Questo testo è apparso, in diverse varianti in blog, su Bloom! , sulla rivista Persone & Conoscenze. Su Bloom! trovate note che qui ometto.
I romanzi sono piacevoli avvicinamenti alla conoscenza. Ma sono interessanti per noi anche in quanto sistemi che connettono, reti. Ragionando attorno ai romanzi, per esempio, costruiamo esperienza utile per implementare, in azienda, sistemi di Knowledge Management.
Non riflettiamo abbastanza, forse, su come siamo condizionati, nei nostri processi di organizzazione della conoscenza, dalla forma-libro: una organizzazione sequenziale, un sistema chiuso.
Il bello è che la stessa letteratura che giunge a noi chiusa nella forma-libro, ci mostra un altro mondo, un'altra possibilità.
Alti castelli e fuochi pallidi
Ci sono romanzi che si offrono a noi come cucina aperta, stanza dei giochi, scatola di montaggio. Questi romanzi sono venuti a noi nella forma tradizionale: il libro, un insieme di pagine rilegate in una sequenza univoca. Ma traggono vantaggio dall’essere letti, o ri–letti, attraverso una ‘macchina per leggere’, un computer. E possiamo anche pensare che se l’autore, nello scrivere avesse avuto a disposizione una ‘macchina per scrivere’ meno banale della tradizionale macchina per scrivere, e cioè avesse avuto a disposizione un computer, avrebbe sviluppato in modo più ricco ed articolato la forma di ‘testo aperto’ – forma che è comunque potentemente presente.
Come lavora l’autore scrivendo la sua opera, se coglie l’essenza di questo momento? Il romanzo è una rappresentazione del mondo. Ma non di un mondo inteso come sistema totalitario, incombente. E’ un coacervo di difficoltà e di contraddizioni, ma non è un incubo che sovrasta il soggetto. Il soggetto, in quanto autore e in quanto protagonista dell’opera può, sia pure a prezzo di sforzi e rischi, determinare il corso degli eventi. Può, infine, giocare con i mondi, intendendoli come mondi possibili. Mondi consapevolmente costruiti, decostruiti e ricostruiti dall’autore, mondi dominati da un personaggio-uomo capace di dominare la scena.
Ma qualche autore va oltre. Mette in mostra, dentro il romanzo stesso, la macchina per costruire mondi. E coinvolge nel gioco il lettore. E’ un gioco, appunto, ma un gioco che non vuole nascondere né sminuire la propria portata etica e politica. I mondi, viene detto possono essere creati, in virtù di scelte e di progetti e di un acconcio uso della tecnologia. Spostando lievemente l’ottica, potremmo anche dire: i mondi sono osservati nel momento del loro farsi, nella loro genesi. Uscita dalla crisi; caos primigenio.
Pensiamo a Philip Dick, che mentre scrive The Man in the High Castle non sa nulla del libro che sta scrivendo, non vuole saperlo, e si lascia guidare, in totale abbandono, manipolando quarantanove steli di millefoglie, o lanciano tre monete. L’I Ching, se può dare senso al mondo, a maggior motivo potrà dare senso a un romanzo. L’oracolo si appropria della mente dell’autore, il senso dell’opera emerge durante il suo farsi, meravigliando lo stesso autore e restando a lui in larga misura oscura, bisognosa di esegesi. (Dick passerà anni a scrivere commenti delle opere che aveva scritto come in transe, come vittima di una possessione).
Pensiamo a Nabokov, quando scrive Pale Fire. Due testi che si sostengono e si rimandano l’un l’altro: una ermetica opera poetica, in apparenza insensata, una opera che possiamo immaginare chiusa al suo stesso autore; e uno sterminato e divagante commento. E l’opera cresce nel rimbalzo tra questi due testi, la chiusura della lirica spinge all’interpretazione, e allo stesso tempo giustifica qualsiasi interpretazione
Pensiamo a Pérec, che nella Vie, mode d’emploi, monta (o lascia crescere) il romanzo attorno a due metafore. La casa, un condominio esplicitato in ogni dettaglio architettonico, il luogo narrativo che stimola a pensare personaggi - gli abitatori di queste stanze. E il puzzle, il quadro narrativo che può essere immaginato come totalità, e poi costruito via via a partire da frammenti. E il romanzo si fa lentamente, nel corso degli anni, in virtù di un lavoro minuzioso di visitazione di ogni stanza del condominio, ma avrebbe anche potuto restare senza perdite incompleto: il suo valore sta nel progetto, nel modello costruttivo. Il puzzle, scoperto, intravisto il disegno sotteso, può essere lasciato a metà, o consapevolmente distrutto (come accade nel romanzo).
The Man in the High Castle, Pale Fire, Vie, mode d’emploi: possiamo dunque fissare qualche punto fermo.
L’autore mette in scena la cucina, o meglio la stanza dei giochi. La strategia che presiede alla costruzione dell’opera è esplicitata. I personaggi, gli snodi narrativi, gli sfondi, insomma la scatola degli attrezzi usata per costruire il romanzo è resa disponibile al lettore.
L’autore mostra come si svolge il suo lavoro (si mostra a noi in azione). Infatti, in ognuno dei romanzi vediamo in azione, tra i personaggi, uno o più scrittori. Il costruttore delle storie è interno al testo, è uno dei ruoli messi in scena. Ci viene mostrato l’autore al lavoro. Abbiamo in mano un romanzo, ma anche, se vogliamo, un manuale, non a caso ‘istruzioni per l’uso’: come usare gli attrezzi della scatola, come costruire storie.
L’autore ci stimola a tentare il suo stesso gioco. Il romanzo gira su se stesso, non ha un inizio e una fine. Il romanzo, per esistere, richiede il nostro contributo. Il romanzo non è dato. E’ solo prospettato. E’ una rete di possibili, infiniti percorsi. Sarà, per ogni lettore ed in ogni diversa occasione, solo uno degli enne romanzi possibili.
Non sembri peregrino un parallelo: questi romanzi sono ‘ipertesti’, e prefigurano e preparano l’avvento del computer game. Leggendo The Man in the High Castle, Pale Fire, Vie, mode d’emploi, come interagendo con un computer game, contribuiamo a definire il contesto, a forgiare il carattere dei personaggi. E poi muoviamo i personaggi. Concatenando gli eventi. Costruendo percorsi. Misurandoci con livelli diversi, sempre più alti di difficoltà.
Ora, seguiamo un passo più in là la metafora del computer game. I migliori computer game sono ‘sistemi esperti’, scatole che se adeguatamene usate generano nuovi attrezzi, portando la costruzione del mondo ben oltre quel mondo che l’autore aveva saputo o voluto immaginare.
Il computer game è veramente buono se permette di costruire mondi che sfuggono totalmente al controllo del progettista.
E finalmente Cortázar e la sua Rayeula
Possiamo dunque immaginare come viene a noi Rayuela, il romanzo dello scrittore argentino Julio Cortázar. Il romanzo che, meglio di ogni altro, mi sembra rispondere al modello emergente di romanzo–ipertesto, iper-romanzo: il romanzo che guadagna ad essere scritto (o riscritto) con un computer, il romanzo che guadagna ad essere letto (o riletto) con un computer.
Cortázar, definita una prima traccia di personaggi (Oliveira, Traveler, la Maga, Talita, i membri del Club de la Serpiente) e di trama (il lado de acá, il lado de allá, l'otro lado), scrive liberamente senza costrizioni sequenziali. Procedendo per associazioni libere, ‘per accumulazione’, per appunti sparsi. Con la consapevolezza che per vie più o meno evidenti il frutto della scrittura ha un senso nella costruzione del romanzo.
Cortázar si trova di fronte, in ordine causale, ciò che è potenzialmente, ciò che sarà Rayuela. A partire da questo materiale sin armar deve dare forma al romanzo. Ora l’autore ha a disposizione, immaginiamo, una massa di appunti. L’ordine apparente, il fatto che gli appunti siano scritti in sequenza in un quaderno, un brogliaccio, deve essere vissuto come insignificante, o anzi fuorviante. Il contenuto c’è, ma è una galassia senza forma, senza confini, senza inizio e senza fine. Ora, in qualche modo, deve essere distribuito, organizzato, strutturato.
Cortázar copia a macchina gli appunti. Il testo,a questo punto, si manifesta come un insieme di ‘capitoli’ -storie, scene o riflessioni- dotati di una loro coerenza interna, ognuno occupante un certo numero di pagine.
Cortázar sa che la disposizione degli elementi è relativa, opinabile, non necessaria. Ma sta scrivendo un libro, e cioè lavorando alla produzione di un oggetto costituito da pagine disposte in sequenza. Si pone allora il problema di accorpare i capitoli in nuclei omogenei.
Cortázar, avendo di fronte, e in mente, queste piccole pile di fogli che sono la manifestazione fisica dei ‘capitoli’, procede per tentativi, per prove, guidato dal caso e dall’intuito e dai pensieri del momento. Come mescolando e rimescolando un mazzo di carte. Senza trovare una soluzione soddisfacente, perché i criteri attorno ai quali organizzare l’ordinamento sono molti, contradditori tra di loro, e nessuno è risolutivo. In ogni caso, la forma, la sequenza di pagine rilegate, che avrà il libro al termine del suo ciclo di produzione è solo una delle enne possibili. (Ci ricorda Ortega: “Ogni inizio di capitolo è pieno di numeri, cancellature, note”).
Cortázar, allora, elimina il vincolo. Smette di pensare alla forma libro. Perciò ora, avendo di fronte le pile sparse di fogli che sono i capitoli, può ordinarli lasciandosi più liberamente guidare dal caso, e dall’intuito e dai pensieri del momento.
Il migliore degli autori possibili, in questa accezione, è l’autore che rinuncia ad essere tale. Che non si preoccupa di prefigurare e di chiudere, di vincolare a percorsi di lettura. E se la gioca invece nell’aprire piste, nel creare possibilità, nell’accettare che nessun testo potrà mai essere concluso.
La stanza dei giochi sarà veramente attraente se vi si potranno giocare giochi che il genitore considera indebiti o pericolosi.
Diciamo dunque grazie a Cortázar per aver lasciato aperta, consapevolmente o no non importa, anche questa pista di lettura.
Il nuovo romanzo: costruito come una base dati destrutturata, o più modestamente un baule, contenente materiali giudicati dall'autore omogenei, tutti funzionali a produrre un ‘effetto estetico’, un fascio di emozioni. Il romanzo come galassia senza forma.
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