Francisco Varela, in special modo nei sui ultimi anni di vita (muore a Parigi il 28 maggio 2001), ragiona attorno al manifestarsi della conoscenza. Come scienziato, ma innanzitutto come uomo, pone al centro l'esperienza.
Dice: poniamoci in una situazione di laboratorio. L'esperimento coinvolge una persona: gli si mostra l'immagine di un volto. Gli si dice che gli verranno mostrate immagini. Gli si dice che se riconosce in una immagine il volto dovrà schiacciare un bottone, se non la riconosce dovrà schiacciare un altro bottone. L'esperimento inizia, la persona schiaccia bottoni.
Si è fatto un gran lavoro per capire cosa accade alla persona in quegli istanti. Per capire come si formano le immagini cerebrali, per capire cosa accade nella rete neurale. Tutto questo va benissimo, è un lavoro 'scientifico' - utile e importante. Ma tutto questo - ciò che riesce a comprendere lo scienziato cognitivo, con il suo metodo e i suoi protocolli, ci ricorda Varela, non è che una parte del fenomeno.
Questo agire scientifico -lo stesso agire del professionista dell'informatica che lavora sui dati puri, granulari, privi di ridondanza-, questo agire scientifico elude la domanda: 'quale è il fenomeno?', 'quale è tutto il fenomeno?'. Parte del fenomeno, infatti, sta nell'esperienza vissuta dalla persona che partecipa all'esperimento. La sua esperienza non sta solo nello schiacciare il bottone. Cosa succede alla persona, quale esperienza vive la persona nel momento in cui vede quel volto?
Per questo, ci ricorda Varela, è importante la lezione dalla fenomenologia. Ci pone sotto gli occhi quella parte del fenomeno -come sta sta vivendo la situazione quella persona, la sua esperienza-, quella parte che la scienza non è propensa a guardare.
La scienza oggi, è sfidata a tener conto anche dell'esperienza della persona. Varela ci parla dunque di una scienza disposta ad allargare il proprio sguardo, una scienza che mutando suoi radicati presupposti sappia tener conto, mostrando uguale rispetto, per le due fonti del fenomeno. Una fonte: la tradizionale maniera di guardare in terza persona, con lo sguardo 'neutro' dello scienziato legato alla griglia definita a priori, rispettoso del protocollo. L'altra fonte: la conoscenza alla quale solo io -e come me, ogni altra persona- ha accesso.
Così possiamo dire anche per l'informatica, oggi sfidata a tener conto non solo dei dati strutturati, rispondenti a un modello, e secondo il modello classificati, ma anche delle conoscenze non strutturate, non previamente imbrigliate in schemi, soggettive e ridondanti.
Ogni persona è meritevole che le venga data una chance: la possibilità di narrare della propria esperienza. Ma -aggiunge Varela- narrare la propria esperienza non è facile: non è certo una capacità che possiamo dare per scontata. Se vogliamo costruire una conoscenza non parziale, non potremo dunque limitarci a delegare agli esperti: scienziati e professori e professionisti dell'informatica. Dovremo, per quanto possibile, allenarci a narrare la nostra esperienza. E' questa, credo di poter dire, l''alfabetizzazione' che serve oggi. Nel parlare di questa literacy, nel descrivere questo “futuro culturale” Varela va oltre il riferimento, pure importante, alle competenze del poeta e del filosofo. Si avvicina con timore e cautela a dire quello che trova giusto e saggio dire.
Sto ascoltando la sua voce: in questo emergere del pensiero, pochi mesi prima della morte, il parlare, così diverso dallo scrivere, e il parlare in spagnolo, lingua natale, giocano un ruolo che non può essere trascurato. Si tratta di tornare, ci dice Varela, a comprendere le radici di quello che ognuno è come essere umano, si tratta di riscoprire il nostro modo di 'fare esperienza'. En cierta manera... por lo tanto y parodojalmente, a lo mejor -l'inciampo e la sospensione del discorrere, in questo punto, e la ricerca di eufemismi, trasmettono già di per sé il senso- il “futuro cultural”, continua Varela, passa per un reincantamiento, una coraggiosa accettazione della la vita spirituale. “La vida espiritual entendida como constante revalorización de lo que uno vive momento a momento, porque allí está la fuente de la vida”.
Ora, appropriandomi di tutti gli eufemismi di Varela potrei dire che forse, in fondo, in un certo qual modo, la macchina per pensare che ci accompagna quotidianamente è un veicolo per ritrovare l'incantamento, un utensile conviviale che ci permette di vivere intensamente l'esperienza, un attivatore della mente che ci permette di vivere come eccezionale, straordinario ogni istante che ci è dato da vivere.
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