Macchine per pensare -in libreria da metà gennaio 2016, edito da Guerini e Associati- è il primo tomo del Trattato di Informatica Umanistica.
Qui di seguito un breve estratto, in parte preso dall'Introduzione, in parte dal penultimo capitolo.
L’uomo si è affidato alle macchine.
Ma nemmeno questo è bastato. Il simulacro della cosa che la macchina
informatica ci restituisce è certo più povero dell’idea di
Platone. Ma non è tornando all’idea di Platone che riusciremo a
pensare nel modo in cui serve pensare oggi. Serve un modo totalmente
altro per pensare la sterminata massa di conoscenze di cui l’uomo
oggi dispone. Dispone, senza esserne padrone né artefice: perché
tra le conoscenze stanno le ‘leggi della natura’, ciò che l’uomo
ha saputo osservare ed evincere, solo parzialmente comprendendo.
Di fronte a un qualsiasi problema,
dovremmo imparare a non arrenderci mai alla comoda soluzione offerta
dalle macchine. Non arrenderci a ciò che è già scritto in un
algoritmo.
Di fronte ad ogni macchina, anche alla
macchina che sembra offrire una soluzione all’incapacità umana di
dominare la complessità, conviene continuare a pensare che là
fuori, in qualche luogo ci sia un’altra macchina, in grado di
funzionare diversamente. Conviene continuare a pensare che dietro
ogni macchina c’è un uomo che, in un modo o in un altro, pensa. E
di conseguenza costruisce la macchina.
Di fronte alle macchine, ci dice
Wittgenstein, non cessare di filosofare. Filosofare in modo barbaro,
come un primitivo che nulla sa della storia della filosofica, del
pensiero occidentale e della tecnica. O magari come un marziano.
Heidegger è il maestro che non cessa
di filosofare. Solo filosofando si può percepire il meraviglioso.
Heidegger, filosofo, ammetter che c’è bisogno, di fronte alla
scienza, alla tecnica, alle macchine, di pensare in un modo che va
oltre i confini della stessa tradizione filosofica. Ma Heidegger non
è né un barbaro né un marziano. Si rifà a Platone, a Aristotele,
a Omero, cercando lumi, e ammette di non trovarli.
Heidegger pensava con il suo quaderno e
la sua penna in mano, nella sua baita nella Foresta Nera, la finestra
aperta sul bosco segnato da sentieri.
Ora noi possiamo seguire Heidegger su
terreni sui quali Heidegger non poteva avventurarsi.
Sto pensando con la finestra aperta sul
mare, passano navi e barche ognuna seguendo la sua rotta. Ma sto
pensando, con l’aiuto di una macchina zu handen, una
macchina maneggevole, una macchina che posso guidare abbastanza bene,
facendole fare quello che voglio io. Non è proprio la macchina a cui
pensava Heidegger -la macchina che prende forma nell’uso-, ma siamo
vicini.
Ho aperte sullo schermo diverse
finestre: i testi -editi o inediti non importa- di autori diversi in
diverse lingue, alte fonti, appunti, miei testi in fieri. Ho accesso
ad ogni libro, ad ogni biblioteca, alle tracce di precedenti
tentativi di costruire senso esperiti da altri uomini. Posso entrare
in colloquio via mail o via skype con ogni altro essere vivente, ogni
altro pensatore, barbaro o ortodosso.
Posso accettare il presentarsi del
pensiero che si sta formando adesso, pensiero vergine dalle
costrizioni che l’informatica si era affannata ad imporgli.
C’è un paradosso in tutto questo,
perché la macchina che sto usando è una macchina informatica. Ma la
macchina qui è piegata a uno scopo che è l’inverso dello scopo di
Turing. Wittgenstein ci aveva avvertito: la macchina può essere
sempre usata in un altro modo. Ma anche: possiamo immaginare macchine
sempre più adeguate allo scopo che ci si pone. E comunque già così,
la macchina di Turing riconcepita da Bush, da Engelbart e Nelson, la
macchina che sto usando, è una macchina per pensare.
Così ho potuto ripercorrere la strada
che ha portato l’uomo a costruire macchine per non pensare.
Cartesio ha tentato di definire, senza
riuscirci, le regole per dirigere l’intelletto umano al retto
pensare. Senza riuscirci, ma lasciandoci come eredità un modello
gerarchico, strutturato della conoscenza. Il modello sul quale
l’informatica ha costruito la sua fortuna. Leibnitz ha seguito
Cartesio, riducendo il pensiero a calcolo. Calcolo: cosa dura,
materia che si pretende maneggiabile senza cadere nei dubbi del
filosofo.
Kant, Frege, Hilbert, sia pure in modi
diversi, hanno seguito questa strada. Fino ad arrivare a Turing, per
il quale l’umano pensare è ridotto fino ad essere niente più che
un lavoro “nel quale l’uomo non ha l’autorità di deviare da
esse in alcun dettaglio” da ciò che è scritto in un Libro delle
Regole.
Ho potuto narrare di come Freud ci
mostra l’ignoto, l’inconscio, e ci invita a trarre di lì, per
congetture, conoscenza. Ho potuto narrare di come poi lo stesso Freud
abbia chiuso in uno scaffale, imbalsamato in ortodossia, il suo
stesso pensiero. Ho seguito altri, come Wilhelm Reich, nel tentare di
continuare a maneggiare l’oscura materia del pensiero. Ho cercato
di raccontare come da una cultura nasca una macchina. Ho ricordato
Konrad Zuse, che aveva sognato una macchina, e poi la costruì, per
andare oltre l’orrore.
La Sache -così Heidegger
chiamava la ‘problematica materia del pensiero'- con la quale sto
lavorando non è roba mia solo mia. La perceptio, la percezione, la
cognizione che sto portando alla luce non sono solo una
rappresentazione formata dall’io umano, non è in gioco qui solo il
frutto della mia capacità di vedere e di pensare. Ciò che possiamo
chiamare conoscenza è il frutto del costante ‘pensare insieme’
degli esseri umani, reso efficace dal fatto che ogni essere umano è
accompagnato da una macchina per pensare.
L’uomo esiste perché pensa. Pensare
è cercare il meraviglioso; è avventurarsi dell’ignoto. Pensare è
diradare l’oscurità. Ogni uomo partecipa a questa avventura.
Questo nuovo modo di pensare, che va
oltre la tradizionale filosofia, e oltre gli scaffali -tutti i
modelli dei dati, le classificazioni e i file system
dell’informatica- Heidegger lo intravede parlandoci
dell’intravedere, della Lichte, del cercare una luce, una radura
nel bosco, o del salpare levando l’ancora e liberando nell’acqua
e nell’aria il nostro pensiero.
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