Mi ricapita in mano un libro di Umberto Eco dedicato alla ‘lingua perfetta’.1 Ragionando attorno all’idea di Europa, ci si può interrogare sulla differenza delle lingue, ponendo l’accento sulle difficoltà organizzative che ne conseguono. E naturalmente potremmo anche generalizzare: la globalizzazione dell’economia, così come il World Wide Web ci impongono l’esigenza di una unica lingua.
Questa esigenza deve convivere con il fatto che le lingue corrispondono in fondo alle culture, corrispondono a diversi atteggiamenti di fondo e a diverse letture del mondo, atteggiamenti e letture del mondo che non possono essere rimossi, non possono essere ridotti ad unità ‘per legge’, o per volontà politica.
Ecco quindi la necessità di ‘tradurre’: lo scambio da un mondo linguistico ad un altro porta con sé sempre una perdita di senso; potremmo dire anche che, al limite, la traduzione è una operazione impossibile: rendere veramente il significato in un’altra lingua è una operazione che può dare risultati solo parziali, si può esprimere il significato espresso in un lingua straniera solo attraverso analogie, come quando i primi spagnoli giunti in America non trovarono di meglio che chiamare ‘pigna’ uno strano, ignoto frutto del Nuovo Mondo, l’ananasso.
Si può dunque dire che una vera traduzione sarebbe possibile se non traducessimo da una lingua all’altra, ma traducessimo da ogni lingua in una lingua terza, idioma puramente veicolare, destinato mai a sostituirsi, ma semplicemente ad aggiungersi alla lingua originaria di ognuno.
Solo la lingua originaria è veramente portatrice di senso, la lingua veicolare si aggiunge e permette lo scambio tra diversi. Uno scambio efficace per garantire una prima comprensione, ma consapevolmente insufficiente, come accade quando si traduce la poesia: si lascia sempre accanto il testo nella lingua originale, perché è dato per scontato che la poesia è in fondo intraducibile, la traduzione non può rendere tutto. Ora, noi usiamo come lingua veicolare l’inglese, o meglio, appunto un basic english. Lo facciamo in mancanza di meglio. Perché l’inglese non nasce come lingua veicolare –come ogni vera lingua nasconde veri significati dietro l’apparenza– e quindi è in fondo inadatta allo scopo. Più adatto sarebbe l’esperanto, o simili lingue.
Insomma, secondo Eco (ed altri) una lingua veicolare ‘ottima’ è una lingua artificiale. Pensata già in origine come lingua aggiuntiva: come è stato detto, una LIA, Lingua Internazionale Ausiliaria. Risultano evidenti i vantaggi: pensiamo alla Babele delle lingue che è l’Unione Europea, pensiamo alla complessità organizzativa ed ai costi legati alla traduzione di ogni testo ufficiale nelle diverse lingue degli stati membri. Pensiamo al fatto che la traduzione di tutto ‘solo’ in inglese costituirebbe una semplificazione, un vantaggio pratico, ma un ingiustificato privilegio per uno degli stati membri.
Resta, naturalmente, la difficoltà insita nel progettare una simile lingua. E resta, ancora più grave, la difficoltà insita nell’imporre, politicamente e culturalmente e praticamente, l’uso di una simile lingua.
Si può poi aggiungere, a complicare il quadro, un ulteriore aspetto: se si pensa ad una lingua veicolare, intesa non come sostituzione ma come aggiunta, tesa a rendere comprensibile un contenuto a chi non conosce la lingua nella quale il contenuto è originariamente espresso, allora si deve potere ritener percorribile, almeno in linea di principio, la via della ‘traduzione automatica’, affidata al software. In questo caso l’interlingua potrà essere pensata come una lingua estremamente formalizzata, nel senso dei ‘linguaggi di programmazione’, una lingua cioè destinata ad essere compresa dal computer. Una lingua di natura algoritmica, capace di tradurre i concetti espressi in ogni lingua naturale, anche le sottigliezze, senza bisogno di fastidiose perifrasi.
Non senza fondamento dunque Ursula K. Le Guin –che è qualcosa di più di una scrittrice di fantascienza, potremmo dire una antropologa di un possibile futuro – immagina un domani in cui la lingua veicolare “lingua franca dei commercianti di tutto il mondo, dei viaggiatori e di quanti intendevano comunicare con persone di un’altra lingua madre” è proprio un evoluto linguaggio di programmazione.2
Si potrebbe pensare che questa lingua, di indiscutibile utilità, possa forse essere immaginata, ma sia difficile o impossibile da progettare. Non è così. Di fatto, già oggi la questione si pone con grande forza: notevoli investimenti sono dedicati allo sviluppo di machine translation system. Esempi in qualche misura efficaci sono disponibili a tutti noi come complemento ai motori di ricerca.
Ma c’è davvero bisogno di inventare qualcosa di nuovo? Studiosi –per primo il matematico e computer scientist boliviano Iván Guzmán de Rojas– sostengono di no. Questa lingua, forse, esiste da quattromila anni, è l’idioma di indios andini, abitanti nei pressi delle rive del lago Tititcaca, l’aymara.
C’è però un paradosso: l’ aymara (ci riferiamo qui in particolare alla sua versione formalizzata da Iván Guzmán de Rojas, l’Atamiri3), come forse ogni possibile ‘interlingua’ – può esprimere ogni concetto espresso in lingue mutuamente intraducibili – ma proprio a causa della sua ‘perfezione’ questa lingua risulta poi difficilmente traducibile nei nostri imperfetti, e diversamente sfumati linguaggi naturali.
Cosicché anche per questa via si torna alla circostanza fattuale che vuole ogni traduzione niente più che una più o meno soddisfacente perifrasi. Insomma, siamo in grado di comunicare, ma sempre in maniera imperfetta. Questo vale per la comunicazione tra uomo ed uomo, ma anche tra uomo e macchina, e tra macchina e macchina.
Proprio per questo divengono sempre più importanti le metafore e la ridondanza. Comunichiamo attraverso una Babele di linguaggi: la probabile comprensione, più che attraverso una possibile ‘esattezza’, passa attraverso l’accettazione della complessità, della possibilità del fraintendimento. Meglio abbondare, meglio ripetere, meglio conservare anche quello che appare scarto, meglio esprimere lo stesso contenuto attraverso modalità differenti. Forse le perifrasi non vanno considerate un fastidio, ma una necessità. Forse lì, dove si deve ricorrere a perifrasi, si annida il senso più profondo.
1 Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta, Roma-Bari, Laterza, 1993. (Appartiene alla collana ‘Fare l’Europa’ prodotta in coedizione insieme ad altre quattro casi editrici europee). Avevo snobbato questo libro, un po’ perché secondo me dopo il Trattato di semiotica e Il nome della rosa aveva esaurito la sua vena migliore, un po’ per un limite specifico che attribuisco alla La ricerca della lingua perfetta: non contiene nemmeno una citazione di un personaggio che a mio modo di vedere in questa storia non dovrebbe mancare: l’umanista spagnolo Elio Antonio de Nebrija. Negli stessi giorni in cui Colombo perorava la sua causa di fronte regina Isabella, Nebrija perorava un progetto diverso ma complementare. Spiegava alla regina che per edificare un impero insieme alla spada, e prima della spada, serve la lingua. Una lingua normalizzata, intesa come strumento di dominio e di controllo. Lo spagnolo nacque così: lingua ‘moderna’ in quanto codificata, imposta per legge, fondata su una grammatica ed un dizionario chiusi, stabiliti dall’autorità.
2 Ursula K. Le Guin, Always Coming Home, 1985; trad. it.Sempre la valle, Mondadori, 1986. E’ il TOK “che poteva essere pronunciato, oltre che battuto sulle tastiere”.
3 Esperti di machine translation system e di interlingue formalizzate hanno messo in discussione il legame tra aymara e Atamiri. In effetti, l’Atamiri è frutto delle capacità progettuali di Guzmán de Rojas, matematico. Ma è proprio Guzmán de Rojas ad affermare che la stuttura profonda dell’Atamiri è la struttura profonda dell’aymara. Per sconfermare questa affermazione si dovrebbe conoscere l’aymara meglio di Guzmán de Rojas. In lingua aymara, Atamiri significa “comunicatore”. http://www.aymara.org/biblio/5RepMatrC.pdf ; www.atamiri.cc/es/AtamiriSolution/History/ .
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