L'altro giorno sono andato a vedere una mostra (Cordelia von den Steinen, Il sogno e i segni, 7 aprile-31 maggio 2009, Milano, Castello Sforzesco, Museo d'Arte Antica. Catalogo: Silvana Editoriale, 2009).
Cordelia von den Steinen costruisce figure con la terracotta. Una operazione molto diversa dalla scultura.
Scolpire: lavoro svolto con un utensile da taglio, lo scalpello. Con lo scalpello si può fare anche un lavoro sottile e delicato, ma resta centrale l'idea di un duro lavoro, svolto picchiando con un martello. Già l'arte della scultura in bronzo si allontana da questo originario gesto. Così in latino si sostituisce a scalpere, 'graffiare una superficie', il più nobile sculpere. Non ci deve sfuggire la vicinanza tra questo 'graffiare' e il ''graffiare', l''incidere', 'grattare', 'graffiare', 'tagliare', 'intagliare' cui rimandano le espressioni che ci parlano della scrittura: scrivere, grafia, segno. Come se solo attraverso ferite inferte alla superficie si potesse tenere memoria, costruire immagini. Come se l'arte e la poesia e la conoscenza fossero intrinsecamente legate a questi gesti duri.
La manipolazione della terracotta, l'uso della materia più antica, la terra, ci mostra la creazione in una diversa dimensione. Non manipolo simboli ma interagisco con la natura stessa, dandole forma.
La radice indoeuropea swer- ci ricorda l'idea di 'stare nel mondo': ‘osservare’, ‘prendersi cura’.
In inglese, dall’idea di ‘safe keeping’, ‘protection’, si passa all’idea di oggetto degno di attenzione, forse d’amore: ware, 'manufactured goods'. Il valore aggiunto sta nella manifattura, il ware è definito in base alla lavorazione. Giungiamo così ai ‘products of art or craft’. Ecco dunque l’earthenware, il manufatto del vasaio. (Anche l’hardware viene a noi da questa storia).
Così, manipolando la terra, Cordelia von den Steinen ci racconta storie. Donne che lavorano in cucina, donne che stirano, donne che tessono – e il tessuto è subito, come per magia, abito per l'uomo. Ma il tessuto nasce dal filo, e il filo è innanzitutto un gomitolo, enormi gomitoli che incombono sulla persona, il grande compito è, prima di ogni altra cosa, farsi carico del gomitolo, dipanarlo. Ci sono donne tranquillamente adagiate tra i libri, su libri aperti. Ci sono scrivanie sulle quali regna il gran disordine, la rete solo parzialmente tessuta che abbiamo in mente. Ci sono donne solitarie sedute fuori dal tempo, sempre altrove, intente a lavorare con un personal computer in grembo, alla lettera laptop. E c'è -mi appare come l'immagine più evocativa- un gruppo di persone sedute su una sorta di scala, ognuno su uno scalino stretto, una fila, da una persona con i piedi a terra fino ad un'altra lassù, lontana in alto, ognuno chiuso in sé, quasi curvo sullo schermo del suo portatile, immedesimato nel gesto della mano che muove il mouse.
Intendo questa immagine come l'archeologia di un futuro: torna a noi, come da un domani lontano, come l'immagine di una storia remota, così come è per noi l'immagine di un antico scriba che traccia segni su una pergamena o su una tavoletta di cera, torna a noi l'immagine di come noi stiamo diventando, ognuno di noi assorto con lo sguardo fisso sul suo sullo schermo, la mente semidesta, ognuno di noi strutturalmente accoppiato alla sua macchina per pensare, per costruire conoscenza. Uno accanto all'altro su una scala che sale forse verso il cielo, forse anche connessi, ma ognuno solo con la sua macchina, come lo eravamo un tempo con un foglio e una penna, con un libro.
lunedì 18 maggio 2009
Macchine per pensare, o archeologia di un futuro imminente
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