita a considerare che pensare significa superare quei umilianti momenti in cui siamo costretti ad ammettere: 'non mi ci raccapezzo', 'non so che strada prendere', 'non so come venirne fuori'. In questi momenti, forte è la tentazione di rinunciare, e di lasciare alla macchina il compito di pensare al nostro posto. 
Dice ancora Wittgenstein: noi siamo, quando filosofiamo, come uomini primitivi, come dei selvaggi, che ascoltano le espressioni di uomini civilizzati, le fraintendono, ma sanno poi sanno andare oltre, e trovare un senso. 
In effetti oggi è difficile, all'apparenza impossibile, mantener vivo l'approccio trans-disciplinare, multi-disciplinare, disposto alla complessità. Difficile abbracciare l'enorme e sempre crescente massa, l'intrico di conoscenze. Difficile anche accettare l'abisso della propria ignoranza, la povertà degli strumenti di cui disponiamo. 
Noi umani nel pensare ci muoviamo a tentoni, privi di certezze, guidati da deboli congetture. Ma proprio questo è il filosofare: sondare l'oscuro. E proprio qui sta l'amore per la sapienza: io, essere umano, nonostante tutto ci provo, e in questo tentativo sta la mia etica. 

Pensiero critico 
Questo umano pensare responsabile, riflessivo, per quanto possibile saggio, non rifiuta certo il progresso e l'innovazione. Possiamo guardare anzi con appassionata, affascinata attenzione a tutto ciò che di nuovo scienza e tecnica propongono. 
Eppure possiamo ritenere inutile una 'nuova filosofia' che si fa paladina della scienza e della tecnica. Possiamo sostenere, al contrario, che serva oggi una filosofia che si ponga come costruttiva critica della scienza e della tecnica. 
Possiamo guardare alla scena già presente, già popolata di intelligenze artificiali, robot, macchine autonome. Possiamo anche affacciarci sulla scena futura, dove è ben possibile che uomini e intelligenze artificiali convivano in pari posizione. Possiamo guardare a tutto questo con lo sguardo dell'essere umano che pensa dubitando, cercando la sintesi. 
Non importa se si tratta forse di una 'posizione di minoranza'. Di minoranza, perché lontana dalla posizione di scienziati e tecnici, che avanzano nella ricerca senza porsi troppe domande. Di minoranza, perché il mainstream della filosofia si è inginocchiato alla scienza. Di minoranza, perché i filosofi digitali hanno scelto la terzietà, l'indifferenza tra l'umano e il macchinico. In un senso più ampio, di minoranza anche perché forse Intelligenze Artificiali e robot sovrasteranno l'essere umano, e una nuova capacità di ragionare surclasserà ciò che è umanamente possibile. 
Si può del resto sostenere che chi merita il titolo di filosofo si trova sempre in una posizione di minoranza. 
In ogni caso resta a noi essere umani la possibilità di fidarci di noi stessi. Quindi posso dire: anche quando, in un futuro forse non così lontano, esisteranno macchine più 'intelligenti' di noi umani, più capaci, più efficienti, magari anche più 'morali', continuerò, in quanto essere umano, a pensare. A filosofare. 

 

lunedì 7 dicembre 2020

La macchina che ci accompagna nella vita ci blandisce, ci lusinga, ci dice...

La macchina che ci accompagna nella vita ci blandisce, ci lusinga, ci dice: 'fai questo, è nel tuo interesse'. La nostra convinzione, la fiducia in noi stessi, ci permetterà andare contro questo invito, e di rispondere: 'no, non voglio'. Ci permetterà di considerare il computer che possediamo -ricordiamo che è computer anche un tablet, uno smartphone- bastone, bisaccia, scarpa vecchia. Ci permetterà, almeno in qualche misura, di usare il computer in modo aberrante. Uso aberrante: uso che apparirà pericolosamente strano, irregolare, anomalo. agli occhi di chi ha progettato, disegnato l'applicazione, costruito la macchina. 
Usare la macchina in modo aberrante è tornare ad essere pienamente cittadini, violando il dettato della Terza Legge che dice: riduci te stesso a passivo utente. 
Eppure in cuor nostro sappiamo che solo in qualche misura riusciremo a piegare il computer a mezzo proprio, mezzo che espande il personale modo di sentire e di volere. Sappiamo che le macchine di cui disponiamo sono lontane dall'essere strumenti che il libero essere umano può modificare attraverso l'uso, plasmare, adattare a sé, e magari anche riparare da sé. 
L'Era Digitale è appunto la stagione in cui una immane, potenza emana dalla macchina, schiacciando l'essere umano. Perciò il dettato della Terza Legge si rovescia veramente solo se i tecnici si riconoscono essi stessi cittadini prima che tecnici. 
La storia della bastone, della bisaccia e della scarpa vecchia è rivolta, in fondo, innanzitutto ai loro. Le narrazioni sono le fonti del progetto. Non c'è nessun definitivo motivo che obbliga a immaginare macchine che siano surrogati del destino, delle Leggi di Natura, della Provvidenza, della Grazia del Fato. Il tecnico non ha motivo per far proprio lo struggente desiderio di Turing: costruire una macchina migliore di sé stesso. 

Se osserviamo la scena e agiamo in quanto esseri umani, non basta certo intendere la relazione tra essere umano e macchina come una questione di interfacce. Non basta immaginare e progettare un accoppiamento tra due organismi -l'essere umano e la macchina- ai quali è riconosciuta pari dignità, pari autonomia o autodeterminazione. 
Non basta almanaccare attorno alla presenza di due diversi tipi di intelligenza. Non basta ricordare gli aspetti per i quali l'intelligenza umana prevale sull'intelligenza macchinica. Non basta dire che è prematuro preoccuparsi ora, perché i nodi verranno al pettine in un tempo futuro più o meno lontano. A un certo punto, ognuno è libero di fare scelte radicali e di dire: faccio appello alla mia saggezza; sto dalla parte dell'essere umano; sto dalla parte della specie cui appartengo. A valle di questa scelta risulta chiaro che esiste una discriminante precisa: o la macchina è un aiuto all'essere umano, o è una sostituzione dell'essere umano. Baloccarsi nella zona grigia, cercare sottili distinguo, proporre scenari dove la macchina e l'essere umano vincono insieme, tutto questo va inteso in fondo come partito preso: scelta di stare dalla parte della macchina. 

La storia della cultura digitale ci parla chiaramente. 
Nel 1950 Alan Turing scrive, in conclusione del suo articolo Computing Machinery and Intelligence: “We may hope that machines will eventually compete with men in all purely intellectual fields”. “Possiamo sperare che le macchine alla fine competano con gli uomini in tutti i campi puramente intellettuali”. Qui, nell'articolo dal quale prende il via ogni ricerca sull'Intelligenza Artificiale, a chiare lettera si parla a favore di una sostituzione dell'essere umano con una macchina. Se poi si limita il campo al 'puramente intellettuale', è ancora uno schiaffo all'essere umano: per l'essere umano il pensare e l'agire, la ragione e la saggezza sono sempre compresenti. Separare ed esclusivamente privilegiare il puramente intellettuale è un atto di violenza perpetrato contro l'essere umano. 
Ma cinque anni prima, nel 1945, Vannevar Bush propone l'altra via. Scriveva: As we may think. Immaginava come l'essere umano avrebbe potuto sperimentare, costruire conoscenza, se dotato di una macchina in grado di fornirgli fonti, di aiutarlo a connetterle tra loro, incrementando l'umana capacità di costruire reti di senso. Una macchina -scriveva Bush- adatta a ad accompagnare l'uomo nel pensare così come chi cerca tracce di vita in un terreno inesplorato. Così si muove il pioniere nel bosco, così si muove il viandante. La macchina immaginata da Bush -la chiamava Memex- è il prototipo del Personal Computer. E' una bastone, una bisaccia, una scarpa vecchia. 
 Ci conviene considerare che non c'è via di mezzo. O la via di Turing -affidare le proprie speranze alla macchina- o la via di Bush: fidarci di noi stessi.

Questo articolo è strettamente legato al precedente: Bastone, bisaccia e scarpa vecchia. Come raccontare il computer con le parole del mito. Ma ancor più di questo è legato al mio libro Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020. Si trova infatti qui un esplicito riferimento alla Terza delle Leggi di cui parlo nel libro: nell'Era Digitale il cittadino è ridotto a passivo utente. E si trova anche, in questo articolo, un implicito ma chiaro riferimento alla Seconda Legge, che recita, 'Preferirai la macchina a te stesso'. Nel mio libro invito a comprendere le leggi per poterle trasgredire. L'invito è rivolto anche a chi legge questo articolo.

Bastone, bisaccia e scarpa vecchia. Come raccontare il computer con le parole del mito

Come raccontare del computer con le parole del mito. Come comprendere il computer alla luce delle ancestrali narrazioni che accompagnano l'essere umano. Come raccontare a noi stessi cosa è il computer, tanto da convincerci che è per noi esseri umani un mezzo.
L'essere umano è un viandante, perennemente in cammino. Il presente è un momento nel viaggio dal passato al futuro, dal noto all'ignoto. E' l'esistere gettati in terre sconosciute. L'essere umano è debole nel corpo, debole nell'anima. Peccus: 'difettoso nel piede'. Claudicante. Di qui il peccato: incapacità di stare sulla retta via. Tendente ad errare: 'camminare senza meta'. Mancus: 'difettoso nella mano' - cosciente di come sa usare malamente il proprio corpo, cosciente dei limiti degli artefatti che la sua mente e la sua mano sanno creare. L'essere umano patisce di gravi mancanze; è dolorosamente consapevole dei propri limiti, delle proprie deficienze. 
Così l'essere umano finisce per affidarsi, abbandonarsi a potenze esterne. Facile ritenersi vittima del destino o totalmente assoggettato, soggiogato a Leggi di Natura. Facile affidarsi passivamente alla Provvidenza, attendere la Grazia divina o abbandonarsi al Fato. O affidare le proprie sorti a una Scienza o una Tecnica intesa intesa come potenza che autonomamente si svela. E' la china che porta nell'Era Digitale a fidarsi della macchina, a credere nell'Intelligenza Artificiale. Fino a non guardare più il cielo, le stelle, fino a non dar credito al proprio sguardo, e a fidarsi di una mappa digitale, ingannevole, manipolata rappresentazione del mondo. Fino a rinunciare al viaggio, a chiudersi in casa, e di ridursi a chiedere lumi a qualche oggetto tecnico, magari vestito di qualche aspetto antropomorfo, che con voce melliflua ci dice cosa fare, ci rassicura in merito a ciò che stiamo facendo, ci dice magari anche chi siamo. 

Eppure non è questo l'unico modo di esistere. L'essere umano che non rinuncia alla propria saggezza -Qohelet, Giobbe- a costo di enorme sofferenza, cammina solo sotto il cielo. Dio l'ha abbandonato, nessun carro della storia trascina in avanti, nessun soccorso esterno allevia la fatica. Eppure, pur costretto ad aiutarsi da solo, cammina. 
Il bastone, impugnato passo dopo passo, è il sostegno, il supporto al quale appoggiarsi, il compenso alla propria zoppia, e alla fatica dell'andare. E' anche il mezzo con il quale eventualmente difendersi. E' anche una compagnia. E' il segno della propria imperfezione, ma anche il segno, della propria potenza. Una potenza che nasce nel corpo e nella mente, e che si espande oltre il corpo: il mondo resta, sconosciuto, troppo vasto e alieno; ma l'essere umano cammina nonostante tutto speranzoso, fiducioso -per esperienze vissute- di poter affrontare situazioni che sembrano al momento superiori alla sue forze.
Porta con sé in una bisaccia leggera alimenti, indumenti, e insieme i pochi strumenti che gli sono stati utili in passato. Porta con sé anche poche povere cose che gli rammentano al sua identità, i propri ricordi. Eppure sa che le provviste che porta con sé presto termineranno. Sa che dovrà mettere nella bisaccia nuovi alimenti, nuovi indumenti, tratti dal mondo sconosciuto nel quale si sta addentrando. Sa che gli strumenti andranno piegati ad un nuovo uso, o forse anche si riveleranno del tutto inutili, ed andranno sostituiti con altri, nuovi. Sa dunque che via via il contenuto della bisaccia cambierà; ma sa anche che lascerà sempre posto nella bisaccia per ciò che gli è tanto prezioso quanto gli alimenti, gli indumenti, gli strumenti: i propri ricordi, la memoria della propria storia – sa che senza di questo rinuncerebbe ad essere umano. 
Ha ai piedi scarpe vecchie. Comode: corrispondenti alla conformazione del proprio corpo. Adatte: con l'andare, plasma sempre più il duro cuoio, rendendo la calzatura via via migliore: consona al proprio corpo, al proprio modo di essere in movimento. La qualità dei materiali, le intenzioni del calzolaio, tutto questo passa in secondo piano. La scarpa nuova non è buona, per divenire buona deve essere invecchiata insieme a chi la indossa. 
Il computer è un bastone. Ci conviene immaginarlo come il bastone con il quale il viandante si sorregge. Ci conviene considerarlo lo strumento al quale appoggiarsi. Lo strumento al quale ricorre per difendersi, e per aumentare il raggio e la potenza della propria azione. 
Il computer è una bisaccia. La bisaccia è leggera e può essere portata sempre con sé, anche nelle situazioni più estreme. Ma sia bisaccia, o zaino o valigia o baule, ci conviene immaginare il computer come involucro che permette di portare con sé ciò che è necessario, utile e piacevole nel viaggio che è la vita. Ricordi irrinunciabili e risorse e strumenti che migliorano ed approfondiscono, che rendono più piena l'esistenza. 
Il computer è una scarpa vecchia. Ci conviene considerarlo strumento che si adatta sempre più al personale modo di esistere, di pensare e di agire. Strumento plastico, che -quali siano i disegni del progettista e i vincoli imposti dal produttore e del fornitore di servizi- si allontana dal disegno e dai vincoli in forza della personale fiducia in sé stesso dell'essere umano che lo possiede e lo adopera. 

Sono particolarmente affezionato a questa 'descrizione mitica' del computer, inteso non come macchina che campeggia al centro della scena, ma come insieme di strumenti, dispositivo, device, che accompagna l'essere umano nella propria vita. 
Una versione ridotta di questa descrizione appare alle pagine 292-293 nel mio libro Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020. E comunque la descrizione mi sembra una sintesi di ciò che intendo dire con questo libro.
Questo articolo è strettamente connesso a quello che pubblico di seguito, con il titolo La macchina che ci accompagna nella vita ci blandisce, ci lusinga, ci dice...