Digitale: abusata espressione che troviamo, di questi tempi, condita in tutte le salse.
Al giorno d'oggi, sembra che ogni persona ed ogni azienda debba cercare di diventare sempre più digitale. Ma cosa significa veramente essere digitale?
Per alcuni, è una mera questione di tecnologia. Per altri, è un modo completamente nuovo di intendere il business. Per altri, essere digitale è un nuovo modo per essere in contatto con i clienti. Per altri è una riconfigurazione della scena politica. Nessuno di questi modi di intendere è sbagliato per se, ma ciascuna di esse è solo parzialmente corretta.
La voce degli esperti chiama ognuno ad una digital transformation. Si preferisce anzi dire, in modo più apocalittico: digital disruption. Sentiamo affermare con insistenza: la politica, l'economia, la produzione, la finanza, il marketing, tutto è cambiato. I mezzi di comunicazione di massa, il più delle volte con la loro consueta superficialità, ripetono il luogo comune. Il mondo non è più quello di prima.
Ma appunto, cosa vuol dire digitale? Digitale, di per sé, non vuol dire altro che numerico. I computer, si sa, sono macchine digitali: trattano dati espressi in forma numerica. Quindi digitale vuol dire: 'dipendente dall'uso di computer', o 'legato all'uso di computer'. Si parla non a caso di cultura digitale. Fin quando ad usare i computer erano esclusivamente tecnici specialisti, i riflessi sociali, economici, politici della diffusione di queste macchine risultavano poco visibili. Ma oggi ogni cittadino del pianeta, ogni essere umano, possiede un computer, lavora tramite un computer, intrattiene relazioni sociali tramite un computer. Perché sono computer, lo sappiamo bene, non solo le macchine da tavolo, ma anche i portatili, i tablet, gli smartphone.
Being Digital, di Nicholas Negroponte, esce nel 1995. E' la raccolta delle sue rubriche apparse sulla rivista Wired, la bibbia della nuova cultura. Rivista pubblicata non a caso a San Francisco, a pochi chilometri dallo Stanford Research Institute: centro di ricerca che dagli Anni Sessanta prepara questa rivoluzione. Nei dintorni nasce quel mitico luogo di innovazione che chiamiamo Silicon Valley. Scriveva Louis Rossetto, co-fondatore di Wired, sul primo numero della rivista (marzo-aprile 1993): "the Digital Revolution is whipping through our lives like a Bengali typhoon".
Sono passati più di venti anni, le nostre vite sono davvero cambiate in modo significativo. Ma siamo ancora qui a chiederci in cosa consista veramente questa rivoluzione.
Più che una rivoluzione, direi intanto, è una evoluzione di lungo periodo. Gli insistenti proclami che ascoltiamo in questi ultimi anni non sono che una ripetizioni di quanto scrivevano Negroponte, Rossetto, Kevin Kelly negli Anni Novanta. Ma a loro volta i profeti degli Anni Novanta non facevano altro che riprendere ciò che negli Anni Sessanta scrivevano -e concretamente progettavano- i veri padri della cultura digitale: Ted Nelson, Douglas Engelbart, Stewart Brand, JCR Licklider. Dobbiamo a loro Personal Computer, Internet, Social Network, ipertesti. La cultura digitale è la traduzione in tecnologia del clima di quegli anni: Nuova Frontiera, clima libertario, pacifista, youth revolution, controcultura, rivoluzione come allargamento della coscienza.
Being Digital, tradotto in italiano nello stesso anni in cui uscii in edizione originale, '95, aveva per titolo: Essere digitali, al plurale. Essere digitale o essere digitali? Sottile ma significativa differenza. Il plurale suggerisce l'idea di una massa di persone che transitano collettivamente, ed in fondo passivamente, ed in modo indistinto verso l'uso di strumenti digitali. Il singolare, invece, esclude l'idea della massa indistinta: ogni singola persona ha la possibilità di essere digitale a suo modo; traendo dagli strumenti la possibilità di essere più più creativo, più informato, più responsabile.
Alle due idee corrispondono due diverse maniere di intendere politicamente tempi del digitale.
In un primo caso, narrato dal plurale, ci si arrende -noi tutti costretti ad essere digitali- ad una sconfortante evidenza: la vita di ogni cittadino, esplicata tramite l'uso di computer, si traduce nel lasciare tracce digitali. Queste tracce, che chiamiamo dati, finiscono per essere la fonte e la base di ogni processo decisionale. La classe politica conoscerà i comportamenti dei cittadini attraverso i dati. Il manager conoscerà i clienti ed i lavoratori impegnati in azienda attraverso i dati. In fondo, una nuova schiavitù.
Ma dimentichiamo così l'approccio al digitale singolare e personale. Anche in presenza della minaccia di un costante furto di dati, anche in presenza di app che ci offrono insipide pappe pronte, possiamo coltivare quelle speranze che muovevano gli innovatori degli Anni Sessanta. Essere digitale è allargare l'area della propria coscienza. Disponiamo oggi di strumenti che permettono ad ogni cittadino di conoscere, di essere al centro del mondo: possiamo scrivere il nostro blog, possiamo connetterci con chiunque, possiamo partecipare a progetti cooperativi... Si tratta di imparare ad usare gli strumenti. Si tratta di scegliere tra strumenti che ci rendono passivi e succubi e strumenti che ci rendono più liberi e consapevoli e solidali.
La rivoluzione digitale può essere intesa in questo modo: un nuovo territorio che ha del meraviglioso - ma sul quale dobbiamo imparare a muoverci.
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A mio parere "digitale" è stata una moda che lascerà posto a "elettronica" che include "analogico" il fondamento del mondo dei sensori che interfaccia il mondo umano che è, appunto, "analogico".
RispondiEliminaEvolviamo anche nelle espressioni
Giivanni