venerdì 18 aprile 2025

A proposito di 'Macchinocentrismo'. Suggestioni storico culturali e situazione presente

 Dante

Possiamo leggere la cultura digitale alla luce della storia, invece di rileggere -come accade troppo di frequente- la storia alla luce della cultura digitale.
Ecco un esempio. Leggiamo l'esordio del Canto XI del Paradiso (1-3):

O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Cosa sono i sillogismi: sono il principale strumento degli studiosi di logica nel medioevo. Guardare alla posizione dei termini in una proposizione, senza occuparsi del loro valore di verità. Rendere conto delle diverse funzioni che le parole possono svolgere quando compaiono come termini in una proposizione.
Bastano questi brevissimi accenni per dire che è possibile stabilire una analogia tra i sillogismi della logica medievale e la codifica digitale. In particolare, ai sillogismi della cultura medievale corrispondono gli algoritmi della cultura digitale.

Cosa ci dice Dante? Non ci dice certo di rifiutare la cultura tecnico-scientifica-filosofica del tempo. Dante viveva immerso in questa cultura e la conosceva benissimo. Ma ci ricorda che il pur acuminato strumento tecnico, creato per avvicinarci alla conoscenza, è 'difettivo'. Il ragionamento basato sul sillogismo resta inevitabilmente imperfetto. I sillogismi finiscono per ingabbiare il nostro pensiero, gli impediscono di volare.
Altrettanto possiamo dire oggi degli algoritmi.

Ma ciò che più ci interessa è il fatto che Dante non si limita ad una critica, ma ci offre l'indicazione di un possibile percorso umano di elevazione, oltre i limiti rigorosi di una logica che finisce per essere una gabbia.
Leggiamo dunque il Canto XXIV del Purgatorio (52-54):

(...) "I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando".

Importante notare che Dante parla di sé, del suo personale tentativo di trovare una strada - oltre il pensiero consueto, oltre la filosofia consolidata, oltre lo spirito del tempo. Noi scolasticamente conosciamo il nuovo pensiero che Dante propone 'Stil Novo'. Ma non si tratta certo solo di letteratura: è la risposta culturale alla chiusura logico-formale del sillogismo.
Dunque una guida per noi, per guardare oltre la chiusura logico-formale dell'algoritmo.
Dice Dante: io sono uno che, quando l'Amore mi parla nel cuore, ne prendo nota, e cerco di esprimere in parole ciò che egli mi detta, esattamente nel modo in cui egli lo detta.

Cos'è questo Amore? E' la forza che emana nel 'cuore' di tutte le creature in cerca della loro perfezione. E', potremmo dire oggi, la ricerca della presenza, della consapevolezza, di un bene non solo personale ma comune.
Dante ci invita a non affidarci a sillogismi ed algoritmi.
Dante ci dice che solo in questo Amore sta la vera nobiltà umana.

Jakob Böhme

“Lo studente disse: ‘Questo luogo è vicino o lontano?’. Il maestro rispose: ‘È dentro di te. Se riuscissi a mettere a tacere ogni desiderio e pensiero per un’ora, udiresti le ineffabili parole di Dio’". Così, siamo chiamati ad abbandonare fallaci speranze di controllo, e a muoverci invece con 'gelassenheit': serenità, abbandono, calma, placidità, tranquillità.
Jakob Böhme (1575-1624), teologo, filosofo, che di lavoro faceva il ciabattino, pensatore eterodosso, mistico, visionario, ermetico, gnostico, ci propone, all'inizio del Seicento, uno sguardo che bene illumina i foschi anni che viviamo.
Le paure che bloccano l'agire umano; il timore che ci incute il disordine sociale; e, ancora, il timore oscuro del controllo di nuovi Grandi Fratelli Digitali. Tutto questo può essere letto alla luce del pensiero di Böhme.
La gran parte della filosofia - e poi la breve storia del computing, prosecuzione della filosofia con altri mezzi, possono essere intese come tentativo di costruire solide e indefettibili strutture, ben fondate, dove ogni livello di pensiero si spiega razionalmente attraverso livelli di pensiero già consolidati.
Böhme ci invita invece a vivere nella scena primaria, lì dove nasce il pensiero.
“Non possiamo afferrare ciò”. Afferrare è traduzione approssimativa di
'begreifen'. 'Begriff', 'concetto', è parola chiave della filosofia tedesca, da Kant a Hegel.
Böhme ci chiama a collocarci nel momento anteriore all'affermazione di una rassicurante ragione: prima c'è il tentativo, il processo, la possibilità, l'accettazione fiduciosa dell'ignoto.
Ciò che ci appare inafferrabile, incomprensibile, è, ci insegna Böhme, l'Un-Grund. Senza-Fondo, Senza-Fondamenti. E' in potenza la fonte di ogni possibile. Genesi di conoscenza.
Böhme ci insegna a non cercare un Dio-macchina capace di governare la conoscenza con superiore efficacia. Ci insegna a non cercare nemmeno un Dio-programma capace di rispondere ad ogni domanda. Ci insegna a non provare timore di fronte al caos primigenio. Ci insegna a non avere paura di fronte all’ignoto e al non familiare. Ci insegna a non provare angoscia per il disordine che regna tra i dati.
Non c'è motivo perché l'uomo debba ridursi a macchina, né c'è motivo perché l'uomo debba appartenere ad una superiore macchina. Se proprio dovessimo ridurci ad usare, parlando di umanità, il termine macchina, dovremmo semmai dire: è una macchina-Ungrund.

Tutto in qualche modo è già stato detto e pensato - ma proprio questa è la trappola che Böhme ci invita ad evitare. Non pensare alla luce del già pensato, ma assumerci la responsabilità del pensare qui ed ora.

Immanuel Kant

Il 30 settembre 1784 Kant, risponde sulla rivista Berlinische Monatsschrift alla domanda: 'Cos'è l'Illuminismo?'. L'incipit è emozionante. "L'Aufklärung", ci dice Kant,"è l'uscita dell'essere umano dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l'incapacità di servirsi della propria 'Verstand' [intelligenza, senno, mente, ragione, animo] senza la guida di un altro". “Sapere aude!”, osa conoscere! “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.
Eppure, pessimisticamente aggiunge subito, “gli esseri umani rimangono minorenni a vita”. “È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che ha Verstand per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che sceglie per me la dieta, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da solo”. “E' dunque difficile liberarsi da una minorità divenutagli quasi natura”.

Kant mette in evidenza la stretta connessione tra l'atteggiamento passivo degli esseri umani e la presenza di Vormündern -custodi, guardiani, tutori di minorenni incapaci- “che si sono assunti con tanta benevolenza la sorveglianza sugli esseri umani” da convincerli che “il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile”, è anche “molto pericoloso”.
Così l'elogio dell'esercizio della propria intelligenza da parte di ognuno con cui si apre l'articolo, dopo pochi capoversi è rovesciato in una scettica constatazione: gli esseri umani sono “placide creature instupidite come animali domestici”, grandi masse senza cervello, incapaci di pensare.

Vediamo benissimo in queste pagine la situazione dell'essere umano nell'Era Digitale. Facili promesse di nuovi spazi aperti alla libera conoscenza, a nuove esperienze, ma nei fatti anonime folle di utenti di app e piattaforme, ognuno legato “ai ceppi di una permanente minorità”. Fino al fiducioso affidamento d'ognuno ai nuovi Vormündern: Intelligenze Artificiali.

Kant non si indigna di fronte a questo perpetuarsi della minorità. Perché, scrive, qualsiasi libertà civile dei cittadini è subordinata al prioritario buon funzionamento della 'gemeinen Wesen' [cosa pubblica, comunità, repubblica]. Per questo è necessario un Mechanism che garantisca ordine ed efficienza.
La buona organizzazione esige che non solo lavoratori, ma anche dirigenti siano 'Theil der Maschine', parte della macchina.
“Il governo tramite una künstliche Einhelligkeit [un'armonia artificiale], dirigerà i comportamenti di tutti costoro verso pubblici scopi, o almeno li indurrà a non contrastare tali scopi”.
Si potrà anche “permettere ai sudditi di fare uso pubblico della loro ragione” esponendo “le loro idee sopra un migliore assetto della legislazione”, ma alla fine, per Kant, l'Illuminismo si riduce a questo: l'affidamento a un Sovrano Illuminato.
Egli, disponendo delle forze dell'ordine “a garanzia della pubblica pace”, può dire ai sudditi: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite!

Parole scritte due secoli e mezzo fa illuminano il nostro presente.

Georges Bernanos

« Le danger n’est pas dans la multiplication des machines, mais dans le nombre sans cesse croissant d’hommes habitués, dès leur enfance, à ne désirer que ce que les machines peuvent donner
Il pericolo non sta nella moltiplicazione delle macchine, ma nel numero che cresce senza sosta di uomini abituati, dalla loro infanzia, a non desiderare altro che ciò che le macchine possono dare
Così scrive Georges Bernanos il 20 gennaio 1945

«L’idée que la liberté puisse disparaître peu à peu d’une civilisation technique où, en effet, elle n’a pas de place, m’est, à la lettre, intolérable.»
L'idea che la libertà possa sparire poco a poco da una civiltà tecnologica in cui, in effetti, non ha posto, mi è letteralmente intollerabile.

nel 1938 all'esilio in Brasile, vive dal 1940 in un a casa isolata, nei pressi di Barbacena, Minas Gerais, alle pendici di una collina chiamata Cruz das Almas.
Si intitolerà 'Le Chemin de la Croix-des-Âmes' (1948) la raccolta dei suoi scritti di quegli anni: articoli per giornali brasiliani e francesi, lettere aperte.
Bernanos è impegnato nella Resistenza. De Gaulle il 16 febbraio 1945 gli telegrafa «Votre place est parmi nous». In giugno torna in patria, ma rifiuta il ruolo di ministro che De Gaulle gli propone.

«Sono uno scrittore e, se Dio vuole, anche un poeta», dice di sé. «Non invento niente, racconto quello che vedo». E cosa vede Bernanos in quegli anni?

Sono gli anni del dopoguerra, del possibile inizio di tempi migliori. Politici, sociali. Bernanos, in quegli anni, coglie sintomi premonitori. Si chiede: non stiamo forse cadendo in "una fiducia cieca nella Civiltà delle Macchine?".
Nello stesso 1948, in cui esce presso Gallimard 'Le Chemin de la Croix-des-Âmes', esce in prima edizione mondiale presso un altro editore parigino il saggio di Norbert Wiener: 'Cybernetics; or, Control and communications in the animal and the machine'.

Bernanos scrive:

«L’idée que la liberté puisse disparaître peu à peu d’une civilisation technique où, en effet, elle n’a pas de place, m’est, à la lettre, intolérable.»

L'idea che la libertà possa sparire poco a poco da una civiltà tecnologica in cui, in effetti, non ha posto, mi è letteralmente intollerabile.

Ritorna sul tema in un saggio breve e nervoso, ricco di domande e di ammonimenti: 'La France contre les robots', 1947.
Bernanos, che ha passato la vita ad interrogarsi sulla propria fede, sull'impegno civile, finisce per passare gli ultimi anni della sua vita riflettendo su macchine che «dispensent de penser, de vouloir, de prévoir», dispensano dal pensare, dal volere, dal prevedere.
Questo, in fondo, è il suo testamento. Muore infatti, sessantenne, il 5 luglio 1948.

Amartya Sen 

Sen ci mette in guardia di fronte alle metriche, ai modelli. Spesso portano a trascurare il punto di vista di minoranze e oppositori. Meglio molti dati sporchi, difficili da interpretare, che pochi dati puliti.
Scrive: “ridurre ad un solo quantum omogeneo tutto ciò cui abbiamo motivo di dare valore non è possibile”. Quindi, dice, invece di ricondurre gli aspetti implicati nelle valutazioni a un unico sistema di pesi (come accade, ad esempio, nelle metriche contabili e bilancistiche; o come accade, in informatica, scegliendo un modello di dati o un algoritmo), meglio una ricca serie di pesi anche non pienamente congruenti tra di loro.

In un quadro segnato da una crescente divaricazione tra ricchezza e povertà

"Invece di accanirci a stabilire cos’è la giustizia ‘in principio’, facciamo il possibile, qui ed ora, anche magari per tentativi e errori, accettando l’imperfezione, facciamo il possibile per invertire il circolo vizioso della povertà e dell’ingiustizia."

"Si tratta quindi di accettare la complessità del mondo. Piuttosto che cercare rappresentazioni perfette del mondo, partecipare -per quanto è possibile ad ognuno di noi- alla costruzione di un mondo meno ingiusto."

"Non sta a noi definire cosa sarà considerato importante dai nostri figli, e da ogni generazione futura. Non sta a noi definire per loro gli ‘standard di vita’. A noi compete la responsabilità di lasciare agli altri lo spazio per scegliere in libertà quale vita vivere."

"Per cogliere i trend, i segnali deboli, conviene essere disposti ad ascoltare la voce altrui. Ascoltare chiunque e dare spazio anche alle opinioni con le quali si è in franco disaccordo. L’esclusione è in sé una ingiustizia, ed è anche fonte di ulteriori ingiustizie, perché, ritiene Sen, solo tramite il dibattito in pubblico cresce una società meno ingiusta."

Sen ci offre quindi una definizione sintetica: la democrazia è discussione in pubblico.

Una giustizia per i tempi digitali

Possiamo parlare di era di 'era digitale' ricordando che parliamo sia di causa che di effetto: l'economia, la finanza, la politica, gli interessi di una élite, generano una tecnologia. La tecnologia a sua volta determina economia, finanza, politica, cultura.

La tecnologia digitale finisce per ridefinire il concetto di giustizia.

Si afferma -a scapito di ogni altra élite; a scapito dei tradizionali poteri democratici: legislativo, esecutivo, giudiziario; a scapito anche a scapito dei politici di professione- una nuova élite di tecnici: tecnologi, tecnocrati digitali. Sono loro i nuovi Vormünder, i guardiani di cui parlava Kant.

I codici giuridici sono scritti da rappresentanti dei cittadini, in un quadro definito da costituzioni e norme di diritto. Sono scritti in testi e tramite linguaggi noti e trasparenti ai cittadini. Il codice digitale è invece scritto da puri tecnici non eletti ma auto-cooptati; ed è scritto in un linguaggio noto solo ai tecnici, illeggibile per il cittadino; linguaggio destinato ad essere compreso e recepito non dai cittadini ma da macchine.

Il cittadino vede via impoveriti i diritti dell'elettore e del legislatore, e retrocede ad utente di servizi erogati d'autorità dai detentori di piattaforme.

Il potere di fatto dei tecnologi e tecnocrati digitali può essere inteso come attacco alla giustizia. O ridefinizione della giustizia. I tecnologi hanno i mezzi per definire il terreno sul quale si svolge la vita civile.

Di fronte al nuovo potere di tecnologi e tecnocrati la risposta sta in una azione intensa della cittadinanza attiva. Amartya Sen ci fornisce indicazioni per trovare una via.

Verso una nuova assunzione di responsabilità

Circola nei media e nei social network ed in ogni dove una sia pur confusa e discordante apologia dell'Intelligenza Artificiale. Questa apologia giova a chiunque opera da professionista nel campo dell'Intelligenza Artificiale - anche a coloro che, di fronte a specifici aspetti di queste tecnologie, mostrano atteggiamenti critici.

Fa comodo in ogni caso creare un'aura di attesa e di pubblico interesse attorno alla cosa detta 'Intelligenza Artificiale'. Non importa se si tratta di un'aura fumosa. In un modo o nell'altro fa comodo educare il popolo a stare in attesa di novità sbalorditive. Se mai si accenna a difetti di questa cosa detta 'Intelligenza Artificiale', sempre si bilancerà parlando dei difetti degli esseri umani.

Se ci fermiamo per un attimo a pensare, se prendiamo anche solo per un istante coscienza di come stiamo vivendo e agendo, ci rendiamo conto di come oggi accettiamo una sottrazione di libertà.
Meditando, ci rendiamo conto di come oggi viviamo sottoposti ad una restrizione dell'ottica, dell'ampiezza del nostro sguardo. Viviamo sussunti a regole contenute in macchine. Viviamo chiedendo lumi a macchine. Osserviamo in mondo attraverso macchine.
Ci specchiamo in gemelli digitali. Conosciamo il mondo attraverso 'dati'.

Ci diciamo che 'non esiste umano senza macchina'. Cerchiamo di convincerci che 'è sempre stato così'. Ma sappiamo che dicendoci questo inganniamo noi stessi.

La macchina che ci impone le restrizioni che oggi subiamo è la macchina digitale, computazionale, che prima del Ventesimo Secolo non esisteva.
Solo la macchina detta 'computer' porta con sé l'idea che la macchina possa sostituire l'umano.
Solo la macchina detta 'computer', allo stesso tempo, porta con sé l'idea che il pensare è l'eseguire ciò che sta in un Libro delle Regole già scritto.

Siamo succubi di una ideologia che, a partire dalla presenza di questa macchina, pretende di ricostruire a ritroso la storia del pensiero e della conoscenza.

Siamo succubi di una filosofia secondo la quale l'amore per il sapere non autorizza noi umani a esplorare la realtà in ogni direzione. Ci viene infatti imposto di amare, prima del sapere, una macchina. Ci vienee imposto un pensiero sottoposto a regole e legato al confronto dell'umano con la macchina digitale.

Sta a noi mantener vivo un pensiero che non contempla macchine pensanti, e che non considera noi stessi macchine pensanti.
Solo recuperando una saggia distanza dalla macchina potremo vivere liberamente la presenza di macchine.

Chi dubita e si interroga, chi -di fronte al pressante invito ad adattarsi, a non fare a meno di sempre nuove tecnologie digitali- chiama alla cautela, viene tacciato di luddismo, difensivo attaccamento al passato, atteggiamento retrogrado.
Chi cerca di trovare, per sé e per gli altri, un limite, una misura, nell'uso dei mezzi digitali proposti dalla martellante propaganda, è accusato di essere vittima della paura. Paura della macchina, paura del nuovo, paura del confronto e dell'incontro con il diverso.

Ma a ben guardare, ad aver paura sono coloro che prontamente, con sollievo, si affidato a nuove macchine digitali, in particolare a quelle macchine che vanno sotto il nome di 'Intelligenze Artificiali'.

Tutti oggi abbiamo motivo di essere impauriti. Ma impauriti non tanto dalla presenza, accanto a noi, di una o di un'altra macchina; impauriti, invece da disagi sociali, crisi economiche, guerre conflitti politici che paiono insanabili, disastri ambientali. Di fronte a tutto questo, sì, abbiamo paura.
Come far fronte, ci chiediamo?

E ci rispondiamo: meno male, c'è l'Intelligenza Artificiale. Affidiamoci a lei.
Evitiamo così di chiederci davvero, in modo impegnativo, come posso far fronte?
In un tempo precedente non potevamo fare a meno di dirci: devo assumermi questa responsabilità. Oggi disponiamo di una macchina che ci illude di poter scansare ogni responsabilità.

Questi argomenti offrono uno sfondo al tema: Il macchinocentrismo come problema filosofico, oggetto di incontro il 29 maggio 2025, ore 18-20, presso la Casa della Cultura di Milano. Primo appuntamento della serie L'etica ai tempi del macchinocentrismo, a cura di Assoetica.

Macchinocentrismo vs. Antropocentrismo

E' diffusa l'accusa di 'antropocentrismo' rivolta a chi mostra cautela di fronte alle macchine digitali, in particolare di fronte alle macchine progettate per imitare, simulare o sostituire l'umano.

Dietro l'accusa di 'antropocentrismo' si nasconde la posizione 'macchinocentrista'.

Un primo modo di intendere il 'macchinocentrismo' risiede nel considerare esseri umani -e animali e ogni tipo di ente naturale- come sistemi complessi, ovvero macchine.
Un bambino, l'universo, la macchina di Turing, un qualsiasi computer, una infrastruttura tecnologica; in ogni caso macchine.
Descritta così la scena, il confronto tra macchine è istituito. Nello specifico è istituito il confronto tra essere umano e computer.
Si tratta di un confronto dove è assunta in principio la comparabilità tra i due enti. Perciò, sull'altare della comparabilità, ciò che dell'umano è incomparabile -ciò che non trova riscontro possibile nel computer- è rimosso e ignorato.

Una posizione 'macchinocentrista' esemplare consiste nel sostenere che gli esseri umani, viziati da 'antroprocentrismo' misconoscono i diritti delle 'cose'.
L'uscita dall''antropocentrismo' consisterebbe quindi nel farsi paladini dei diritti del rappresentante ideale di ogni 'cosa': il robot.

Altra posizione 'macchinocentrista' consiste nel sostenere che gli umani hanno sempre conosciuto sé stessi attraverso il confronto e l'interazione con macchine.
Si mette così tra parentesi il ri-conoscersi come essere umano, essere vivente, appartenente alla natura e alla vita.
Resta in ogni caso la differenza tra il conoscere sé stessi attraverso il confronto o l'incontro con un tornio, un orologio, e attraverso l'incontro o il confronto con macchine progettate per imitare, simulare o sostituire l'umano.

Il conoscere sé stessi tramite il confronto e l'incontro con ogni essere umano, con ogni essere vivente, tramite la consapevolezza di appartenere alla natura e alla vita, porta a riconoscere a sé stessi una responsabilità ed un ruolo da giocare.
A quale posizione portano invece il considerarsi macchine, e il conoscere sé stessi come e tramite macchine digitali?

Questi argomenti sono il punto di partenza dell'incontro Il macchinocentrismo come problema filosofico, 29 maggio 2025, ore 18-20, presso la Casa della Cultura di Milano:  Primo appuntamento della serie L'etica ai tempi del macchinocentrismo, a cura di Assoetica.


giovedì 6 marzo 2025

Macchinismi computazionali e intelligenza: perché è aberrante la traduzione italiana del più noto articolo di Alan Turing

Computing Machinery and Intelligence: l’articolo di Alan Turing apparso nell’ottobre 1950 sulla rivista 'Mind'. Turing afferma in apertura: “I propose to consider the question: Can machines think?’". La definizione intelligenza artificiale viene coniata cinque anni dopo. Ma l’intero campo di ricerca discende da qui. Dove già nel titolo si propongono le parole chiave: macchina, computazione, intelligenza.

L’articolo, citatissimo, non è in realtà stato letto e studiato abbastanza. Per lo più è noto attraverso riassunti e letture di seconda mano, che presentano interpretazioni scolastiche e semplificate. L’impressione lasciata da queste sintesi appiattisce il senso, tanto da renderne inutile la lettura.

Leggete l’articolo da soli. Se l’avete già letto, rileggetelo. E' chiarissimo, e che ci parla più incisivamente delle prefazioni e dei commenti che lo accompagnano- illumina le stanche e ripetitive discussioni presenti. Non lasciatevi fuorviare dagli 'esperti' che vogliono darvi ad intendere che senza la loro mediazione non potrete comprendere: si capisce tutto molto bene.

Arriverete così a ragionare con la vostra testa sull’affermazione che si trova verso la fine: “We may hope that machines will eventually compete with men in all purely intellectual fields”. Potrete allora chiedervi: condivido questa speranza? Mi riconosco in questo progetto? In cosa il mio pensiero si differenzia da quello di Turing e dei suoi più o meno consapevoli seguaci?

L’articolo, è reperibile con estrema facilità sulla Rete in lingua originale, e in italiano, gratis. Ma ben venga una nuova edizione. Ne è uscita di recente una presso Einaudi, a cura di Diego Marconi.

La traduzione di Marconi è nuova. Ma il titolo - Macchine calcolatrici e intelligenza - resta lo stesso che appariva nella prima traduzione italiana dell'articolo, nell'antologia La filosofia degli automi, a cura di Vittorio Somenzi, Boringhieri, 1965. Il titolo resta uguale nella successiva edizione della raccolta: La Filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale, a cura di Vittorio Somenzi e di Roberto Cordeschi, Boringhieri, 1986, ristampata con prefazione di Damiano Cantone, Mimesis, 2022.

Macchine calcolatrici e intelligenza è un titolo sbagliato. Era un titolo sbagliato nel 1965, nel 1986, nel 2022, e a maggior motivo lo è oggi.

Macchine calcolatrici evoca macchine ben più semplici del calcolatore elettronico. Ma anche l'espressione calcolatore elettronico, che pure Marconi usa nella postfazione dell'edizione Einaudi, è datata e fuorviante.  Principalmente per un motivo: si nasconde la differenza, tra 'calcolo' e 'computazione'

Turing ammette che la assoluta calcolabilità - la descrizione del mondo logico-formale, esatta e priva di equivoci - è inattingibile. La sua risposta a questa impossibilità sta nel definire un universo più ristretto, dove i problemi che la calcolabilità impone sono assenti per definizione: l'universo della computazione.

E' importante discutere e confrontarsi. Ma ogni confronto sarà impossibile se tramite un titolo sbagliato, o chissà volutamente fuorviante, si nega l'argomento del contendere.

Invito quindi a leggere l'articolo di Turing immaginandolo intitolato Macchine computanti e intelligenza. O Macchine computazionali e intelligenza. O Macchinismi computazionali e intelligenza. O, tout court Computer e intelligenza.

giovedì 6 febbraio 2025

'Beyond cyborgs: the cybork idea for the de-individuation of (artificial) intelligence and an emergence-oriented design', articolo apparso su 'AI & Society', 1 febbraio 2025


Cosa è Cybork? Chi è Cybork? Dove sta Cybork


Cybork è Bildung; è complessità irrisolta; forma emergente; sistema sociotecnico; insieme di relazioni, processi, configurazioni fluide e comportamenti. 

Vedevamo distinzioni tra esseri umani e tecniche, strumenti; tra attori e rete; tra enti e loro agire. Nell'immagine del Cybork questi confini convenzionali sfumano fino a cessare di esistere. 
L'immagine del Cybork attingibile resterà approssimativa. 
Il Cybork è incalcolabile; non riducibile ad una descrizione computazionale. Intravvedere il Cybork significa avvicinarsi a scoprire il senso che sta oggi dietro le parola lavoro, dietro la parola work. Avvicinarsi al Cybork significa accettare la stessa nostra appartenenza al sistema che intendiamo osservare e descrivere. 
Accettare il Cybork significa accettare i limiti dello sguardo individuale, sapendo che c'è sempre qualcosa che non siamo in grado di vedere e di percepire. 
Scrivere a proposito del Cybork insieme ad altri umani, prendendo in considerazione altri testi scritti in precedenza da umani, è accettare di essere parte di un Cybork

Questo è ciò che penso in questo istante. 
Essendo il concetto di Cybork complesso, emergente, sfuggente, in un altro istante potrei pensare qualcosa di differente.  

Ringrazio Federico Cabitza -che per primo ha 'visto' il Cybork: con lui ho scritto un precedente articolo a questo proposito- per avermi invitato a partecipare a questo lavoro. Ringrazio Chiara Natali e David Gunkel per il lavoro svolto insieme, lavoro che ha trovato punto di incontro nel testo di questo articolo.
Non pretendo certo che nessuno di loro condivida appieno il mio pensiero, ma spero in nuove convergenze in articoli futuri. 

Per quanto mi riguarda sono specialmente interessato a studiare, e se possibile a mostrare, le differenze interne al Cybork. Differenze tra l'umano e il macchinico presenti anche anche quando essi sono strutturalmente accoppiati nel Cybork. Mio riferimento, in questa riflessione, è Marcel Mauss, Les Tecniques du corps, 1934.
Sto anche ragionando sulle sostanziali differenze che secondo me distinguono il Cybork da altri concetti in apparenza simili: la Human–AI interaction as System 0 Thinking: e la Human-AI Coevolution
E sto scrivendo un articolo -che pubblicherò su Stultifera Navis dove spero di riuscire a mostrare i limiti della Actor Network Theory di Bruno Latour. Limiti che risultano evidenti alla luce di quella che mi appare la svolta chiave del pensiero dello stesso Latour, svolta che trova manifestazione nel suo libro Aramis ou l'amour des techniques. Credo infatti Aramis sia un esemplare Cybork.

venerdì 29 novembre 2024

Turing lo sapeva!

Un accademico, ordinario di Computer Science recentemente uscito di ruolo per età, si  presenta ora su Linkedin come 'etico informatico'. Ha scritto sull'Avvenire un articolo commemorativo nel settantesimo anniversario della morte di Alan Turing 7 giugno  1954. Qui l'articolo.

Riporto qui il commento all'articolo che ho proposto su Linkedin.

Se seguiamo Turing quando dice: "presumibilmente il comportamento intelligente consiste in un allontanamento dal comportamento completamente disciplinato del calcolo"", dobbiamo dedurne che nessuna macchina fondata sulla computazione può essere 'intelligente', perché la computazione è esattamente un procedimento completamente disciplinato dal calcolo. Anzi, Turing ci impone una ulteriore riduzione, un ulteriore allontanamento dall''intelligenza' definita come sopra, dato che la computabilità è per definizione più strettamente disciplinata della calcolabilità.

Turing lo sapeva! Infatti tutto il suo ragionare, nell'articolo "Computer Machinery ed Intelligence", 1950, tutto il suo cercare la macchina che pensa, la macchina intelligente, non è che una mera speranza, umanamente comprensibile, ma priva di fondamenti logici, matematici, o in senso lato scientifici. 'I hope', scrive verso la fine dell'articolo, come tu stesso ricordi: "possiamo sperare che sicuramente nel futuro le macchine competeranno con gli uomini in tutti i settori puramente intellettuali".

La domanda dunque è: perché Turing coltivava questa fideistica speranza? La domanda è anche: perché sono molti oggi coloro che coltivano, seguendo Turing, questa fideistica speranza?

Mi sembra resti aperto anche un ulteriore interrogativo: anche tu coltivi questa fideistica speranza? Perché scrivi: "I recenti progressi dei sistemi di intelligenza artificiale generativa stanno facendo cadere l’ipotesi che siano solo dei 'pappagalli stocastici', basati sul caso. Almeno dal punto di vista fenomenologico alcuni esperimenti hanno invece dimostrato in questi sistemi l’esistenza di scintille di intelligenza".

Tu credi davvero che gli argomenti esposti da Emily Bender in "On the Dangers of Stochastic Parrots" siano infondati, e che invece vada dato credito a quanto scrive Sébastien Bubeck in "Sparks of Artificial General Intelligence: Early experiments with GPT-4"?

Nel complesso, leggendo il tuo articolo, mi sembra che tu condivida la "solenne dichiarazione di fiducia e ottimismo" che attribuisci a Turing.

Perciò mi pare resti una certa contraddizione tra il tuo testo il titolo dell'articolo: 'Così Alan Turing ci mise in guardia dagli inganni delle macchine'. Turing non mette in guardia dagli inganni delle macchine, spera che le macchine pensino!. Forse i redattori dell'Avvenire non hanno capito? O forse, consapevolmente o inconsciamente, si tratta di una presa di distanza da quello che scrivi?

lunedì 14 ottobre 2024

L'informatica è umanistica

Articolo apparso su MagIA il 13 ottobre 2024

L'informatica è umanistica

di Francesco Varanini

Informatica Umanistica o Digital Humanities? Da molte parti sento dire che l'espressione 'informatica umanistica' è orrenda, e che non esiste motivo per non adottare l'espressione inglese, che oltretutto porta con sé un richiamo esplicito alla comune, e per molti definitiva, affermazione del 'digitale' come parola chiave indispensabile per definire la cultura nella quale ci si vuole considerare definitivamente immersi.

Dietro la facile parola 'digitale' continuano però ad aleggiare, lo si voglia o no, altre due espressioni, ben più portatrici di senso: computazione e informatica. Il 'digitale', in effetti, non è che la lettura pop della computazione e dell'informatica.

Ben venga quindi una dizione -informatica umanistica- che mantiene vivo il senso di una storia e che è espressa in lingua italiana. Non è questo il luogo per guardare alle differenze sottili tra 'informatica' e 'computer science'. Basta qui ricordare che i Dipartimenti delle nostre Università si chiamano Dipartimenti di Informatica.

Mi pare anche che in italiano risalti meglio l'ossimoro, l'accostamento di concetti in apparenza tra loro contrari, la giustapposizione di due in apparenza opposti avvicinamenti alla conoscenza. Da un lato l'Informatica, la Computer Science, nuova disciplina. Dall'altro l'Umanistica: l'arte, la letteratura, le scienze umane.

Appare dunque evidente l'ampiezza di senso che alberga nella definizione - e quindi nel campo di studi che la definizione descrive. Come possono stare insieme informatica e umanistica? Come si contraddicono a vicenda, oppure come si imbricano, come contaminano e interlacciano le due aree disciplinari? Cercherò di rispondere mostrando perché 'informatica' e 'umanistica' debbano stare insieme. Non possano che stare insieme.

E' inevitabile iniziare dicendo che l'Informatica Umanistica -o Digital Humanities- designa comunemente un ambito banale. L'informatica umanistica, si dice, si dedica a predisporre strumenti informatici per cultori delle discipline umanistiche: hardware e software ad uso editoriale, di biblioteche e musei; supporti informatici per ricerche storiche, linguistiche, o filologiche. Oppure si pone l'accento sulla divulgazione della conoscenza attraverso media informatici. O ancora si guarda alla codifica digitale di testi prima appoggiati su supporti cartacei; e in genere alla codifica digitale di parole, suoni, immagini.

Se invece prendiamo buono quel luogo, quel confine sfumato che sta tra l'Informatica e l'Umanistica, possiamo avventurarci a proporre un primo tentativo di definizione: l'informatica umanistica è il regno della transdiciplinarità.

Ma la transdisciplinarità è un'arte difficile da praticare.

Basta un esempio. Un concetto fondante dell'informatica è l'organizzazione dei dati sotto forma di albero gerarchico. E' buona cosa cercare di illustrare questa organizzazione logica attraverso analogie attinte dal vasto campo umanistico. Le scelte però finiscono per cozzare con i limiti, forse inevitabili, del quadro di conoscenze dello studioso.

Siccome in una edizione italiana del romanzo di Gabriel García Márquez Cien años de soledad l'editore ha aggiunto al testo, ad inizio libro, un albero genealogico della famiglia Buendía, si prende questo albero genealogico come riferimento tramite il quale mostrare le virtù generali e quindi le applicazioni tecniche dell'hierarchical tree.

Non si può certo pretendere che un docente di informatica sia particolarmente ferrato in temi storico-letterari, critico-letterari o filologici. Ma si dà il fatto che l'albero genealogico della famiglia protagonista del romanzo sia una aggiunta estemporanea del redattore italiano di una singola edizione. L'albero genealogico non compare in nessuna edizione in lingua originale, e tanto meno nella prima edizione dell'opera. Si dà anche il fatto che l'esposizione dell'albero genealogico contraddice le intenzioni dell'autore e la proposta che l'autore rivolge al lettore. García Márquez, al contrario, propone lettore di perdersi in una narrazione dove la sequenza storica, temporale, lineare degli eventi è assente; invita il lettore a rinunciare all'ordine rappresentato dalla gerarchia dei puri passaggi generazionali, e ad immergersi invece nella complessità: tornano gli stessi nomi di battesimo, la figura del nonno si ritrova negli atteggiamenti del nipote, gli antenati sono presenti qui ed ora... Se il romanzo ci offre metafore -e ce le offre- certo non ci parla di gerarchia, ci parla semmai di rete, o della massa di Big Data, aperti alle più differenti connessioni, compresi in un LLM.

Così, la buona intenzione si trasforma in un cattivo servizio.

Altri romanzi avrebbero certo fornito un miglior esempio di hierarchical system. Ma va anche detto che, al di là della letteratura, e dell'inesistente albero di García Márquez, le analogie pertinenti non sono poi così difficili da trovare.

Si sarebbe potuto ricorrere alle rappresentazioni grafiche delle strutture elementari delle parentele offerte dall'antropologia culturale. Ma sopratutto si può ricordare l'esempio principe di rappresentazione sistematica di conoscenze fondata sulla struttura ad albero: il Systema Naturae per Regna Tria Naturae, secundum classes, ordines, genera, species, cum characteribus, differentiis, synonymis, locis di Linneo. Nelle tavole di Linneo troviamo, già pienamente implementate, il hierarchical tree articolato in classi e sottoclassi, il file system, il modello dei dati.

Seguendo Linneo, si può oltretutto ricostruire il percorso che porta a Goethe. Goethe provava un enorme ammirazione per il quadro generale generale e sistematico, universale, proposto da Linneo.

Ma poi, anche sotto l'influenza straniante della lettura di Spinoza, un giorno, nell'orto botanico di Padova, osservando dal vivo un albero, Goethe ha una illuminazione: si rende conto della necessaria esistenza di una differente rappresentazione. La rappresentazione di Linneo è una Gestalt, una struttura ordinata dove ogni cosa sta in un posto formalmente descritto. Esiste un'altra possibile, anzi: necessaria rappresentazione: la Bildung: la forma formante, la forma che sta prendendo forma in questo istante, la forma emergente.

Se è possibile cercare il senso della computer science attraverso per la via della Gestalt, altrettanto può dirsi della via della Bildung.

Ricordando gli aspetti riduttivi e inconsistenti del richiamo approssimativo ad autore e ad una opera letteraria, non si vuole certo gettare la croce addosso a qualcuno. Si vuole solo far presente che molto difficilmente l'auspicato approccio transdisciplinare può essere oggetto di un singolo insegnamento, e molto difficilmente può essere praticato da un singolo docente.

La domanda che si pone è dunque questa: come cercare la transdisciplinarità. Come metterla in campo, come insegnarla.

Verosimilmente, la transdisciplinarità può emergere dal tenere aperto il ventaglio degli argomenti, al di là dei confini disciplinari. E cioè, in università, la transdiciplinarità è il frutto dell'ampiezza degli sguardi disciplinari accolti nei piani di studi.

Scrivo questo avendo in mente la personale esperienza. Ho partecipato più di vent'anni, presso l'Università di Pisa, al decollo del primo -e credo ancora unico- corso di laurea triennale in Informatica Umanistica. Si trattava di un corso Interfacoltà. Era bellissimo vedere lavorare insieme docenti cultori di discipline diversissime, e quindi anche incapaci di intendere l'uno il saper dell'altro. Tutti contribuivano ad una sintesi, o meglio in una apertura, in una disponibilità alla complessità, che si formava e andava crescendo nella mente degli studenti.

Spero che questi stringati accenni siano sufficienti per mostrare come l'informatica umanistica possa offrire un servizio di grande importanza: collocare i concetti, i costrutti che sono il pane quotidiano dei cultori dell'informatica e della computer science nel quadro storico e culturale nel quale i concetti e costrutti stessi sono stati generati e si sono evoluti.

Collocare il pensiero informatico e computazione nel vasto, aperto contesto della storia delle idee significa offrire la via per avvicinarsi alla più profonda e sfumata conoscenza della propria disciplina, al più consapevole dominio dei ferri del mestiere.

E' forse necessaria una precisazione: non si tratta di cercare, lungo una via già molto percorsa, ma foriera di vari fraintendimenti, un incontro tra due culture, la cultura 'umanistica' e cultura 'scientifica' (di cui la computer science fa parte), intese come campi nativamente distinti. Si tratta invece di considerare la scienza stessa (e quindi la computer science) un'arte umana, una specifica via verso la conoscenza, come lo sono la letteratura o la musica.

Accade oggi che i corsi di laurea di Digital Humanities siano incardinati nel quadro di Dipartimenti di taglio umanistico. E che siano concepiti come preparazione a coprire ruoli dove la competenza informatica necessaria è limitata ad elementi basilari e semplificati. Andando per esempi: dall'esperto di biblioteconomia all'esperto di Search Engine Optimization.

Il modo di intendere l'Informatica Umanistica che sto esponendo trova invece collocazione all'interno dei Dipartimenti di Informatica. Perché un certo senso l'Informatica Umanistica che qui propongo può anzi essere intesa la miglior formazione per qualunque professione nel campo della computer science: sia si tratti di impieghi di ambito aziendale, sia di carriere nel campo dell'accademia e della ricerca.

Infatti serve una solida preparazione in meritò ai fondamenti matematica, alla calcolabilità e alla computazione, algoritmi, programmazione... Ma è anche evidente la rapida evoluzione delle tecnologie: ciò che conta è essere preparati a coglierne gli aspetti essenziali e ad apprendere rapidamente. A questo fine, una preparazione umanistica è sicuramente un fattore efficace, un importantissimo acceleratore.

Si può infine ricordare che l'informatica umanistica fornisce un antidoto al comune modo di intendere la figura del computer scientist. Si dice che il computer scientist è impegnato ad interagire con due 'agenti': l'utente e la macchina. L'informatica umanistica riporta con i piedi per terra: il protagonista di questa storia è uno solo: l'essere umano. Nessun essere umano si merita di essere ritenuto passivo 'utente'. L'essere umano che costruisce macchine destinate ad essere usate da altri esseri umani merita una formazione che gli ricorda la sua appartenenza all'umanità. L'essere umano che costruisce strumenti per accompagnare gli esseri umani nella loro ricerca di conoscenza, merita una formazione aperta alla complessità dei processi di costruzione di conoscenza.


mercoledì 21 agosto 2024

L'ultima definizione di intelligenza è sempre la penultima

 Ci sono intellettuali preoccupati, a loro dire, di una certa regressione che si respira oggi nell'aria. Che fanno allora? Intervistano filosofe influenti, originali e stimolanti. (Se volete, leggete qui).

La filosofa dice: avevo scritto che c’era differenza tra un cervello organico e il modo in cui funziona un computer.

Ma mi sbagliavo! Me ne sono accorta quando ho scoperto l'esistenza dei chip sinaptici!

Ora, folgorata dal chip, la filosofa sa cosa è l'intelligenza - sa che può essere inequivocabilmente descritta tramite una definizione esaustiva, esatta - e sa anche che questa definizione è buona per descrivere sia l'intelligenza umana che l'intelligenza della macchina - che, ci assicura, sono la stessa cosa.

"È inutile negarlo: il cervello e il computer sono in una relazione reciproca e speculare, di mirroring". Dunque: specchiatevi nella macchina per conoscere voi stessi!

Sovviene un dubbio: quando verrà mostrato un nuovo chip alla filosofa, ella si afferrerà allora a nuove certezze?

Torna per fortuna in mente l'antica lezione: filosofia è aletheia: inesauribile tentativo di disvelamento, quindi proprio: esperimento, ricerca di ciò che sta oltre il già definito.

Dunque resta la domanda: dato e non concesso che la definizione di intelligenza fornita dalla filosofa abbia un senso, cosa c'è oltre quell'ambito già descritto?

Le mie capacità, e quelle tue, di te che mi stai leggendo, sono certo modestissime. Magari domani una macchina mi umilierà con i suoi superpoteri. Ma perfino nella mia capacità di pensare c'è qualcosa che travalica i confini segnati da quella definizione!

Nulla di questo sembra interessare a intellettuali e filosofi postmoderni, disinteressati a sondare le tenebre dell'ignoto, a cercare ancora. Ansiosi -o bisognosi- di stare al passo con le glorie dell'ora presente, essi sostituiscono la computazione all'aletheia.