La
narrazione dei romanzieri di 'fantascienza', si può sostenere, è la
più vera, 'meritevole di essere creduta'. A ben guardare, la
narrativa mainstream, è in realtà la narrativa più censurata,
subordinata a canoni, codici e controlli. Rispetto ad un narratore
che ambisce al successo 'di critica e di pubblico', e che quando
raggiunge il successo ne diviene schiavo, il narratore apparentemente
chiuso nell'alveo marginale della Science Fiction è invece
sovranamente libero. Libero di dire, e di guardare il mondo.
Ursula
Le
Guin,
in
Always
Coming
Home,1
ci
propone
un
mondo
-nella
finzione
letteraria,
un
mondo
post
catastrofe
nucleare-
fondato
su
un
sottile
equilibrio.
Due
sottomondi
,
tra
di
loro
geneticamente
e
strutturalmente
correlati,
contribuiscono
ad
un
complessivo
equilibrio
ecologico,
ma
restano
allo
stesso
tempo
del
tutto
indipendenti
ed
autonomi
l'uno
all'altro.
La
Città dell'Uomo: il mondo caldo e quotidiano delle relazioni
interpersonali, fondato sull'oralità e sulla tradizione.
La
Città della Mente: la Rete di computer interconnessi.
Gli
uomini possono permettersi di dimenticare, perché possono accedere,
in ogni istante, ai terminali della Città della Mente, e possono da
lì attingere le informazioni immediatamente necessarie.
In
cambio la Città della Mente chiede agli uomini un flusso continuo di
nuovi dati. Ciò che per l'uomo è informazione irrilevante, o
scarto, è ricco di valore per la Città della Mente. Che di questa
massa di dati si alimenta.
Due
mondi totalmente separati l’uno dall’altro, ma viventi in
simbiosi. Due ‘sistemi viventi’ che condividono il continuum
spazio-temporale, ma che restano diversi ed autonomi. In questo
immaginario quadro di un mondo rinato dopo la catastrofe, da un lato
la Città dell’Uomo, “rete assai rilassata, leggera e cedevole”
delle culture umane, “con la loro piccola scala”, “con il loro
grande numero e le loro interminabili differenziazioni”. Dall’altra
la Città della Mente, sistema tecnologico integrato, ‘esperto’,
rete neurale dotata di capacità di autoapprendimento.
Per
questa via Le Guin ci toglie ogni illusione rispetto alla macchina
amichevole, espansione delle potenzialità del soggetto, totalmente
controllabile dal soggetto. Ma allo stesso tempo pone alla nostra
attenzione l’indispensabile ruolo coperto, in un complessivo
ambiente ecologico, dai sistemi informativi. Quando la conservazione
delle informazioni non è più un obbligo e una schiavitù, si
riscoprono i vantaggi: le informazioni sono fonte di conoscenza –
contribuiscono a migliorare la qualità della vita e del lavoro.
–
(Chiede
Pandora,
l’antropologa,
ndr)
Dunque
le
biblioteche
diventerebbero
enormi,
se
non
gettaste
via
gran
parte
dei
libri
e
di
tutto
il
resto.
Ma
come
decidete
che
cosa
va
conservato
e
cosa
va
distrutto?
–
(Risponde
l’archivista,
ndr)
E’
difficile.
E’
una
cosa
arbitraria,
ingiusta
ed
eccitante.
Noi
ripuliamo
le
biblioteche
(…)
ogni
tanti
anni.
Qui
nel
Madrone
di
Wakwaha
la
Loggia
ha
ogni
anno
una
cerimonia
di
distruzione,
tra
l’Erba
e
il
Sole.
E’
segreta.
Soltanto
i
membri.
Una
sorta
di
orgia.
Un
accesso
di
desiderio
di
pulizia;
l’istinto
di
accumulare,
la
spinta
a
collezionare,
viene
rovesciata
su
se
stessa,
è
invertita.
Liberarsi.
–
Distruggete
i
libri
preziosi?
–
Certo;
non
vogliamo
finire
seppelliti
sotto
quelli.
–
Ma
i
documenti
importanti
e
le
opere
letterarie
di
pregio
potreste
conservarle
in
qualche
archivio
elettronico,
alla
Exchange,
dove
non
occuperebbero
spazio.
–
La
Città
della
Mente
lo
fa
già.
Vuole
una
copia
di
ogni
cosa.
E
noi
gliene
diamo
una
certa
quantità.
E
poi
lo
‘spazio’
di
cui
parli
è
solo
una
questione
di
volume
più
o
meno
grande:
c’è
dell’altro.
–
Ma
gli
intangibili…
le
informazioni…
–
Tangibile
o
intangibile,
o
ti
tieni
una
cosa
o
la
dai
via.
Noi
riteniamo
più
sicuro
darla
via.
–
Ma
i
sistemi
di
archiviazione
e
di
recupero
dei
dati
servono
proprio
a
questo!
Il
materiale
è
conservato
perché
sia
a
disposizione
di
chi
ne
ha
desiderio
o
ne
ha
bisogno.
L’informazione
viene
fatta
circolare…
l’azione
centrale
della
cultura
umana.
–
“A
tenere,
cresce;
a
donare
scorre”.
Donare
richiede
una
notevole
dose
di
discriminazione;
come
attività,
forse
richiede
un’intelligenza
più
disciplinata
che
non
conservare.
(pp.
318–319)
Uno
scambio di battute che ci parla, in apparenza, di quel tema che ci
siamo abituati a chiamare Knowledge Management. Ma a meglio guardare,
siamo messi di fronte a temi originari, di cui il Knowledge
Management non è che una misera conseguenza.
Generazioni
di antropologi si sono interrogati sul senso del Potlach: i membri di
interi gruppi sociali, in occasioni rituali, distruggono, donandola,
la ricchezza precedentemente accumulata. Il fenomeno fu osservato
presso gli indios Kwakiutl, sulla costa nord-occidentale americana,
nei pressi di Vancouver, a cavallo tra la fine del 1800 e l’inizio
del 1900 da Franz Boas.
Il
resoconto
del
Potlach
lasciatoci
da
Boas,
probabilmente
la
descrizione
etnografica
più
influente
che
sia
mai
stata
pubblicata,
è
stato
oggetto
di
diversissime
interpretazioni.
Qui
Le
Guin
ci
propone
una
lettura
interessante:
possiamo,
appunto,
liberarci
delle
informazioni,
liberare
la
nostra
mente,
lasciare
correre
il
pensiero
in
sempre
nuovi
percorsi
creativi.
Possiamo
farlo
perché
le
macchine
ci
hanno
liberato
dalla
necessità
di
conservare.
Le
macchine,
i
computer,
'godono'
stoccando
e
tesaurizzando.
L'uomo,
liberato,
'gode'
lasciando
fluire
il
pensiero.
Proprio
perché
disponiamo
di
una
'scrittura',
una
scrittura
automatica,
enormemente
più
evoluta
della
scrittura
su
carta,
possiamo
tornare
a
quella
libertà
creativa
che
Platone
auspica
nel
Fedro.
La
'scrittura' conservata dalla Città della Mente va bene oltre il
permettere nuovo accesso a informazioni accumulate nel passato. Non
si tratta solo di sostituire la memoria personale, ridando a chi ne
fa richiesta conoscenze già possedute. Quelle tracce accumulate nel
tempo, tracce di persone, tempi e luoghi diversi -tracce che oggi ci
stiamo abituando a chiamare Big Data- sono la materia prima con la
quale ognuno può hic et nunc creare nuova conoscenza.
La
conservazione 'automatica' di ogni traccia ci permette di andare
oltre la conservazione, oltre la conoscenza già data.
Conservare
apparentemente senza scopo significa andare oltre: non trattenere,
non limitarsi all''aver già dato'; ed invece agire con
l'atteggiamento di chi dona. Solo donando senza aspettarsi nulla si
potrà avere in cambio qualcosa di inatteso, ricco, veramente nuovo.
1Ursula
K. Le Guin, Always Coming Home,
Harper & Row 1985; trad. it. Sempre la
valle, Mondadori, 1986. Vedi in Francesco Varanini, Il
principe di Condé, Este,
2010, capitolo: “Etnografia dei sistemi informativi”.
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