domenica 17 maggio 2009

Scrivere per mezzo della Rete

Apprezzo sempre di più la conoscenza che nessun libro ospita e restituisce: le tracce sparse che trovo sulla Rete: non testi completi ma anzi testi programmaticamente incompleti, poveri spezzoni, citazioni, sunti, stralci, curiose divagazione, segnali deboli, scritture provvisorie, commenti, indicazioni di percorso. Contano più i testi inediti dei libri già pubblicati. Essendo ogni testo in fondo già noto, già letto, più del testo conta il commento. Conta più una pluralità divergente di commenti opinabili -ognuno dei quali apre una pista- di un'unica convergente interpretazione autorevole. Sono tracce di pensiero emergente, matassa da sbrogliare – ma per questo potenzialmente più ricche dei libri già scritti, conclusi.
E anche nel tempo presente, nel momento in cui sto scrivendo, convivono modalità diverse di scrittura: si produce conoscenza interagendo con un supporto cartaceo, ma anche lavorando con la sola voce. Sopratutto, oggi sta, dietro ogni forma di produzione di conoscenza, la codifica digitale: posso così usare, e tenere insieme, conoscenza prodotta tramite sistemi di segni diversi: segni vergati su un supporto, sì, ma anche voce e musica e immagini fisse e in movimento.
Sto sbrogliando una matassa, sto scrivendo un testo, che tra le altre forme di diffusione avrà, forse quella del libro. Ma non potrei scrivere quello che sto scrivendo, non potrei scrivere come se sto scrivendo - perdendomi nel gomitolo, nella maraña, clew, coil, écheveau, die Strähne, espressioni solo parzialmente vicine, lo so: non cerco una traduzione 'giusta', esatta, che in fondo non può esistere, cerco invece lo scivolamento di senso, la catacresi, nuove illuminazioni -nuovi mondi possibili, o una possibile mappa del mondo che sto attraversando, appunto come un lettore di libri gialli. Perché aiutato a pensare da questa macchina non ragiono più (solo) in italiano, trovo potenziate le mie capacità di ragionare in lingue che conosco bene, che conosco appena, che non conosco per nulla.
Non importa se i traduttori automatici sono approssimativi, non chiedo a loro nessuna precisione, accetto anzi come rivelazione poetica la loro imprecisione. Mi muovo nell'impermanenza, nella vacuità, nell'indeterminazione, e per questo posso creare conoscenza. Non cerco la verità in nessuna fonte. Né del resto mi aspetto dalla macchina una qualsiasi intelligenza. Mi basta la mia.
Penso a Proust alle prese con il tentativo di chiudere la Recherche, costretto a lavorare con la propria mente troppo debolmente connessa ai diversi strati di testo scritti a mano: dai quaderni di appunti al quaderno contenenti appunti disconnessi fino al manoscritto della versione finali. Strati impermeabili l'uno all'altro, perforabili solo dalla personale memoria. Testi che terminata la scrittura appaiono freddi e muti.
E io ora invece non ho nessun obbligo di terminare, di chiudere. Per rendere accessibile il frutto del mio pensiero, non ho bisogno di stampare su carta, una volta per tutte, una versione finale del testo. Questo testo potrà restare aperto. Non sarò costretto a smettere di scrivere.
Il testo che ho in mente come Devanarse los sesos, plastico e polimorfo, è per ora appoggiato su files diversi. E mentre scrivo, riesco a tenere in mente -ora, accoppiato strutturalmente a questa macchina- una infinità di fili parzialmente intrecciati: conto quante pagine web ho aperte in questo istante, cinquantasei, ognuna un indizio, una traccia che devo ancora connettere e collocare in una certo sempre temporanea struttura: libri aperti, voci di dizionari e di enciclopedie, testi che parlano di altri testi: Doug Engbelbart, Cellular Automaton, Genetic Algorithm, Embodiments of Mind, The Black Mask School, What the Frog's Eye Tells the Frog's Brain, monismo anomalo, Rudolf Carnap.
Osservo con tranquillità questo groviglio in cui sono immerso perché la macchina mi aiuta a perdermi e allo stesso tempo stesso mi aiuta a pensare che vedrò un filo - mi aiuta a trovare, per tentativi ed errori, per giochi ripetuti -come Philip Dick alle prese con il testo di The Man in the Hight Castle- un filo. Il Web, interrogato da te tramite il motore di ricerca, è il mio I Ching. Penso alla ricchezza dei mezzi di cui dispongo.
La sincronicità può 'funzionare', perché è coinvolta pienamente la mia mente: abbandono, mente semidesta, emozioni, passioni, gioco. (Mentre scrivo trovo incongruenze in testi già scritti, posso se voglio scrivere all'autore. Posso emendare e migliorare le voci di Wikipedia che incontro per strada).
Non solo ho a disposizione la parola scritta, ma anche immagini e voci. Mi appare così evidente come sia limitante conoscere un 'autore' -in questo contesto, la definizione è da prendere con le molle, e mi appare in tutta la sua imperfezione, in tutta la sua fallacia: chi è autore, e di cosa?- mi appare così evidente come la parola scritta su carta costringa la conoscenza del pensiero dell'altro in spazi angusti, unilineari, monodimensionali, freddi, appiattiti. Non conta forse l'eloquio, il tono di voce, lo sguardo – non sono anche queste manifestazioni di conoscenza? Se mi assoggetto ai limiti del libro, è solo perché ho solo il libro. Ma oggi, già nel momento in cui sto scrivendo, i tempi in cui avevamo a disposizione solo il libro sono alle spalle.
Posso, tramite il Web, leggere le personali prefazioni con le quali Humberto Maturana e Francisco Varela ripercorrono -sbrogliandola ognuno a suo modo- la vicenda scientifica ed epistemologica che intreccia le loro vite e i loro testi. Ma posso anche vedere ed ascoltare loro interviste. E posso farlo in un contesto che è anche caldamente autobiografico, legato all'essere vivente Francesco Varanini, perché posso ascoltare le conversazioni televisive di entrambi con Cristián Warnken Lihn, poeta cileno – essendo stato anch'io intervistato da Cristián in quello stesso luogo, in quello stesso contesto (a proposito del mio Viaje literario por América Latina), la mia comprensione dell'opera e del pensiero di
Maturana e Varela ne esce arricchita, illuminata da una luce che altrimenti non sarei riuscito ad accendere. Un'ora di conversazione, forse vale più di centinaia di pagine scritte.
Certo, niente vale di più della com-presenza, della vicinanza dei corpi vivi, io e l'altro a portata di voce e di sguardo e di tocco. Ma la parola scritta -e dunque la lettera e il libro- non sono l'unico surrogato dell'assenza e della distanza (nel tempo e nello spazio) e della morte. Di più, credo, vale la mobile parola scritta del testo digitale; di più valgono nell'insieme, credo, le risorse che il Web ci rende accessibili.

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