Nella notte tra giovedì 27 e venerdì 28 marzo 2008, verso le tre, mi sono svegliato improvvisamente. Non riuscivo a prendere di nuovo sonno, non avevo voglia di leggere. Sulla mensola accanto al letto libri, qualche pezzo di carta, la boccettina di gocce che prendo talvolta per dormire. Mi cade l’occhio sul piccolo registratore digitale, Olympus (Digital Voice Recorder WS-321 M).
In quei giorni avevo intenzione di verificare come lavora sui file vocali WMA –uno standard Microsoft– prodotti dal registratore il software di ricognizione vocale Dragon NaturallySpeaking 9.5. Perché stavo ragionando sugli argomenti attorno ai quali si muove un testo che avevo finito da poco di scrivere, Permanentemente registrare, in vista di giorni migliori. Cosa accade se, in virtù di tecnologie oggi di facile accesso, -mi chiedo in questo testo- sfuma il confine tra oralità e scrittura, tra parole pronunciate e parole scritte, tra mente e supporto, tra ragionamenti emergenti nella conversazione e lenta costruzione del testo attraverso sorvegliato processo di scrittura?
Un conto è testo scritto, un conto è una conversazione, volatile parola orale, come la lezione universitaria di Antonio Banfi delle quali parlo in quel testo. Lezione destinata a lasciare deficiente traccia, destinata a conservare deficiente traccia solo in virtù degli appunti di uno studente. Registrare la voce; mantenere memoria, parola per parola, dell’articolarsi del discorso, è un’altra cosa. Pensavo così di registrare una mia lezione universitaria – dopo aver esplicitato la cosa ai miei studenti, perché la mia coscienza di etnografo mi impedisce di occultare questo esercizio di potere, questa violazione unilaterale dell’ambiente comunicativo. Ma non mi decidevo a farlo. Un conto è accettare un mondo dove tutto sia permanente registrato, un conto è compiere un atto unilaterale – registrare per risparmiarsi il tempo della scrittura, quasi un trucco o una scappatoia. C’è, nel life caching, nel conservare ogni traccia, un aspetto maniacale e narcisistico dal quale guardarsi, un aspetto che –mi viene in mente ora– non ho toccato in quel capitolo.
E comunque sentivo il bisogno di sperimentare la differenza tra un processo di scrittura e l'altro. E comunque quella notte non riuscivo a riprendere sonno. Così accendo il registratore e mi metto a parlare. Parlo a me stesso, nel silenzio notturno, voce che narra nello spaesamento della veglia. All'inizio senza avere previsto cosa avrei detto, parlo senza avere in mente un consapevole filo logico. Parlo per un ora, quarantatre minuti e ventuno secondi, e in questo tempo detto a me stesso un testo che risulterà essere di 50.594 caratteri.
Parlo, posso supporre ricordando ora, avendo confusamente presenti i temi che per vie diverse, da punti di vista diversi, dipano in questo libro. E avendo anche in mente chiacchiere del giorno appena trascorso, nuovi appunti e spunti che si aggiungono a una mappa mentale che preferisco lasciare segreta, che preferisco leggere attraverso le parole che via via emergono e si concatenano in discorso. Per abitudine, conosciamo come questo processo si manifesta attraverso il vergare segni sulla carta. E da anni ormai siamo abituati ad una differente modalità: il costruirsi decostruirsi e ricostruirsi del testo sullo schermo. Questa –narrare oralmente e sottoporre la voce al lavoro di un software– è una modalità ancora diversa, di cui poco sappiamo. Interessante guardare alle sue caratteristiche distintive.
Il testo che appare sullo schermo, frutto del lavoro del software, ci appare interpretato da un lettore lontano, dotato direi di una sua saggezza: come letto da un oracolo. Os è antichissima parola indeouropea che sta per 'bocca', parola che ritroviamo in latino. L'oracolo è la voce del dio che disambigua il testo oscuro, il grezzo materiale che è la voce digitalizzata, trasformata in codice. L'oracolo Dragon interpreta il testo a suo modo, la sua lettura è un responso che talvolta sorprende. Soprattutto il dio si acciglia se vario il codice: il software mi rimprovera per il mio indulgere a espressioni inglesi, tecniche, non sa che le uso per antica consuetudine, non sa che considero quelle parole pienamente appartenenti al mio lessico privato, e mi punisce: parlo di come il gatekeeper si interponga tra autore e lettore e Dragon l'oracolo severamente e misteriosamente legge: venti chili di perle. (" invece la conoscenza così come viene codificata nel libro così come è controllata da 20 chili di perle ...").
Ma allo stesso tempo Dragon è un lettore fedelissimo, che ignora le autocensure dell'autore
le sue incertezze, le sue debolezze. Ci sono parole che si dicono, ma che mai si scriverebbero. Ed ecco invece che me le ritrovo lì, conservate ed esposte alla lettura mio malgrado.
Di solito, del processo di scrittura è visibile al lettore, solo una versione, di solito l'ultima, la stesura ripulita, mondata degli inciampi, semplificata, ripulita delle ipotassi eccessive, degli incisi inutili, delle deviazioni troppo insistite che allontanano dal flusso principale. Sulla bozza che Dragon mi propone, avrei naturalmente potuto intervenire, trasformando il testo in un testo simile al testo che avrei potuto scrivere, come sono abituato a fare, limandolo e ripulendolo via via, approssimandomi ad una stesura 'finale'. Avrei potuto scandire il testo in paragrafi, avrei potuto attribuire ad ognuno con un suo titolo. Ma mi sono limitato a indicare con una riga vuota il luogo dove, in un testo più sorvegliato o rifinito, rileggendo, avrei aperto e chiuso i paragrafi.
Forzandomi, ho ridotto al minimo gli interventi, agendo là dove mi sembrava indispensabile per restituire senso al testo. Testo che spero appaia quindi al lettore mostrato nel suo farsi, lasciando evidenti le incertezze, le ridondanze e le lacune. Leggendo, mi sono meravigliato, mi sono affacciato sul mio stesso testo: ho detto veramente io queste cose, ho pronunciato queste parole, ho compiuto questi passaggi? Ho detto così tante cose in così poco tempo. Alcune svolte, alcune connessioni, non le ritrovo mie: scrivendo a penna, o come in questo istante con le dita sulla tastiera, di fronte allo schermo, non avrei saputo fare questi voli, non avrei saputo prendermi queste libertà. L'oracolo sono io, l'autore non sa quello che dice. Si potrà sempre poi tentare di rendere fruibile il testo -accettandone la versione orale e al contempo la versione scritta-, come faccio qui.
Dieci, venti, cento chili di perle. Chi l'ha detto che il software non può scrivere poesie?
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