Avvicinamento
L'esperienza d'uso: ciò che una persona prova quando utilizza
un prodotto, un sistema o un servizio.
Percezioni, reazioni, emozioni. Si dice anche: l'esperienza d'uso
è ciò che una persona prova quando si interfaccia con un
prodotto o servizio.
Ovviamente oggi per essere al passo dei tempi bisogna dirlo in
inglese: User Experience. Ma questo modo di dire è già di
per sé contraddittorio. Se dico User Experience in inglese mi
sto già allontanando dalla mia esperienza.
Esperienza: in latino ex, intensivo, perior: 'io
provo'. L'esperienza si manifesta qui ed ora, nel mondo in cui mi
trovo, io che vivo in un ambiente, in una cultura, in un luogo, io
che nomino il mondo attraverso la mia lingua materna. Ma purtroppo si
va consolidando l'uso della definizione inglese.
Con l'espressione inglese si consolida anche la definizione di una
figura professionale: User Experience Designer, o User Experience
Architect. La figura di uno specialista
dotato di misteriosi strumenti, ignoti al volgo. Uno specialista
attento all'applicazione di tecniche, ma non altrettanto attento alla
propria e all'altrui esperienza.
Conosco diversi User Experience Designer che non meritano la
descrizione che ho appena dato. Il loro spessore culturale, la loro
autonomia di pensiero, il loro atteggiamento critico di fronte alle
facili mode ed al comodo indulgere dei tecnici a linguaggi pomposi e
vuoti. Proprio pensando a loro scrivo questo articolo. Per
condividere con loro una riflessione sugli aspetti problematici del
ruolo.
Potrei proporre un parallelo: gli User Experience Designer come gli
Human Resource Manager. Un tempo si diceva Direzione del Personale;
oggi si dice Human Resource Management. Gli Human Resource Manager si
occupano di persone, che meritano di essere poste in condizioni
adeguate a far sì che possano lavorare efficacemente. Ma le
aspettative a cui gli Human Resource manager devono rispondere
finiscono per imporre loro di vedere, al posto delle persone, mere
risorse, mera materia prima, forza lavoro spersonalizzata. Certo
l'Human Resource Manager può restare fedele a se stesso, e
interpretare il ruolo a proprio modo. Ma la pressione è forte.
Simile la situazione dell'User Experience Designer.
Per un altro verso la posizione degli User Experience Designer può
essere avvicinata alla posizione del Marketing Manager: entrambi si
propongono di guardare non solo agli abitanti di un mondo ristretto,
l'azienda. Entrambe le figure guardano agli abitanti di ogni mondo,
agli abitanti di un universo senza confini. Il Marketing Manager
propone la posizione del cliente, o customer, ad ogni essere umano.
Così come l'User Experience Designer propone ad ogni essere umano la
posizione dell'utente.
Possiamo aggiungere che l'User Experience Designer si colloca un
passo oltre l'Human Resource Manager ed il Marketing Manager.
Generalizzando, possiamo osservare la diversità tra le figure del
manager e la figura del designer. Nel ruolo del manager prevale la
gestione di una situazione già esistente. Il designer si progettare
la situazione. E lo stesso mondo all'interno del quale si manifesta
l'umano agire.
Serve, quindi collocare la nuovissima arte dell'User Experience
Design in una prospettiva storica e filosofica. Serve accettare di
osservarla nelle sue estreme conseguenze.
Definizioni
In campo informatico, in particolare, l'User Experience, UX, sembra
essere la nuova frontiera della progettazione. Progettare le
applicazioni oggi non è troppo difficile. Esiste già una
innumerevole quantità di applicazioni. Esistono oggetti e strati di
codice già pronti con i quali costruire applicazioni. Ciò che fa la
differenza sta, si dice, nell'interfaccia: Human Interface (HI). Ciò
che fa la differenza è la qualità dell'interazione tra l'uomo e la
macchina: Human-Computer Interaction (HCI).
Ho appena detto che le definizioni non sono irrilevanti: verso la
metà degli Anni Novanta un esperto che al momento lavora per la
Apple, Don Norman, decide che sia Human Interface che Human-Computer
Interaction sono denominazioni poco convenienti. Propone in cambio
User Experience.
Abituati come siamo ad essere gregari ('appartenenti ad un gregge'),
piuttosto che a pensare in proprio, anche parlando di User Experience
e User Interface (UI), finiamo troppo spesso per far riferimento a
qualche guru.
Ora, guarda caso, Don Norman ("The Guru of Workable Technology",
Newsweek),
Jakob Nielsen ("The Guru of Web Page Usability", New
York Times), ed anche Bruce "Tog" Tognazzini ("The
User Interface Guru" (Wired), sono i Principal di una
società di consulenza, Nielsen Norman Group, alla quali molti
ricorrono per conoscere il Verbo.
Tra i tre, il Guru dei Guru è Norman, portabandiera dell'User
Experience. Uno dei modi di imporre il proprio potere, si sa, è
imporre le proprie definizioni. Ascoltiamo dunque Norman.
"We should distinguish UX and usability: according to the
definition of usability, it is a quality attribute of the UI,
covering whether the system is easy to learn, efficient to use,
pleasant, and so forth".
Altrettanto importante, continua Norman, è "to
distinguish the total user experience from the user interface (UI).
As an example, consider a website with movie reviews. Even if the UI
for finding a film is perfect, the UX will be poor for a user who
wants information about a small independent release if the underlying
database only contains movies from the major studios"
Ma comunque, sia rispetto all'usability che
all'user interface, "UX is an broader concept".
Il concetto è elaborato da Norman negli Anni Ottanta: Ma allora
Norman lo denominava User Centered Design. Alla metà degli Anni
Novanta trova la sua esplicita affermazione e la denominazione: User
Experience Design. Racconta lo stesso Norman: “I
invented the term because I thought human interface and usability
were too narrow. I wanted to cover all aspects of the person’s
experience with the system including industrial design graphics, the
interface, the physical interaction and the manual.”
Non c'è motivo di negare le buone intenzioni di Norman. Il cui
pensiero si nutre di ottimi studi -tra gli ultima Anni Cinquanta e
gli Anni Settanta- in campi diversi, che contribuisce ad ibridare:
Ingegneria, Computer Science, filosofia, matematica, psicologia. Fino
ad approdare alle Scienze Cognitive.
Nel 1986 cura, insieme a Stephen Draper, User Centered System
Design: New Perspectives on Human-Computer Interaction (L.
Erlbaum Associates, Hillsdale, N.J.). Dove appare anche il saggio a
sua firma Cognitive Engineering (pp. 31-61).
Due anni dopo esce quella che resta la sua opera più rilevante, The
Psychology of Everyday Things (Basic Books, New York, 1988).
Concetto chiave, in entrambi i libri, è l'User-Centered Design.
La progettazione deve contemplare la compresente elaborazione di due
modelli. C'è ovviamente il Design model: ciò che il
progettista, in considerazione della propria visione creativa,
immagina. Ma, aggiunge Norman, al Design Model dovrà accompagnarsi
lo User Model: il modo in cui l'utente si spiega il
funzionamento del sistema. Idealmente, i due modelli dovrebbero
essere equivalenti. "However, the user and
designer communicate only through the system itself: its physical
appearance, its operation, the way it responds, and the manuals and
instructions that accompany it". Di qui il fatto che non
basta progettare il sistema. Serve porre attenzione alla
System Image: "the designer must
ensure that everything about the product is consistent with and
exemplifies the operation of the proper conceptual model." (The
Psychology of Everyday Things, pp.
189-190)
Dunque: "a User-Centered Design, a
philosophy based on the needs and interests of the user, with an
emphasis on making products usable and understandable." (p.
188).
Norman arriva così a proporre un patto tra
progettisti e utenti: "Now you are on your own. If you
are a designer, help fight the battle for usability. If you are a
user, then join your voice with those who cry for usable products."
(p. 215).
C'è un altro aspetto, non trascurabile, del pensiero di Norman.
"When I use a direct manipulation system
-whether for text editing, drawing pictures, or creating and playing
games- I do think of myself not as using a computer but as doing the
particular task. The computer is, in effect, invisible. The point
cannot be overstressed: make the computer system invisible. This
principle can be applied with any form of system interaction, direct
or indirect." (p. 184).
"The computer is invisible, hidden beneath
the surface; only the task is visible", insiste Norman
due pagine dopo. "Although I may actually be
using a computer, I feel as if I am using my appointment calendar."
(p. 186).
A prima vista, non possiamo che concordare con Norman. In questo
momento sto scrivendo. La mia mente è connessa alle dita che si
muovono sulla tastiera, lo sguardo è rivolto allo schermo. Non
voglio essere molestato o distratto da rallentamenti del sistema, da
informazioni riguardanti software da aggiornare o altre operazioni
inerenti al mero funzionamento della macchina.
Il
cielo del Designer e la terra dell'User
Trent'anni dopo, nei giorni in cui scrivo, Norman, guru acclamato, in
stanze riservate consiglia i produttori di ogni tipo di prodotto.
Mentre arringa le folle dalla tribuna di Ted.
Le sue parole ci appaiono ancora buone intenzioni. Sicuramente una
via da perseguire.
Resta valido l'invito, anche etico, rivolto ai Designer e progettisti
tutti: tenete conto del punto di vista delle esigenze degli utenti.
Considerate la frustrazione dell'utente di prodotti e servizi di
fronte a sistemi che 'non fanno quello che si vorrebbe'; o meglio:
'ciò che si ritiene sensato'. Considerate il dispetto dell'utente
costretto a leggere certi manuali d'uso.
Resta valido anche l'invito rivolto agli utenti: non demordete, non
rinunciate a battagliare per prodotti meno astrusi, più semplici,
più facili da usare.
Ma possiamo anche cogliere un aspetto minaccioso nelle parole di
Norman. "True user experience goes far beyond
giving customers what they say they want". Per quanto si
parli enfaticamente di 'utente al centro', per quanto si sbandieri
l'importanza del suo punto di vista e del suo interesse e del suo
piacere e della sua esperienza, il Designer Cognitivista, pensa di
saperne di più.
Con buona pace di Norman, l'utente di servizi resi accessibili via
computer vive una condizione di pesante sudditanza. Non sa, e non
deve sapere, come funziona il sistema. Il sistema per l'utente
invisibile. L'utente vede solo il prodotto e il servizio. Resta
quindi vivo per l'utente un motivato timore: cosa nasconde il
sistema? Non nasconderà forse un qualche inganno? Timori non
infondati: basta pensare al costante tracciamento dei nostri
comportamenti personali. Norman proponeva un patto tra Designer e
User. Ma oggi il potere dei Designer -che tramite macchine digitali
disegnano gli ambiti nei quali viviamo la stessa vita degli utenti-
appare sconfinato.
Quindi, dobbiamo riprendere il discorso daccapo. Tornando al senso
dell'esperienza: in latino ex, intensivo, perior:
'io provo'; e chiedendoci cosa si nasconde dietro il definire
l'essere umano utente.
L'esperienza umana si manifesta attraverso l'uso di
utensili. In latino: verbo uti, 'usare'. Utensilis,
aggettivo per ‘utile’, ‘necessario’. Utensilia, ‘cose
utili’. E dunque: utens, 'qui utitur aliqua re', 'chi usa
una qualsiasi cosa'.
L'essere umano scopre la possibilità di usare una cosa come
utensile. E' attraverso l'esperienza del martellare che si apprende a
martellare. E' martellando che l'uomo coglie e definisce il senso
dello strumento, e della parola usata per definirlo: martello.
Heidegger parlava di Zuhandenheit, l''essere alla mano',
'vicino alla mano' 'nella mani'. Questo è alla fin fine l'utensile.
Nell'esperienza umana -'io provo'- non c'è soluzione di
continuità tra il costruire l'utensile e l'usarlo. Possiamo ritenere
che l'utensile -ogni mezzo, strumento ogni tecnologia, nelle mani
dell'uomo- sia sempre in via di costruzione. L'esperienza dell'uso
ritorna nel progetto dell'utensile, in una spirale di miglioramento
continuo.
Fenomenologia e psicologia sono studio di come
l'uomo l'uomo osserva e percepisce le cose. Ogni uomo è 'gettato
nel mondo', ci ricorda Heidegger: Geworfenheit.
Possiamo tradurre: Thrownness,
gettatezza. L'esperienza di sentirsi
gettato giù, gettato fuori dalle zone di conforto, scagliato, solo
un mondo inospitale e sconosciuto, come Robinson Crusoe. L'esperienza
umana è scoprire come cose che sono disponibili nel mondo in cui si
è nostro malgrado gettati -nel mondo nel quale nostro malgrado ci
troviamo- possono essere usate come utensili.
Dunque l'uomo può essere detto utens,
perché, mosso da una intenzione, da un piacere, da una necessita,
usa cose. Le cose, battezzate come utensilia,
'cose utili', sono un mezzo. Le caratteristiche del mezzo -medium,
tecnologia- influenzano l'agire.
Ma l'agire umano non si riassume nell'uso di un mezzo, di una
tecnologia, di un utensile. L'uomo dispone sempre -vale
l'esempio di Robinson Crusoe- di alternative e di possibilità.
Potrebbe in ogni caso costruire, e usare, un altro utensile. L'essere
umano è sempre qualcosa di più dell'essere utente - fruitore
obbligato di un dato utensile, di una data tecnologia, di un dato
costrutto, di un dato programma, di un dato algoritmo.
Si dovrebbe dunque parlare di Human Experience. Perché invece
porre riduttivamente l'attenzione sull'User Experience?
Torniamo a Don Norman. Norman pubblica The
Psychology of Everyday Things nel 1988.
Ma subito modifica il titolo: The
Design of Everyday Things (Currency
Doubleday, New York, 1990). Viene così reso evidente un
passaggio: un conto è guardare alle cose dal punto di vista della
propria esperienza - come potrebbe suggerire il titolo Psychology
of Everyday Things. Un conto è guardare alla altrui esperienza,
considerandola il frutto del progetto di uno specialista: il
Designer.
Norman, passando dal dire Psychology
of Everyday Things a dire Design of Everyday Things esplicita
in effetti l'approccio del libro. L'approccio fenomenologico
-che pone al centro l'essere umano- resta confinato sullo sfondo. In
primo piano non sta l'uomo, ma un soggetto del tutto differente: il
Designer.
Norman non considera il Designer come
abitante del mondo. Norman considera il Designer abitante di un
meta-mondo abitato da Designer.
L'essere umano è costretto a manifestarsi
esclusivamente come utilisateur,
usuario,
Benutzer.
utente di
strumenti predisposti da un progettista. Strumenti che permettono di
fare esperienza, certo. Ma solo l'esperienza prevista in un progetto.
L'User Experience non è esperienza
dell'essere umano. L'User Experience consiste dunque
nell'imporre all'uomo il progetto di un Designer.
Come scriveva già Tito Livio, esistono due tipi
di utensili: “divina humanaque utensilia”, ‘gli utensili umani
e gli utensili divini’. (Tito Livio, Ab
urbe condĭta [Storia
di Roma], XXXIII).
I Designer, super-uomini o dei, operanti
nell'Empireo, nel meta-mondo a loro riservato, usano divina
utensilia, strumenti e linguaggi di
progettazione - tramite i quali costruiscono humana
utensilia, gli oggetti concessi in uso
agli esseri umani, ridotti a utenti.
In virtù di vincoli previsti dal progetto, gli
utensili concessi all'uomo-utente resistono ad essere usati come
sogna, come desidera, come necessita l'uomo. L'uomo vive la
Geworfenheit,
la Thrownness,
gettatezza:
il trovarsi in un mondo difficile sconosciuto. L'uomo apprende
agendo, e che agisce apprendendo. L'uomo manifesta la propria
umanità, la propria cura, costruisce la propria identità e la
propria autostima nello scoprire il senso di cose che posso essere
considerate utensili. Così, anche, l'uomo costruisce la propria
autostima. E' l'esperienza di Robinson.
Quest'uomo oggi è impedito, nel proprio agire, dal progetto del
Designer. Che decide per lui.
L'user, l'utente di Norman è lontanissimo
dall'uomo-Robinson. L'user, l'utente di Norman è il
giovane Truman costretto all'interno dello show, attore ignaro di uno
spettacolo governato da un designer-regista.
Perché oggi la stessa vita umana si svolge in larga misura -secondo
alcuni: l'intera vita umana- si svolge in un mondo progettato da
disegnatori.
The
Design of Digital World
Trent'anni dopo The Design of Everyday Things il primato del
disegno sull'agire umano appare fatto compiuto.
"Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione"
-potremmo anche dire: l'informatica e il computing- portano con "sé
l’erosione dei confini tra il reale e il virtuale e l’erosione
dei confini tra uomo, macchina, e natura", si legge nell'OnLifeManifesto. L'uomo, si sostiene, non vive più nel mondo che aveva
conosciuto l'arco della sua intera storia. Vive onLife: in una nuova
vita che comprende la la vita off line e la vita on line. Vive in un
luogo virtuale, in un'Infosfera, nel Cyberspazio. In una certa misura
la profezia di Matrix è già avverata. Anche se secondo i profeti
del nuovo è solo l'inizio.
Già oggi con il Clouding informazioni che ci riguardano, conoscenze
che noi stessi abbiamo prodotto, così come ogni dato, tutto risiede
in una nuvola senza luogo progettata da un Disegnatore.
Le stesse applicazioni con le quali interagiamo sulle nostre macchine
personali -computer o tablet o smartphone- sono perennemente
aggiornate dal Disegnatore -in base una propria insindacabile scelta
dei modi e dei tempi e delle scelte- sulla macchina personale di ogni
essere umano. Con Internet of Things il progetto arriva al suo
compimento.
In The Design of Everyday Things Norman, trent'anni fa,
mostrava numerosi esempi di cose di uso quotidiano. Si inizia con la
paradossale caffettiera disegnata da Jaques Carleman: inutilizzabile,
perché il beccuccio e il manico sono sullo stesso lato, sovrapposti
l'uno all'altro. Si continua con maniglie, apparecchi telefonici,
pulsanti e interruttori, manopole e rubinetti, elettrodomestici,
giocattoli, scarpe. Tutte queste cose sono state progettate da un
Designer che pretende di sapere meglio di noi quale esperienza d'uso
desideriamo.
Con Internet delle Cose il peso del progetto si aggrava oltremisura:
questi oggetti restano sotto il controllo del Designer anche in ogni
istante del loro uso. In ogni istante il Disegnatore potrà decidere
come impedire usi che ritiene aberranti; o potrà anche dichiarare
obsoleta la cosa, distruggendola.
E' in gioco la libertà dell'uomo-Robinson. Possiamo prendere ad
esempio il Web: è un mondo co- creato da esseri umani, disordinato,
complesso, confuso, e secondo alcuni anche pericoloso. Il Designer ci
parla ogni giorno di questi pericoli e di questo disordine, cercando
di convincerci i vantaggio di un mondo disegnato, e quindi ordinato,
sicuro e semplice.
Norman tra i primi auspicò i vantaggi del nascondere all'essere
umano il complesso funzionamento del computer: non devi
preoccupartene, pensa solo a quello che vuoi fare. Ma questo
nascondimento si rivela come enorme rischio sociale e politico. Per
l'essere umano ridotto a utente il computer, effettivamente, "is
invisible, hidden beneath the surface". Non gli resta che
muoversi negli spazi previsti dal Disegnatore - lui sì eletto
detentore dei divina utensilia che
permettono, a diversi livelli, di programmare la macchina fino a
definire gli spazi di libertà nei quali è confinato l'utente.
Il Design dell'Experience finisce quindi per essere l'elemento
cardine dell'edificazione stessa dell'OnLife, nuovo mondo dove
scompaiono i confini tra il reale e il virtuale e i confini tra uomo,
macchina, e natura. Non a caso Norman sostiene che "the System
Image plays the key role". System Image: l'immagine del sistema
che il progettista si propone di far apparire agli occhi
dell'utente.
L'icona nascondeva al fedele bizantino il mistero dell'altare.
L'icona sullo schermo -esemplare manifestazione storica dell'abilità
del Designer dell'User Experience- nasconde a noi esseri umani
ridotti a utenti il misterioso funzionamento della macchina-mondo
chiamata computer.
Riappare così in una luce preoccupante, quasi sinistra, la frase di
Norman: "True user experience goes far beyond giving customers
what they say they want". La vera User Experience va ben al di
là dal dare ai customer quello che dicono di volere.
Ridotto a customer e user l'essere umano dovrà subire il progetto.
L'intento della Propaganda e dell'Advertising, sia in ambito di
business che in ambito politico, avevano la stessa pretesa. Ma
l'essere umano viveva nel proprio mondo -un mondo solo parzialmente
progettato; un mondo dove il progettista era assente- e poteva
disattendere le altrui pretese. Adesso, se l'essere umano vive
nell'OnLife, vive in un mondo progettato. Progettato anche per
evitare che l'uomo disattenda le aspettative del Designer.
Sono da guardare con sospetto tutti gli approcci che comportano il
tentativo di 'far prendere coscienza agli altri’ di qualcosa,
pretendendo di sapere meglio di loro stessi cosa sia meglio per loro.
E' la pretesa, anche, dei Dittatori che in cuor loro pensano di
governare per il bene del popolo. E' la pretesa del Grande
Inquisitore di Dostoevskji. E' la minaccia che vediamo narrata in
romanzi come Il mondo nuovo di Huxley, 1984 di Orwell,
Noi di Zamjatin. La tecnologia che in quei romanzi si
immaginava è oggi disponibile. Il Design della User Experience è un
passo in quella direzione.
E siccome si sa che, nella visione del management, ogni aspetto
importante del business deve essere affidato alla cura di un manager
'C level', un Chief, ecco, accanto al CEO: Chief Executive Officer,
accanto al CFO Chief Financial Officer, accanto al CIO Chief
Information Officer, e via dicendo, ecco comparire accanto a queste
figure il CXO: Chief Experience Officer, "an executive
responsible for the overall experience" implicita in ogni
prodotto o servizio.
Ed ecco anche che, sull'onda dell'User Experience Designer, o User
Experience Architect, si vanno definendo
figure professionali sempre più precise. Non solo, genericamente,
progettisti dell'esperienza, ma anche progettisti delle conversazioni
e le pratiche sociali.
Ciò che inquieta non è in sé la pretesa di imporre. Ciò che
inquieta è la pretesa di imporre accoppiata ad una crescente
impossibilità di evitare l'imposizione. Come in Truman Show
il Designer ci sorveglia e ci impedisce di uscire dal disegno.
Possiamo fidarci dell'etica e della responsabilità sociale dei
Designer? Possiamo credere che la loro formazione universitaria e
professionale garantisca loro ampiezza di vedute, sottigliezza,
saggezza, senso della misura?
Possiamo puntare su più seria formazione dei Designer. Ma forse la
via politica da perseguire è diversa, anzi opposta. Ignorare i
Designer. Non dar loro corda. Smettere di attribuir loro importanza
solo perché possiedono divina utensilia a noi negata.
Possiamo prepararci a fare miglior uso dell'humana utensilia
di cui disponiamo. Possiamo cercare una educazione diffusa: conoscere
la macchina per saperla usare. Possiamo perseguire la via della
sistematica violazione delle regole imposte al nostro agire dai
Designer. Possiamo trascurare istruzioni per l'uso e insistere nel
cercare di far fare alla macchina quello che vogliamo.
Sì, è vero, viviamo già forse nell'OnLife, nell'Infosfera, in un
mondo dove tendono a scomparire i confini tra il reale e il virtuale
ed i confini tra uomo, macchina, e natura. Ma niente può vietarci di
coltivare, anche in questo contesto, la nostra umanità.
Il libero accesso garantito alle conoscenze garantito dal Web viene
condizionato e ridotto tramite il disegno: per esempio attraverso
l'invito ad accedere al Web tramite una app - che sceglie per noi a
quali conoscenze attingere, e il modo di attingervi, e il quando
attingervi. Ma il Web ormai esiste e non può essere oscurato da
nessun Designer.
La libertà garantita dai software che usiamo quotidianamente viene
progressivamente erosa - ma possiamo scegliere di non aggiornare il
software. Possiamo scegliere di usare macchine vecchie che si
adattino a noi come confortevoli scarpe vecchie.
L'inevitabile imperfezione di ogni progetto permette rovesciamenti di
senso e usi imprevisti dal Designer. Occupiamo questi spazi. Le
stesse macchine che usiamo, alla fin fine, possono comunque, in
qualche misura, essere usate in modo che il Designer riterrà
aberrante - ma che a noi piace e torna conveniente.
Possiamo cercare di emanciparci dal ruolo di utenti, tornando ad
essere umani.
Queste
riflessioni costituiscono un primo assaggio dei temi che tratterò
nel secondo volume del mio Trattato di Informatica Umanistica. (Primo
volume: Macchine per pensare.
L'informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi,
Guerini e Associati, 2016).
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