Newton era allo stesso tempo
scienziato, alchimista e teologo. Non credo che questa singolare
pluralità infici i risultati del suo lavoro di scienziato. Newton
sapeva convivere con il suo essere ibrido.
La compresenza, nella mente del
pensatore e nella vita del pensatore, di diversi approcci alla
conoscenza, non limita l’accesso alla conoscenza, anzi la facilita,
tenendo lontano il pensatore da ogni fondamentalismo. L’essere
umano pensante che si muove in, tra molteplici discipline è spinto
ed esplorare i propri limiti, ad evitare l’autocensura. Possiamo
anche dire: l’essere umano pensante pone così se stesso nelle
condizioni di convivere con i propri fantasmi. Con le proprie paure e
i propri dubbi e le proprie contraddizioni.
Dobbiamo dubitare invece di coloro che
non sanno convivere con la pluralità , con l’ibrido e l’ambiguo.
Latino hybrida: bastardo. Abbiamo forse timore di essere
bastardi? Meticci? Figli illegittimi o senza padre o senza madre?
La matematica è innocenza: non c’è
colpa nella matematica, la matematica mostra una sincerità
disarmante, la matematica indica la via verso la purezza e la
limpidezza. Ma proprio per questo la matematica, proprio per questa
sua predisposizione a separare la res cogitans dalla res extensa, la
mente dal corpo, proprio per questa sua purezza, usabile come fuga da
ogni impurezza, proprio per questo la matematica finisce per essere
la metafora -‘veicolo’- per conoscere il mondo necessario per chi
cerca di tener lontana da sé il proprio essere ibrido, la propria
ambiguità, il proprio terribile inconscio.
Dobbiamo quindi dubitare di coloro che
usano la matematica -strumento adattissimo allo scopo- per cercare
chiavi descrittive del mondo prive di ogni ogni ambiguità, mondate
da ogni impurezza. Dobbiamo dubitare di chi cerca tramite la
matematica un sistema di regole indefettibile, superiore ad ogni
debolezza ed incertezza umana. Non è in gioco qui il ‘come è
fatto il mondo in sé’. Qui è in gioco il ‘come io, soggetto
pensante, sono in grado di osservare e descrivere il mondo’.
Questo bisogno di matematica, quando la
matematica con Gödel critica se stessa, rinasce come bisogno di
informatica. E’ questo il passaggio compiuto da Alan Turing.
Passaggio che porta direttamente a sostituire l’uomo che pensa con
una macchina - priva dei difetti che lo stesso costruttore di
macchina riconosce in se stesso. Passaggio che porta anche a
immaginare il mondo come macchina – macchina lontanissima
dall’uomo. Rispetto alla macchina-mondo l’uomo è entità
minuscola e irrilevante.
Proprio qui Walter Pitts si oppone a
Turing. Pitts usa la matematica come linguaggio sempre connesso alla
sfera affettiva: ‘traduce’ in forma matematica il pensiero degli
amici, e dei padri. Usa la matematica come linguaggio bastardo,
corsivo, per ri-narrare e perpetuare ciò che pensano gli amici e i
padri.
La matematica strumento di difesa dal
mondo è rovesciato nel suo opposto. E’ trasformata dal solitario e
diverso Walter in strumento per descrivere il mondo, inteso nella sua
ambiguità e complessità. Accettato nella sua assenza di fondamenti.
All’opposto di Newton, scienziati e
filosofi di oggi, dei giorni in cui scrivo: Dawkins e Dennet, si
mostrano incapaci di convivere con i propri fantasmi. Finendo non a
caso col considerare se stessi robot, e l’universo una macchina, un
computer che perpetua l’esecuzione di un algoritmo. Comodo pensare
che Darwin offre la via d’uscita al confrontarsi con la
complessità. l’incertezza, l’assenza di fondamenti e
l’inconscio. Comodo pensare che, in accordo con Darwin, la natura è
un processo mindless, meccanico, regolato da un algoritmo che
trascende l’uomo. Mindless: se temo la mia stessa mente, mi
è conveniente nascondermi dietro la scienza, anzi la Scienza.
Affermando per via scientifica che la mia povera mente è
irrilevante.
E’ così difficile assumersi la
responsabilità di essere umano che ‘esiste’? Essere umano che
non si limita ad essere, ma si interroga sul ‘cosa ci faccio qui’,
sul come influisco sul mondo-che-ho-intorno. Molto meglio appellarsi
a Darwin, ed affermare per via di legge scientifica che l’uomo non
conta nulla nella scenario dell’evoluzione. Cosa c’è di meglio,
per allontanare da sé ogni dilemma etico, ogni carico legato
all’ermeneutica -l’arte di interpretare i segni-, cosa c’è di
meglio che affermare l’inesistenza dell’uomo. L’uomo, infatti,
per Dawkins e Dennet, non esiste. Non è che un ospite irresponsabile
e innocente di geni egoisti. No conta nulla la vita umana. L’essere
umano non è che un accidentale costrutto. Conta solo la vita dei
geni.
Comodo sostenere, come fa Dennett, che
essendo la vita un algoritmo, anche la morale sia un algoritmo.
Comodo aggiungere che è opportuno non coltivare troppe speranze
nell’umana capacità di scoprire l’algoritmo che porti a ‘fare
le cose giuste’. Si tratta, nelle migliore delle ipotesi, di
scoprire una ‘legge di natura’, e di adattarvisi.
Penso ed ora scrivo da una posizione
umana. Sono un essere umano. Per l’essere umano laicità e libertà
stanno nell’accettare stili di vita e di pensiero diversi, sta
nell’accettare di essere al contempo teologi e alchimisti e
scienziati. Sta nell’accettare la presenza di culture diverse. Sta
nell’accettare la compresenza, nello stesso luogo dove vivo, di
esseri umani differenti da me per razza e per storia, per bisogni e
per sono. Dalla mia posizione di essere umano cerco quindi di
immaginare macchine in grado di aiutarmi ad essere più umano.
Facile al contrario affermare,
trasformando alla fin fine Darwin in Garante dell’Alibi, che il
punto di vista umano non conta nel gran disegno della natura. Facile
dire che anche la cultura e la storia, che gli uomini credono proprio
costrutto, frutto del proprio lavoro, non sono altro che
manifestazione delle intenzioni e dell’agire dei geni egoisti.
Facile in fondo, dal punto di vista
umano, costruire la propria carriera di scienziati sull’assenza di
responsabilità dell’uomo, e quindi dello stesso scienziato.
Facile anche provare soddisfazione
nell’affermare: ‘io sono un robot’, l’universo è un
omincomprensiva macchina, un computer che esegue algoritmi contro i
quali nulla posso. Facile e comodo, dal punto di vista umano,
affermare che non si tratta di una scappatoia che scelgo per me, ma
di una legge universale. Facile evitare così, lo ripeto, evitare di
confrontarsi con i propri fantasmi e il proprio inconscio.
Siccome c’è spazio per tutti nel
mondo, e ci sono certo sotto il cielo cose
Il punto chiave, il luogo del pensiero
dove Dawkins e Dennet, e altri come loro, svelano la meschinità
della propria posizione, è il loro fondamentalismo. Il loro bisogno
di assoluto ateismo.
Newton accettava se stesso accettando
la compresenza di modi diversi di essere. Le leggi scientifiche che
Newton porta alla luce convivono con ricerche alchemiche e con
speculazioni teologiche. Newton resta lontano da ogni
fondamentalismo. Dawkins e Dennet sono invece i portabandiera di un
irrinunciabile fondamentalismo. La posizione darwiniana potrebbe
essere sostenuta senza assolutismi. Ma Dawkins e Dennet hanno bisogno
invece di un Unico Assoluto. Nessuno lo chiedeva loro, non ce n’è
bisogno logico, non ce n’è esigenza razionale. Eppure loro legano
indissolubilmente la posizione scientifica darwiniana all’ateismo.
Non c’è laicità qui. C’è sussunzione alla norma. Non c’è
osservazione di un algoritmo in base al quale funziona la natura. C’è
bisogno di un algoritmo, una superiore indiscutibile e comunque
efficace legge che esima dall’umana responsabilità del dubitare e
dello scegliere.
In superficie, l’ateismo potrebbe
apparire come libertà rispetto a un Dio che determina il mondo. Ma
l’ateismo indissolubilmente legato al darwinismo, all’affermazione
di una superiore legge che determina il mondo, è peggio di una fede
in un Dio. E’ la sussunzione ad una religione. Ad una regola
deresponsabilizzante.
Osservando la campagna in pro
dell’ateismo condotta da Dawkins e Dennet, ed altri come loro, si
ha sotto gli occhi un atteggiamento identico a quello di altri
fondamentalismi: le argomentazioni -apodittiche, assiomatiche- di
Dawkins e Dennet in pro dell’ateismo sono del tutto analoghe a
quelle delle loro bestie nere, i creazionisti. Non c’è differenza
tra le due posizioni. Dire che tutto dipende da inconoscibili scelte
di Dio, o da inconoscibili scelte del gene egoista, è dire la stessa
cosa. In entrambi i casi l’uomo si chiama fuori.
Abbiamo motivo di ritenere che per
Turing fosse molto difficile accettare la propria differenza. La
propria omosessualità. E che quindi proiettasse questa difficoltà
nell’immaginare un mondo dove i confini fossero netti, di qua o di
la, uomo o donna, bianco o nero, interruttore aperto o interruttore
chiuso, stato a o stato b. Possiamo supporre che questa esigenza
abbia contribuito a portare Turing ad immaginare una macchina
siffatta: una macchina per discriminare in modo netto gli stati del
mondo. Una macchina funzionante in base a un algoritmo, un algoritmo
indefettibile, privo delle umane debolezze.
Newton aveva in mente l’orologio: la
macchina che, ai suoi tempi, più si avvicinava a rappresentare, per
analogia, la complessità della vita. La cibernetica, in fondo, si
collega direttamente alla fisica newtoniana, la supera senza
discontinuità. Intorno alla metà del Ventesimo Secolo l’immagine
dell’orologio appare ormai vecchia. Alla singola immagine
dell’orologio si sostituiscono una pluralità di immagini: sono
‘macchine cibernetiche’ sia l’organismo vivente - anche lo
stesso essere umano, sia il computer, macchina nuova che appare sulla
scena in quegli anni. In ogni caso la cibernetica, stando alla stessa
radice greca dell’espressione, ci parla di ‘governo del mondo’.
Nelle Macy Conferences si parla di autoregolazione dei sistemi, ma
anche di governo, di possibile ruolo attivo, spazio per l’uomo.
McCulloch e Wiener si interrogano, dubitano e coltivano la
multidisciplinarità.
Dawkins e Dennet tornano indietro.
Tornano alla Scolastica. Un solo rassicurante e totalizzante sapere.
Possiamo riconoscere in differenti
pensatori evoluzione del pensiero, l’accettazione del dubbio, con
il conseguente faticoso abbandono di una posizione fondamentalista:
questa è, per vie diverse, ma in fondo convergenti, l’esperienza
di Frege e di Russel, di Wittgenstein, dello stesso Putnam.
Dawkins e Dennet no. Dennet, filosofo,
sembra dubitare. Le svolte del suo pensiero sono anche affascinanti,
per questo ci delude più di Dawkins, puro scienziato. Dennet ci
delude perché torna sempre lì. Al suo bisogno di Legge Universale.
Alla necessità di un ateismo dogmatico.
Ci parla con accattivante vis polemica
di coloro che cercano spiegazioni attraverso skyhooks,
ganci per salire in cielo. In quanto esseri umani capaci di
ermeneutica, capaci di leggere tra le righe, possiamo cogliere nella
sua critica di coloro che cercano skyhooks
un disperato bisogno. L’ateismo, il concepire il mondo come
l’esecuzione di un algoritmo sono skyhooks.
Dennet, comprensibilmente, bisognoso di fondamenti, propone come
alternativa agli skyhooks
i cranes, solide gru
ben piantate per terra. Sostiene, giustamente, che non conviene
cercare miracoli, serve piuttosto un intelligent design.
Ma la posizione è invalidata dalla preconcetta affermazione
dell’impossibilità, per l’uomo, di un intelligent
design diverso dal comprendere,
adeguandovisi, ciò che è già definito dall’algoritmo
dell’evoluzione.
Secondo
Dennet l’uomo non può muoversi se non on the ground of
physical science. Ovvero dentro
una macchina che esegue un algoritmo ignoto all’uomo e
immodificabile per l’uomo.
Ciò
che deve importarci di Daniel Dennet non sono i suoi ammonimenti
all’umanità. Non dobbiamo lasciarci abbagliare dalla sua
autorevole barba. Non siamo tenuti a badare alla insistente campagna
in pro dell’ateismo, sua e dei suoi compari. Il loro considerarsi
emarginati per le proprie posizioni atee fa parte di uno spettacolo
al quale non siamo obbligati a partecipare. Certo, gli omosessuali
seppero liberarsi da definizioni vili autonominandosi gay. Ed ora
Dennet e sodali ci chiedono di di essere chiamati bright.
Roba di poco conto.
Ciò
che ci può importare non sono le pubbliche esibizioni durante le
quali si dichiara un robot, nient’altro che un ospite di geni
egoisti. Ciò che ci può importare sono i suoi tentativi di Dennet
vivere la propria umanità. Viverla senza fondamenti. Senza dogmi.
Il
vecchio Böhme, parlandoci di Ungrund,
ci indica la strada.
Per
Böhme né la presenza, né l’assenza di Dio sono già date. Non
c’è bisogno di dichiararsi atei. Il ground of physical science non
è l’unica risposta ai bisogni umani. L’uomo vive in uno spazio
di possibilità.
Dennet
non si limita a dire ‘non ce la faccio’. Ha bisogno di affermare
che l’uomo non ce la può fare. Così, ciò che è probabilmente
vero per la persona Daniel Dennet -il bisogno di una norma a cui
attenersi- è proposto come verità e come vincolo universale. La
scienza avrà pure le sue leggi dimostrate, leggi che travalicano la
pochezza umana. L’uomo esiste comunque. La filosofia, e in senso
più lato l’umana esperienza, l’arte e la letteratura, ci
mostrano una porta che Dennet non vuole aprire, non sa aprire, non
accetta di aprire: il vivere senza fondamenti, il vivere consapevoli
dell’Ungrund.
Forse,
accompagnato da macchine amichevoli, l’uomo ce la può fare.
Vivere, per esempio, formulando oscure congetture e trovando nel Web
la possibile risposta.
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