Il rumore di un aeroplano è puro inquinamento acustico. Tanto che si investono considerevoli risorse per azzerare non tanto l'esistenza del rumore, ma la sua percezione da parte dell'orecchio umano (in particolare per gli aereombili più rumorosi, che sono quelli dotati di motori a turboelica). Approfonditi studi hanno dimostrato infatti che rilevando con acconci apparati il rumore, e producendo via software un rumore uguale e contrario, la qualità della vita del viaggiatore migliora notevolmente.
Il rumore di fondo disturba l'ascolto della musica. Tanto che ogni impianto hi fi è dotato di filtri destinati ad abbattere il rumore, migliorando così la qualità dell'ascolto.
Il rumore, nella percezione comune e diffusa, è forse il più evidente segnale dell'assurdità del vivere 'moderno'. Le metropoli si differenziano dai piccoli centri e dalla campagna innanzitutto per il rumore. Il suono delle campane è –appunto– un suono; mentre il rumore del traffico è –appunto– un rumore. Era così già nel secolo scorso: la Londra di Dickens era dirty, colma di fraastuono, inquinata. Le cose non sono di certo migliorate.
Il rumore ci appare come il nemico da combattere. Intendiamo il rumore come spreco di risorse. Ciò appare particolarmente evidente nel campo della gestione della conoscenza. Luogo comune vuole che il principale indicatore del valore di una base dati sia costituito dalla bassa incidenza del rumore. Eppure proprio in questo contesto il ragionamento ci si presenta rovesciato.
Ciò che ci appare rumore, in realtà, è energia, è conoscenza che non sappiamo utilizzare. E' risorsa che ci appare sprecata perché non disponiamo di strumenti che ci permettano di utilizzarla.
Ogni riflessione sulle organizzazioni, così come ogni ragionamento relativo ai sistemi informativi si preoccupa infatti innanzitutto di separare i dati 'buoni' da quelli 'cattivi'. Separare così i dati accettati come informazione, utile fonte di conoscenza, dai dati scartati come inutile, parassitaria occupazione di memoria.
Ma in base a quale criterio si distingue il dato buono da quello cattivo, l'informazione dal rumore? A ben guardare, la distinzione si fonda su un unico, criticabile criterio: la nostra conoscenza del codice.
Secondo la legge nota come "effetto Tomatis" riusciamo ad ascoltare solo i suoni che siamo in grado di pronunciare. I restanti suoni sono per noi -appunto- nient'altro che rumore.
Allo stesso modo di come consideriamo immondizia i materiali dei quali non sappiamo sfruttare la (residua, ma sempre presente) ricchezza, scartiamo come rumore l'informazione che non sappiamo, o vogliamo leggere.
Così ci abituiamo al rumore di fondo del televisore acceso; e percepiamo come rumore la voce di chi non vogliamo ascoltare. Così l'inquinamento cresce perché non siamo in grado di produrre beni utili senza produrre materiali di scarto.
E così, implementano di sistemi informativi aziendali, non siamo in grado di produrre informazioni 'pulite' senza produrre rumore: ad ogni dato allocato sull'host o sul server corrisponde una proliferazione di copie minimamente variate conservate dagli utenti sui propri personal computer; ad ogni tabella che incrocia i dati in un modo, si accompagnano enne altre tabelle che incrociano i dati in un diverso modo. Più il modello dei dati è rigido, tendente ad escludere dati 'spurii', più i dati spurii si accumulano lì dove si trova uno spazio che può essere occupato; lì dove il controllo è più basso. Così -caso esemplare- se nel modello dei dati di un Data Base lì si accumuleranno materiali eterocliti, imprecisi, sporchi – ma forse per questo, diciamolo, ricchissimi.
Non a caso spurio, parola etrusca, sta per 'barbaro'. Il barbaro è visto come tale da chi non sa leggere il presente che come prosecuzione del passato.
A ben guardare la distinzione tra dato 'buono' e rumore, infatti, rimanda a una immagine semplificata e difensiva, dove la realtà è letta attraverso le procedure, e gli indicatori degli andamenti appaiono come auto-conferme di rassicuranti interpretazioni già date.
Imparare a cogliere conoscenza lì dove oggi riusciamo a percepire solo rumore appare così la via per conoscere veramente le organizzazioni.
All'interno di ogni organizzazione possiamo osservare comportamenti 'sotterranei' che non conosciamo - azioni 'spontanee' di fornitori e clienti, tecnici impiegati e operai che è facile considerare inesistenti solo perché si allontanano dalle procedure - ma che invece esistono, e contribuiscono all'equilibrio generale del sistema. Leggere il rumore significa lavorare per comprendere in cosa consista questo contributo. Significa cavalcare le dinamiche del sistema anziché tentare di controllarlo con regole e principi.
Significa accettare come fonte ogni porzione di codice. Significa accettare che in linea di principio il rumore non esiste e che la conoscenza è di fatto costituita dalla sovrapposizione di codici, frammenti e spezzoni di linguaggio non correlati tra loro. Significa lasciare che codici, frammenti e spezzoni di linguaggio cozzino l'uno contro l'altro. Significa saper vedere i significati e le risonanze prodotti da questo caos.
Perché si sa che nel caos si nasconde un ordine - ma un ordine che risponde a leggi proprie, un ordine che potremmo conoscere, e che però che tendiamo a rifiutare, perché è a propri sconosciuto e soggettivamente incontrollabile.
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