Nel precedente articolo, qui su Diecichili di perle, scrivevo di come la riflessione filosoficadovrebbe entrare nel bagaglio, e nelle quotidiane abitudini, di chichi quotidianamente si occupa di informatica. In questo articolo
rincaro la dose.
Dopotutto, l’informatica si occupa
della costruzione, della conservazione e della diffusione di
conoscenza. Proprio l’ambito di attività che da noi, in Occidente,
è stato coperto da figure chiamate ‘filosofi’. Oggi, sostengo
nel mio libro Macchine per pensare, assistiamo ad un passaggio
di mano. L’informatica prende il posto della filosofia.
L’informatica è la prosecuzione della filosofia con altri mezzi.
Per muoversi nell’enorme massa di informazioni di cui disponiamo,
massa che si incrementa istante dopo istante, serve all’uomo
l’ausilio di macchine che ci siamo abituati a chiamare computer.
Perciò, con
il mio libro, propongo una riflessione filosofica sulle
macchine dette computer. Non penso di portare una qualche verità. Ma
intendo mostrare come si può ragionare su questi temi. Vorrei così
sostenere gli amici -informatici, computer scientist, o social data
scientist, chiamatevi come volete- che scelgono di pensare da sé. E
che scelgono di percorrere la strada dell’assunzione di
responsabilità personali a proposito delle loro ricerche. E che
cercano anche, doveroso ricordarlo, di percorrere la strada della
responsabilità personale rispetto a come in quanto docenti formano
gli studenti ad essere a loro volta ricercatori responsabili.
Un semplice esempio. Sostengo che è
rilevante per chi si occupa oggi di computing il passaggio proposto
da Richard Rorty: dall’epistemologia all’ermeneutica. Ma mi si
dice: che c’è di nuovo in tutto questo? Non c’è bisogno di
Rorty. Basta Winograd, anche lui parlava di ermeneutica. Winograd fa
parte del canone informatico, Rorty no. Che bisogno c’è di uscire
dal canone?
Andando a guardare, possiamo osservare
che Winograd non cita Rorty. Ma ponendo un po’ di attenzione al
contesto nel quale i due si muovono, risulta evidente il fatto che
Rorty scrive prima di Winograd, lo anticipa. E’ Rorty a sostenere
nel dibattito filosofico degli Anni Settanta,
che non vale più la pena di cercare di edificare sistemi di
conoscenza ben strutturati, e che conviene invece cercare la
conoscenza nelle conversazioni: negli scambi, nelle interazioni,
nelle reti.
Winograd viene dopo. Perché allora
limitarsi a Winograd. Perché non risalire a chi ha portato scandalo,
contrapponendo direttamente e polemicamente l’ermeneutica
all’epistemologia.
Ma se proprio non si vuol leggere
Rorty, fatene a meno. Alla fin fine, io che adesso qui sostengo
l’importanza della sua lezione, in Macchine per pensare non
lo cito nemmeno una volta. Se volete restar fedeli alla pista
indicata da Winograd, leggete Heidegger, Wittgenstein, Gadamer. Ma
uscite dal recinto della letteratura di settore. Cercate fuori dal
recinto riferimenti filosofici, concettuali, a partire dai quali
costruire, in piena libertà e responsabilità, la vostra ricerca.
Un semplice esempio, ho scritto qui
sopra. Ma non un esempio a caso. Il passare dal lavorare con dati
strutturati al lavorare con dati destrutturati porta con se il
transito dall’epistemologia all’ermeneutica.
Chi lavora oggi nel campo
dell’informatica, in particolar modo chi fa ricerca, si trova a
doversi allontanare dal consolidato terreno dei dati strutturati. E’
chiamato, invece, ad avventurarsi sull’incerto terreno dei Big
Data, masse di dati di cui si ignora la struttura, o che comunque
debbono essere usati a prescindere dall’originaria struttura.
E’ un lavoro del tutto diverso. Chi è
abituato ad affidarsi ad algoritmi di riconosciuta efficacia, può
essere portato a dimenticare che l’efficacia è conseguenza della
struttura. Dove la struttura non c’è, e dove la ricerca non è
governata dalla mera applicazione di algoritmi, il ricercatore, per
abitudine, potrà magari illudersi che ‘le cose si mettono a posto
da sole’. Così, per esempio, il ricercatore può osservare
l’emergere, dalla sovrapposizione di diversi corpora testuali, un
sistema di regole grammaticali, sintattiche, semantiche. In
apparenza, senza aver fatto nulla.
Ma in realtà, cosa ha fatto il
ricercatore? Ha svolto, magari senza averne piena consapevolezza, un
lavoro ermeneutico. Ha lavorato formulando ipotesi interpretative, e
quindi applicandole ai dati.
Il ricercatore ha lavorato come il
filologo che collaziona manoscritti diversi, varianti, alla ricerca
del senso implicito nel testo.
Scrivevo qui su Dieci chili diperle, nell’articolo precedente: masse di dati destrutturati
appaiono sorde. Sembrano non dire nulla. Ci sfidano, chiedendoci di
provare a coglierne in senso. Ci sfidano ad interpretarli. Ci
chiedono, cioè, di essere ermeneuti.
Per questo è importante il campo
condiviso che chiamiamo ‘informatica umanistica’ - dove
l’umanista può mettere a disposizione dell’informatico la
propria esperienza di interprete di testi e di linguaggi. Ovvero, di
ermeneuta.
Insomma: la domanda ‘perché chiamare
in causa Rorty?’ può essere rovesciata in un’altra domanda. Tu,
ricercatore, computer scientist al lavoro con dati destrutturati, sei
consapevole di essere un ermeneuta?
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