Nell’ultima settimana due
progetti di legge in discussione presso il Congresso degli Stati
Uniti -Stop Online Piracy Act (SOPA), alla Camera dei Rappresentanti,
Protect IP Act (PIPA) al Senato- sono stati rimessi almeno per il
momento rimessi nel cassetto. Progetti sostanzialmente convergenti,
formalmente tesi a bloccare l’accesso a siti web sospettati anche
solo vagamente di violazioni del copyright. I titolari di
diritti lesi, in base alle leggi, potrebbero agire per vie legali non
solo nei confronti di chi abbia materialmente commesso la violazione,
ma anche nei confronti dei siti e dei portali che ospitano i
contenuti in violazione di copyright.
Schierati a favore, le associazioni
industriali dei produttori di Computer Games, Entertainment Software
Association; dell’industria cinematografica, Motion Picture
Association of America; dell’industria discografica, Recording
Industry Association of America; e ancora grandi gruppi editoriali:
Macmillan, gradi brand: Nike, L'Oréal. Contro Google, Facebook,
Yahoo, insieme a Wikipedia, alla Electronic Frontier Foundation e a
Human Rights Watch.
Gli schieramenti mostrano che si tratta di un tentativo di arbitrare tra le pressioni e le pretese di due
grandi lobby: da un lato l’industria editoriala nata prima
dell’avvento del computing e del World Wide Web, dall’altro
l’industria che vive del Web.
In ogni caso, non si tratta certo di
una legge tesa a difendere diritti dei cittadini, compresi tra questi
i produttori di conoscenza. Dico produttori di conoscenza perché le
antiche e belle parole che conosciamo -innanzitutto ‘autore’- nel
contesto offertoci dal computing e dal World Wide Web, appaiono
superate. E non costituiscono certo un passo avanti, nel descrivere
situazioni e possibilità, nuove espressioni come utente, user
content generator, e simili.
Il fatto è che i diritti -così anche
il copyright- sono stabiliti a partire da una tecnologia. “Il
riconoscimento della proprietà letteraria e la pratica del pagamento
di diritti d’autore sono emersi con la stampa”. Il copyright “non
è stato applicato alla conversazione, ai discorsi, o al canto, in
privato o in pubblico, fino a tempi molto recenti”. “Il caso
fondamentale di riferimento è negli stati Uniti il processo Withe
Smith v. Apollo [1908]. Negò la protezione ai rulli delle pianole e alle
registrazioni sonore perché non erano ‘scritti’ in forma
tangibile, leggibile da un essere umano”. Ma poi via via nuovi
Gatekeeper, mediatori tecnologicamente necessari come lo è dal 1500
la stampa, hanno spinto la norma sul copyright ad allargare il
proprio ambito di copertura, fino a farne un mostro giuridico. Fino a
quando, dagli anni Ottanta del secolo scorso e fino ai nostri giorni,
con l’avvento del Computing e poi del World Wide Web, si è tentato
di allargare l’ambito del copyright fino ad abbracciare la
produzione e l’uso di conoscenza sulla Rete. Con esiti sempre
insoddisfacenti.
Ciò che serve non “Bisognerà
inventare concetti completamente nuovi per compensare il lavoro
creativo. Il concetto di copyright basato sulla stampa non funziona
più”.
Ho tratto le citazioni sopra riportate
da un articolo di Ithiel de Sola Pool. Scritto trent’anni fa, mi
pare molto più attuale delle cose che si leggono in questi giorni
sui giornali, ed anche nei commenti di pretesi esperti. Di seguito
riporto un paragrafo dell’articolo. (Ithiel de Sola Pool, “La
cultura della stampa elettronica”, in Comunità, anno
XXXVIII, n. 186, dicembre 1984. Al momento, non ho trovato la fonte
originale, che comunque è successiva al 1981).
[Con la pubblicazione elettronica]
spaventose sono le implicazioni per la proprietà letteraria. Anzi la
nozione stessa di copyright diventa obsoleta, perché legata alla
tecnologia della stampa. Il riconoscimento della proprietà
letteraria e la pratica del pagamento di diritti d’autore sono
emersi con la stampa.
Quando in un luogo si riproducevano
copie numerose, diventava relativamente facile identificare la fonte
delle copie e il loro numero; e il luogo in cui venivano stampate era
quello in cui erra pratico applicare controlli o conteggi fiscali.
Infatti l’usanza del copyright cominciò di fatto, se non con quel
nome, nel 1557, in Inghilterra, quando Filippo e Maria, nel tentativo
di porre fine alla pubblicazione di libri sediziosi ed eretici,
limitarono il diritto di stampa a membri della Stationers’ Company,
assegnando a questa associazione il diritto di cercare e confiscare
tutte le pubblicazioni stampate contrarie alle leggi scritte o a
decreti. Otto anni dopo la Stationers’ Company, forte di quel
potere, creò un sistema di copyright per i propri membri. Nel 1709
il Prlamento approvò la prima legge sul diritto d’autore. (Jan
Parsons, Copyright and Society, in Asa Briggs (a cera di),
Essays in the History of Publishing,
Longman, Londra, 194, pp. 331e segg.).
Per i modi di riproduzione in cui non
esisteva un luogo di controllo tanto facile come nell’editoria a
stampa, secondo la legge consuetudinaria non si applicava il concetto
di copyright. Non è stato applicato alla conversazione, ai discorsi,
o al canto, in privato o in pubblico, fino a tempi molto recenti. Il
copyright fu un adattamento specifico a una particolare tecnologia e
ai problemi e alla possibilità che essa creava.
La legge lo riconobbe. Il caso
fondamentale di riferimento è negli stati Uniti il processo Withe
Smith v. Apollo. Negò la protezione ai rulli delle pianole e
alle registrazioni sonore perché non erano “scritti” in forma
tangibile, leggibile da un essere umano. (209 US 1(1908). Cfr. anche
Goldsmith v. Calif. 421 USA 546 (1973) sulle registrazioni sonore).
Quel concetto d’autore legato alla consuetudinaria escluse della
protezione molte delle nuove tecnologie della comunicazione apparse
dopo il 1908. Ma l’industria cinematografica, discografica e più
recentemente televisiva hanno persuaso il Congresso, visto che i
tribunali non erano disposti a farlo, a estendere la protezione anche
a loro. Er le prime tecnologie nuove, il cinema e i dischi, questa
estensione seguiva una logica sensata. Come nel casso dei libri, si
trattava di oggetti materiali prodotti in copie multiple in uno
stabilimento di produzione. Lo stesso sistema che era stato
applicato qualche secolo prima alla stampa poteva in sostanza valere.
Ma con la comparsa della riproduzione elettronica il concetto è
diventato inadeguato. La pubblicazione elettronica è analoga alla
comunicazione a voce del diciottesimo secolo, non a quella
tipografica dello stesso periodo.
Si pensi ad esempio alla distinzione
fondamentale che la legge sul diritto d’autore stabilisce tra
lettura e scrittura. Leggere un testo sotto diritti non costituisce
una violazione della proprietà letteraria, lo è soltanto copiarla
in uno scritto. Come si applica questo principio al terminale di un
computer? L’unica maniera di leggere un testo archiviato in una
memoria elettronica è visualizzarlo su uno schermo; lo si scrive per
leggerlo. Per trasmetterlo ad altri, però, non lo si scrive, si
fornisce soltanto una parola d’ordine che dia l’accesso alla
propria memoria. Se quindi non si è scritto il testo, la violazione
c’è stata?
O si consideri il caso di un programma
che generi output computerizzato. Magari il programma opera su dati
numerici e genera un resoconto con tendenze di periodo, medie e
correlazioni. Magari il programma opera su un manoscritto e genera
riassunti prodotti dal computer. Certamente il programma
computerizzato che fa tutto ciò è un testo, che per la legge
attuale può essere protetto dal copyright. Ma in quale posizione si
trova il testo generato dal programma e dal computer? Chi ne è
l’autore? Il computer?
L’idea che una macchina sia capace di
lavoro intellettuale non rientra nell’ambito della normativa sul
diritto d’autore. Un computer può violare il copyright? Il breve,
nell'intero processo della comunicazione elettronica appaiono
versioni il cui testo è in parte controllato da persone e in parte
automatico. Parte del testo non è mai visibile, ma è soltanto
memorizzata elettronicamente; parte appare per un attimo su un tubo
catodico; parte viene stampata su carta. Ciò che è cominciato come
un certo testo varia e cambia per gradi fino a diventare
qualcos’altro. Chi lo riceve può essere un individuo chiaramente
identificato o un’altra macchina, che non stampa mai il testo, ma
utilizza soltanto l’informazione per produrre un’altra cosa.
Bisognerà inventare concetti completamente nuovi per compensare il
lavoro creativo. Il concetto di copyright basato sulla stampa non
funziona più.
Non sto esponendo una tesi
catastrofica. Il fatto che le note, le bibliografie, gli schedari e
il copyright non avranno senso per la pubblicazione elettronica come
l’avevano per i libri e gli articoli stampati (per i quali sono
stati concepiti) non vuol dire che l'ingegno umano non possa
risolvere il problema. Per molti scopi le versioni canoniche , i
cataloghi, e anche i meccanismi di compensazione sono essenziali. Si
troverà il modo per garantire almeno in qualche misura queste
esigenze, nonostante la situazione fluida dell’elaborazione interattiva conversazionale. Certo non so quale tipo di convenzioni
si costituiranno, ma sono sicuro che non corrisponderanno ai concetti
attuali.
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