sabato 2 giugno 2012

La personalizzazione dei risultati. O della caduta tendenziale dell’efficacia di Google e di ogni altro motore di ricerca


Cerco di parlare di come i motori di ricerca stanno via via perdendo la loro funzione.
Intendo per funzione del motore di ricerca l’accompagnare la mente umana nel pensare, e dunque nel produrre conoscenza.
Intendo per pensiero ‘conoscenza adeguata alla situazione, all’istante -ciò che ho intorno mentre ora mi accingo a cercare tramite il motore di ricerca qualcosa che mi è venuto in mente; all’attimo -se pongo in sequenza, in cronologia, le ricerche tentate tramite il motore, ognuna è compiuta in un attimo (‘atomo di tempo’) diverso; al momento: il mio cercare in un momento (‘momento’ è contrazione di ‘movimento’) irripetibile, ogni singola ricerca appartiene a un flusso, a un processo di pensiero che si evolve.

Il motore di ricerca come protesi della mente pensante
Possiamo dunque intendere il motore come una protesi, un prolungamento della nostra mente. Così come lo è la penna con la quale verghiamo segni su un supporto. Così come le mie dita avvinte alla penna mi portano a sciogliere il garbuglio che ho in mente tramite il processo di scrittura, le mie dita appoggiate sulla tastiera, i miei arti, il mio corpo, contribuiscono al pensiero favorendo l’‘accoppiamento strutturale’ con una macchina che chiamiamo computer. Di questa macchina ora non interessa il funzionamento specifico, interessa il fatto che tramite il motore di ricerca mi permette di allargare l’area della mia coscienza.
La tecnologia della scrittura su carta aiuta a sbrogliare il groviglio che ho in mente – ma la mia mente durante quel lavoro ‘resta sola’. La lettura mi aiuta a sbrogliare il groviglio che ho in mente in altro modo: fornisce nuovi stimoli, propone nuove connessioni – ma posso leggere solo un libro alla volta; e devo fidarmi di come ha sbrogliato il groviglio che ha in mente quel singolo autore; e devo fidarmi di come la mia mente semidesta mi ha guidato nel prendere in mano in quell’istante quel libro, mi ha guidato fino ad aprirlo a quello pagina.
Rispetto ai limitati aiuti offerti dalla scrittura e dalla lettura, gli unici aiuti che per lunghissimo tempo l’uomo ha avuto a disposizione, l’aiuto del motore di ricerca è enormemente più alto, vasto, profondo.
Il motore di ricerca mi permette di affacciarmi su un infinito spazio di ‘cose che non ho saputo pensare da solo’, di ‘cose che non ho ancora pensato’. O forse meglio: non solo mi permette di affacciarmi, ma mi porta ad affacciarmi. La spinta virtuosa sta nello sbattermi in faccia anche quello che non vorrei vedere.

Portare fortuna
Vediamo ora perché il verbo più adeguato per parlare della funzione del motore di ricerca è portare, o meglio, è il latino ferre.
La fortuna, di cui il motore di ricerca è dispensatore, è il farci vedere ciò che è visibile alla luce del ‘caso’, della ‘sorte’, del ‘destino’, prescindendo dalla nostra stessa volontà, dalla pressione limitante di schemi mentali già dati, ideologie, censure ed autocensure, paure. Potremmo dire: prescindendo dal Super Io. E portando invece alla luce l’Es.
Possiamo ricordare che fortuna, fortuito, forse discendono dal latino fortus, ‘sorte’. Fors è il nome d’azione del verbo ferre, ‘portare’. Da fors, fortus, ‘l’atto di portare il destino’. Da fortus, fortuitus, ‘che avviene per caso’. L’italiano forse discende dalla locuzione latina fors it, ‘destino sia’. La fortuna, o destino, è l’azione di portare la sorte che spetta a ciascuno. Qualcosa che ci coinvolge, ma che è inatteso.
L’accoppiamento strutturale tra essere umano che pensa e motore di ricerca genera novità inattesa, nuova conoscenza.
A ben guardare, il limite di Google, o l’autolimitazione implicita nel motore di ricerca, o l’inconsapevolezza del senso profondo del motore di ricerca, sono già testimoniati dalla tradizionale opzione offerta da Google. Sotto la finestra nella quale siamo invitato a formulare tramite parole la nostra ricerca, vediamo due tasti: “Google Search”, tradotto in italiano con “Cerca con Google” e “I’m Feeling Lucky”, tradotto in italiano con “Mi sento fortunato”.
Se scegliamo la seconda opzione, Google ci offre un solo risultato. Perché mai dovrei sentirmi fortunato se Google mi offre un solo risultato, quando può offrire alla mia mente pensante più risultati, tutti diversamente utili, tra cui scegliere? Posso sentirmi soddisfatto dall’unico risultato solo se mi contento di avere restituite da Google informazioni relative a qualcosa che avevo già in mente. La soddisfazione sta nella conferma.
Ma se Google mi restituisce ciò che sapevo già, se Google trova ciò di cui conoscevo già l’esistenza, tanto da farmi considerare ‘giusta’ la risposta, allora Google mi è stata utile solo come variante dello schedario di un biblioteca, o come data base retto da un modello dei dati previamente definito.
Google, così, non mi ha offerto niente di nuovo. Con il solo risultato, sopratutto se quel risultato mi appare ‘gisuto’, sono stato ricacciato indietro, nel mio passato, nel tempo in cui avevo già pensato a quella cosa. Non sono stato in realtà fortunato: la fortuna, appunto, comporta l’ignoto, il caso, il non consapevole, riguarda ciò che non so, o non so di sapere.
Google ci è utile non perché, e quando, ci offre conferme; ci è utile perché, e quando, porta a noi l’ignoto e l’inatteso. Quando ci connette con il perturbante, quando porta a noi, anche contro la nostra volontà, con ciò che ci dà disagio, e che vorremmo non vedere.

Personalizzazione dei risultati
Ora, questo vizio già implicito nello spingermi a considerarmi fortunato i fronte ad un unico risultato giusto, si ripresenta in forma generalizzata, con conseguenze più gravi, da quando Google ha via via ‘personalizzato’ i risultati delle mie ricerche.
Siamo lungi dal sapere tutto di come funzioni l’algoritmo di Google, ma di questo cambiamento ci siamo accorti tutti.
Google del resto l’ha dichiarato ufficialmente nel mese di dicembre 2009: chiunque effettua una ricerca si ritrova serp -search engine results page- inficiati dalle ricerche precedenti e dai click sui siti visitati.
Google, come del resto gli altri motori di ricerca sopravvissuti alla sua monopolistica presenza, modifica costantemente i propri algoritmi di ricerca nel tentativo di produrre risultati di alta qualità, più rilevanti.
Possiamo chiederci però dove stia la ‘più alta qualità’. Possiamo chiederci quali sono i risultati ‘più rilevanti’.
Possiamo sopratutto chiederci come fa Google a sapere quali risultati per me sono più rilevanti. Google non ha che una possibilità: tenere conto delle mie ricerche precedenti; dei miei “previous search habits”. Ma così, appunto, mi ricaccia nel passato. Chiude la mia ricerca in un feedback. Mentre invece il World Wide Web ci è utile se ci impone feed forward, . Ci è utile un motore che elabori le informazioni in ingresso -ciò che scriviamo nella finestra del motore di ricerca- purché l’elaborazione degli ingressi (input) non pretenda di prefigurare il valore dell'uscita (output).
I feed che tramite Xml possiamo attivare -ogni link, ogni connessione, ogni RSS- sono feedforward, non feedback. Navigando nella Rete, di nodo in nodo allarghiamo le nostre conoscenze proprio perché ci allontaniamo dai limiti impliciti del punto di partenza, punto dal quale ci muoviamo, condizionati dalla nostra ignoranza. Il motore di ricerca è lo strumento principe per allontanarci dai limiti impliciti nella nostra ignoranza. Ma ora ce lo ritroviamo depotenziato, perché ripercorre nostre vecchie tracce. Tracce di quando ci ponevamo altre domande, tracce di quando ci muovevamo in un altro contesto, tracce di quando eravamo ancora più ignoranti di quanto lo siamo ora. Ora sto pensando. Ma Google, di cui mi ero abituato a fidarmi, perché avevo appreso come mi aiuta a pensare, ora mi inganna, allontanandomi dal presente, riportandomi a ripensare il già pensato. Nell’evoluzione del mio pensiero l’eventuale tornare sulle cose già pensate è una possibilità. Ma qui diviene un vincolo, un obbligo imposto mio malgrado, oltretutto imposto in modo non trasparente.

Discovery Engine
Di fronte al successo, ed ai limiti di Google, altri attori cercano strade diverse. Appaiono quindi motori che pretendono di superare i limiti di Google e di ogni altro search engine, e che affermano la propria differenza chiamandosi discovery engine.
Basti un esempio: trap.it. Qualcuno si esalta: “Il web si sta spostando dalla ricerca alla scoperta!”. Purtroppo, si tratta entusiasmi del tutto ingiustificati. Dalla padella nella brace, direi.
Lo scopo di questi nuovi motori è duplice: velocizzare le ricerche, e scongiurare i pericoli derivanti dalla ridondanza e dall’overflow.
Cioè, ancora una volta, lo scopo è limitare la capacità del motore nell’aiutarci a produrre nuovo pensiero.
Ciò che chiede la persona che pensa al motore è essere sorpresi da risposte inattese, eppure in qualche modo legate a qualcosa che era implicito nella nostra domanda. Se l’aspettativa è questa cosa mai importa una risposta più veloce di qualche nanosecondo, o magari anche di qualche secondo.
Importa semmai che i crawler abbiano visitato anche i server più remoti; importa cioè che si sia accumulata la maggior massa possibile di materiali tra i quali cercare. La ridondanza è una benedizione; lì sta la ricchezza. Non sappiamo quale dato ci servirà, quando ci servirà. Ciò che chiamiamo ‘dati’ non è altro che la materia prima, grezza, non importa di che grana, con la quale ognuno di noi, pensando liberamente, costruisce conoscenza.
E parlare di overflow, è ancora una volta parlare della nostra paura di fronte al flusso, all’abbondanza, alla sconfinata ricchezza di conoscenza che in in qualche luogo c’è, e che il nostro pensiero potrebbe attingere – appunto, con l’aiuto di motori di ricerca, o di scoperta.
Dalla padella nella brace, passo indietro, perché il preteso passo avanti dei Discovery Engine rispetto a Google si fonda su strumenti di intelligenza artificiale.
Ora, Google, comunque la si guardi, ha un pregio: il suo algoritmo costruisce ordinamenti a partire dai comportamenti degli esseri umani. Legare me ai miei comportamenti passati è un difetto. Ma dare importanza ai siti e alle pagine e ai post e agli oggetti che altri essere umani hanno considerato importanti è un gran pregio. L’ordinamento di Google è frutto dell’azione umana. A questa nei Discovery Engine si sostituisce un’intelligenza artificiale, una pretesa intelligenza della macchina pensante. Un passo indietro.


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