Una studentessa a Pisa durante la lezione fa un cenno. Le chiedo cosa c’è. Mi dice: “Ma se dobbiamo seguire il suo ragionamento, allora vuol dire che oggi scrivere è cancellare”.
Mi fermo un attimo a pensare, poi le dico che ha ragione.
Stavo ragionando sulla produzione narrativa. Il narratore sa cogliere al volo il rumore della vita, le frasi pregne di significato in grado di rappresentare un mondo. Per questo il narratore usa i propri sensi, il proprio sguardo, il proprio orecchio, acuto ed esercitato, la propria capacità di ascolto.
Ma tutta questa conoscenza, questo sapere, è vano se non è tradotto in scrittura. Il copista, non a caso, è figura centrale nei romanzi dell’Ottocento. Flaubert ci presenta la situazione estrema. Bouvard e Pécuchet, scrivani, copisti, alle prese con l’opera impossibile: riscrivere, in insieme organizzato, l’intero scibile umano.
Eppure, fino a pochi anni fa l’organizzazione –l’organizzazione di un discorso come l’organizzazione di un testo e come l’organizzazione di un’impresa– dipendeva ancora totalmente dalla scrittura; diventava efficace solo attraverso la scrittura.
Senza il lavoro dello scrivano non c’è informazione gestibile, non c’è ‘base dati’. E’ questa base dati che permette ogni successivo lavoro: la correzione, il controllo, le ulteriori copie, l’aggiunta di glosse e l’approntamento di sintesi.
Pensiamo all’ultima incarnazione del copista: la segretaria dattilografa. Oppure pensiamo a quella che forse resta la sua più alta incarnazione moderna: la governante di Marcel Proust, Celéste Albaret. Proust, gelosissimo della propria opera, fin al limite delle proprie forze aveva scritto di proprio pugno. Finisce però per arrendersi a dettare a Celéste, che comunque, oltre a lui, quasi co-autrice, è l’unica persona in grado di muoversi negli strati informativi che intercorrono tra la materia prima, l’appunto colto al volo e fissato in fretta -frase rubata di bocca in un salotto, schizzo di un carattere- e l’ultima stesura destinata alla stampa. Sono tutti quaderni scritti a mano, conservati in quella camera foderata di sughero dove l’autore, per diminuire distorsioni, per restare solo con la propria memoria, si è volontariamente rinchiuso. Quaderni di serie diverse, ognuna appunto corrispondente ad uno strato informativo: quaderni di meri appunti privi di qualsiasi struttura, quaderni contenenti informazioni collocate all’interno di una ancora approssima struttura, quaderni contenenti una prima stesura, quaderni contenenti la versione finale.
Nella scrittura su carta, l’accesso ai diversi strati informativi è negato. Come ritrovare all’interno del testo, quella frase? Come ripercorrere la vicenda di un personaggio? Come intervenire sul testo già scritto?
Proust combatte con la struttura informativa a mani nude. Non gli resta che ricorrere alla memoria, forse al caso o alla coincidenza che lo porta a riaprire alla tal pagina un vecchio quaderno. E non gli resta infine, per correggere e migliorare la struttura del testo in corso d’opera, non gli resta che lo strumento estremo delle paperolles. Così lui chiamava le strisce di carta incollate al margine del quaderno da Céleste, negli estremi giorni, quando l’autore sentiva il bisogno di intervenire sulla struttura del testo già scritto. Solo aggiungendo queste strisce di carta, alcune delle quali lunghe più di due metri, era possibile aggiungere altre parole all’interno della sequenza di parole già scritte.
Mettiamoci ora, invece, nei panni di uno scrittore, se non di oggi, del prossimo secolo. Insomma, come lavorerà un Proust del prossimo secolo?
Il life caching –la massa di tracce digitali lasciata dalle nostre vite: telefonate digitalizzate, Sms, e-mail, testi contenuti nelle cartelle del desktop, testi pubblicati su blog, stream video, foto, registrazioni vocali, agende e calendari– ci garantisce quella base di informazioni che prima dovevamo chiedere al copista. O che a Proust richiedeva una lunga e lenta prima stesura.
Ecco il punto. Mentre il Proust del ventesimo secolo doveva affannarsi a scrivere, il Proust del futuro potrà tranquillamente dedicarsi a cancellare.
Lavorando su masse di informazioni grezze, non importa se e come strutturate, costruiremo testi sottoponendo l’informazione a un processo di estrazione selettiva. In funzione di un obiettivo comunicativo o estetico, in un dato istante elimineremo da questa gran massa tutto quello che non serve a dire quello che vogliamo dire. (Il senso dell’italiano cancellare è proprio questo, coprire, rendere invisibile).
Questo, credo, intendeva Derrida parlando di ‘scrittura’. Senza saperlo ci parlava di 'conoscenza' digitalizzata, base necessaria e allo stesso tempo massa informe, sempre passibile di diversa organizzazione. La ‘decostruzione’ di Derrida non ci appare più oscura se la intendiamo come la perenne ristrutturazione di cui è passibile l’informazione digitalizzata.
Di qui una provvisoria, ma credo non irrilevante conclusione. Se ci abituiamo a considerare nostra ‘penna’ gli strumenti di Information Retrieval e di Data Mining, la gran massa di informazioni che ci troviamo a gestire non ci apparirà un ingombrante peso, ma al contrario l’indispensabile base materiale della scrittura avvenire. La fonte della nostra personale libertà espressiva.
domenica 17 maggio 2009
Scrivere cancellando, ovvero Flaubert, Proust, Derrida e la conoscenza digitalizzata
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Geniale, Professore!
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