giovedì 28 novembre 2019

I limiti della macchina imposti all'uomo. Un modo di intendere l'Intelligenza Artificiale


Se alla cibernetica poteva essere imputata la presunzione filosofica -comprendere e formalizzare le regole che presiedono alla vita-, alla computer science può essere imputato il comodo riduzionismo. Nel solco di Cartesio e di Leibniz -ma in assenza della finezza che caratterizzava il pensiero di Cartesio e di Leibniz- la computer science su una spettacolare serie di riduzioni.
Scrive Alan Turing nel 1950: “L’idea che sta alla base dei calcolatori digitali può essere spiegata dicendo che queste macchine sono costruite per compiere qualsiasi operazione che possa essere compiuta da un calcolatore umano. Si suppone che il calcolatore umano segua regole fisse; egli non ha l’autorità di deviare da esse in alcun dettaglio. Possiamo supporre che queste regole siano fornite da un libro, che viene modificato ogni volta che egli viene adibito a un nuovo lavoro”.1
Insomma: si assume che dell’agire e del pensare umano si debba prendere in considerazione solo una specifica attività: il calcolare. Si assume che del calcolare si debba prendere in considerazione solo una parte, il computare. Si assume che l’essere umano ridotto a ‘computatore’ sia costretto ad operare seguendo regole fisse, scritte in un Libro delle Regole, senza poter deviare da esse in alcun dettaglio.
C'è dunque, nel progetto di Turing, e quindi in tutta la computer science, un vizio originario: si propone sostituire l'uomo con la macchina. Con una macchina, però, di cui sono descritti i precisi limiti. Siccome la macchina può funzionare solo eseguendo un 'libro delle regole', un programma, si finisce così per assumere che anche il lavoro umano dovrà essere inteso come mera esecuzione di un programma. E' esclusa la creatività, la libertà, l'innovazione.
Cinque anni dopo la pubblicazione dell'articolo di Turing, appare il termine Intelligenza Artificiale. “Il tentativo è quello di procedere sulla base della congettura che ogni aspetto dell'apprendimento o qualsiasi altro aspetto dell’intelligenza può in linea di principio essere descritto in modo tanto preciso da poter essere simulato da una macchina”.2
Come apprende l'essere umano? In mille modi che qui possiamo ricordare per minimi accenni: apprende dalla propria storia, facendo esperienza, scambiando conoscenze con altri esseri umani, sperimentando, lanciandosi nell'ignoto... L'affermazione di principio su cui si basa l'Intelligenza Artificiale porta quindi a dire si tratta di insegnare ai computer ad imitare l'apprendimento umano. Non a caso oggi, sessant'anni dopo l'annuncio dell'Intelligenza Artificiale, con motivo si sostiene che più che di Intelligenza Artificiale sarebbe corretto parlare di Machine Learning, capacità delle macchine di apprendere.
Ma come si svolge il Machine Learning? L'originaria contraddizione del computing è ancora attuale. Si vuole imitare tramite computer il comportamento umano, ma si deve fare i conti con i limiti del computer, con ciò che la macchina è in grado di fare. Così la vasta e sfumata capacità di apprendere è ridotta dai computer scientist a tre sole modalità: apprendimento sorvegliato, apprendimento non sorvegliato, apprendimento rinforzato.
Ogni macchina digitale ha precisi limiti. Non ci sarebbe problema, per noi umani, se non fosse che siamo bombardati da una martellante propaganda: confida nell'intelligenza della macchina, fidati della macchina più di te stesso.


1   Alan Turing, “Computing Machinery and Intelligence”, Mind, Vol. 59, Number 236, October 1950, pp. 433-460. Poi in Alan Mathison Turing, Mechanical Intelligence, edited by Darrel C. Ince, North-Holland, Amsterdam-London-New York-Tokio, 1992; trad. it. Intelligenza meccanica, Boringhieri, Torino, 1994. Prima trad. it. “Macchine calcolatrici e intelligenza”, in Johann von Neumann, Gilbert Ryle, C. E. Shannon, Charles Sherrington, A. M. Turing, Norbert Wiener e altri, La filosofia degli automi, a cura di Vittorio Somenzi, Boringhieri, Torino, 1965, pp. 116-156.
2   John McCarthy, Marvin L. Minsky, Nathaniel Rochester, Claude E. Shannon, Proposal for the Dartmouth Summer Reaserch Project on Artificial Intelligence, August 31, 1955; vedi in: AI Magazine 27, 4, 2006, pp. 12-14.

giovedì 24 ottobre 2019

Scrivere è cancellare


Una studentessa durante una lezione del mio corso di Tecnologie dell'informazione e produzione di letteratura mi ha detto: 'Ma allora, seguendo questo ragionamento, scrivere è cancellare'.
Una delle novità più significative dell'epoca digitale consiste nel modo con cui ogni persona costruisce conoscenza.
L'epoca della stampa era caratterizzata dalla scarsità. Scarse le conoscenze documentate attraverso la stampa. Scarsa l'accessibilità alle fonti. Limitato nel numero di coloro che possono accedervi.
L'epoca digitale è invece caratterizzata dalla sovrabbondanza, dalla ridondanza, dal rumore, dalla libertà d'accesso.
Nell'epoca pre-digitale il lavoro di conservazione della conoscenza è condizionato dalla pochezza di mezzi ed è faticoso. E' faticoso scrivere, disegnare. Nell'epoca digitale disponiamo, senza bisogno di nessuno specifico lavoro, tracce di qualsiasi cosa accada: ogni parola detta può essere registrata e quindi anche facilmente trasformata in scrittura. Ogni evento può essere fotografato o filmato.
Nelle epoche pre-digitali esisteva una netta differenza di ruoli sociali tra scrittore e lettore – e possiamo facilmente proporre un'analogia: la distanza tra scrittore e lettore è la distanza tra docente e discente.
Nell'epoca digitale esiste in partenza per ogni cittadino la possibilità di essere al contempo lettore e scrittore.
Nell'epoca pre-digitale la pubblicazione esigeva un processo tecnico complesso e costoso. Nell'epoca digitale la pubblicazione consiste in una operazione semplicissima alla portata di ogni cittadino. Possiamo infatti considerare pubblicato ogni testo che abbiamo salvato sul disco del nostro personal computer o smartphone.

Possiamo insomma dire che in epoca digitale ci troviamo di fronte ad un enorme, sconfinato testo già scritto. Tutto è già scritto. Conoscere significa focalizzarsi su ciò che serve in questo momento, concentrarsi su una zona, su alcuni nodi dello sconfinato testo. Cioè conoscere significa cancellare mentalmente ciò che non serve in questo momento.

Da ciò deriva una netta discontinuità nella competenza chiave necessaria per costruire conoscenza.
Nelle epoche pre-digitali la competenza consisteva nel trarre il massimo profitto dalle poche fonti a cui si riesce ad avere accesso.
Nell'epoca digitale la competenza consiste nel non soccombere alla sovrabbondanza, ovvero nel saper selezionare, nel saper scegliere, nel saper attribuire autorevolezza scegliendo tra fonti simili. Saper scegliere in modo differente in considerazione di di diverse esigenze. Saper scommettere, tentando un'interpretazione personale.
E' compito della formazione della scuola, dell'università e della formazione degli adulti cogliere l'importanza di questa discontinuità. Oggi serve insegnare a scegliere da soli, assumendosene la responsabilità.

Nota. Ho trattato lo stesso argomento -in modo meno sintetico, più analogico e letterario, e forse anche più efficace- in questo post di dieci anni fa.

giovedì 20 giugno 2019

Per una cittadinanza digitale

Il ragionamento che guarda alla cittadinanza digitale può essere articolato a partire da tre parole.
Cittadinanza, partecipazione, digitale. Il ragionamento sulle tre parole porta, alle fine, ad aggiungerne un'altra: infrastruttura.
Partecipazione: il latino particeps è composto da pars e dal tema del verbo capere, 'prendere': partecipe è chi 'prende parte'. Interessante però soffermarci qui su pars, da cui in italiano parte. Pars è nome d'azione del verbo parere, 'produrre', il cui senso sta nel modo di 'produrre' umanamente più ricco: il partus, parto. Siamo portati a considerare la parte come qualcosa di dato, come se all'origine stesse una separazione: se, indicatore di separazione, parere. Ma in l'etimologia ci suggerisce una lettura più profonda. Ogni essere umano è parte, nel senso che è stato partorito. La separazione è solo la separazione del parto. La separazione sociale sta piuttosto nel verbo dividere, dove il senso originario sta nel vid:  'mancante di'. La figura sociale esemplare che ci parla del senso della 'divisione', ovvero della forzata separazione dal corpo sociale è la vedova, colei che è 'mancante di', 'costretta alla separazione'. E' così che la saggezza umana, in qualsiasi cultura, consiglia di preoccuparsi nella reintegrazione nel tessuto sociale delle vedove e degli orfani. Possiamo chiederci come la tecnologia possa sostenerci nel reintegrare nel tessuto sociale chi è costretto alla separazione. La parola device ci parla di questo: dalla consapevolezza della divisione emerge il tentativo di superarla, espressa dal verbo francese diviser, 'divisare'. Di qui l'inglese device.
Cittadinanza: il latino cives, 'cittadino', discende da una radice indoeuropea che sta per 'insediarsi'. L'insediamento è un processo, o meglio è frutto di un passaggio. L'origine sia del migrare che del mutare è ben raccontata dal verbo latino meare: 'passare per una data via'.  Il 'passaggio al digitale' è una migrazione verso una nuova cittadinanza. Importante notare che il cives prende in latino un significato giuridico. Ma il senso originale dell'espressione è più vasto e più profondo. Ne è testimonianza in fatto che dalla stessa radice discendono in sanscrito espressioni che stanno per 'caro'. Dunque la cittadinanza è una relazione tanto giuridica quanto affettiva.
Del senso della parola digitale, ho parlato e scritto in varie occasioni, per esempio qui. In fondo la parola digitale è deludente. Digitale non vuol dire altro che 'numerico'. La parola quindi ci ammonisce, chiamandoci a non ridurre la cognizione di noi stessi a ciò che è visibile tramite 'dati' espressi in numeri. L'umana capacità di conoscere non si riduce al 'pensiero calcolante'.
Nell'intento di guardare alla 'cittadinanza digitale', conviene chiamare in causa anche un'altra parola. Siamo chiamati a vivere su piattaforme, o meglio a vivere in infrastrutture. Meglio usare la parola infrastruttura, più ricca di senso ed istruttiva. Infrastruttura: in origine sta la radice indeuropea ster, che ha il senso di 'stendere'. Da questa radice in greco antico stratos, 'esercito schierato', e strategôs, 'capo dell'esercito'. Questa è quindi anche l'origine di strategia.
Dalla radice ster discende il verbo struere significa in latino 'disporre uno strato sopra l'altro'. Da struo il concetto astratto: structura. Anteponendo il cum, che porta in senso di vicinanza e compiutezza, si ha il verbo construo, da cui costruisco, e quindi costruzione, construction. Ed anteponendo il dis, che sta per separazione, dispersione, si ha il latino destruo, distruggo, e quindi distruzione, destruction. Dal verbo struere, ancora, il latino stratum, da cui anche strada. E' proprio lo strato, dunque, a dirci dell'originario senso della struttura: un continuo tentativo di assestamento, che avviene attraverso il sovrapporre in modo differente gli strati uno sopra l'altro, cambiando ad ognuno la posizione, o aggiungendo o togliendo strati. L'infra rafforza ulteriormente il senso: infra è in origine 'sotto', ma poi sta anche per 'dentro', 'fra', 'all'interno'.
Il rischio che corriamo nel vivere in infrastrutture è  ben rappresentato dalla differenza tra l'essere cittadini ed essere utenti. Se ci limitiamo a vivere in infrastrutture già costruite saremo ridotti a utenti. Saremo cittadini solo se parteciperemo alla costruzione dell'infrastruttura.

sabato 30 marzo 2019

Push vs. Pull. Appunti sulla libertà e sul controllo sociale ai tempi della Rete



Agli albori del nuovo secolo, e del nuovo millennio, la novità digitale trovava nella Rete, o World Wide Web, la sua manifestazione esemplare ed insieme il suo simbolo. Si faceva un gran parlare allora di due possibili modi di intendere la Rete. O meglio: di due diversi atteggiamenti degli esseri umani appetto della Rete. Ovviamente si faceva uso di due termini inglesi: pull e push.
Pull: applicare forza in modo da causare il movimento verso la fonte della forza. Portare a sé. Estrarre, tirar fuori. Forse da un originale senso di sbucciare, sgusciare, raccogliere frutta o fiori.
Push: applicare forza contro qualcosa o qualcuno. Spostare, colpire, guidare, premere, schiacciare. Spingere, imporre.
Pull: la Rete, galassia di fonti, è il luogo da cui l’essere umano può liberamente attingere, mosso dalla propria curiosità, dai propri bisogni e dai propri desideri.
Push: la Rete, sistema più o meno strutturato di informazioni, è la base a partire dalla quale le informazioni saranno saranno trasferite, nel dovuto momento, nella mente e nel corpo di ogni essere umano.

Nel suo primo apparire, l'alternativa Pull vs. Push riguarda il marketing: disciplina nata nel Ventesimo Secolo con l'affermarsi della società dei consumi. Non basta il pull, la libera scelta di acquistare. Serve il push: la domanda di beni e servizi dovrà essere forzata tramite varie forme di rèclame, advertising, propaganda, sempre più specializzate per ambito merceologico, pubblico destinatario, tecnologie adottate. La domanda dovrà essere forzata anche attraverso la sempre più attenta predisposizione di canali e punti di vendita.
Il marketing definisce una figura sociale: il cliente. Il cliens, nell'antica Roma, era il membro di un gruppo sociale bisognoso di protezione. Il verbo cluere e la radice indeuropea retrostante stanno per 'ascoltare', 'ubbidire'. Il cliente, incapace di pull, incapace di soddisfare autonomamente i propri bisogni, vive del push del patronus. Patronus è pater, 'padre', discendono dallo stesso etimo e stanno per 'protettore e nutritore'. Il patronus sceglie a nome del cliens, sa cosa è meglio per lui. Nella logica del push il fornitore impone al cliente ciò che dovranno apparire come i suoi stessi bisogni.

Il marketing sembra trasformarsi, attorno all'Anno Duemila, in Customer Relationship Management. Con l'apparire sulla scena della Rete, i cultori del marketing sembrano convertirsi,. La Rete, secondo le prime entusiastiche letture, pone al centro la persona. Ogni singola persona è un nodo della Rete così come la Ford o la Coca Cola. Sembra cambiare l'ottica: è la persona a scegliere, a eleggere, confrontando offerte dirette, il proprio fornitore. Al posto del cliente sembra così apparire una nuova figura, l'eroe del pull: il customer. Il customer è il libero cittadino visto dal punto di vista del fornitore. Qui il fornitore lascia che sia il cittadino a scegliere. Il fornitore scommette sulla speranza che il cittadino per propria iniziativa, voglia consolidare l'abitudine, la consuetudine, il costume, di acquistare i suoi prodotti e servizi. La scommessa, basata sulla fiducia, va oltre. Si immagina un patto dove fornitore e customer cooperano: il prodotto o servizio sarà, in questa prospettiva, sempre più, frutto di un progetto condiviso dai due attori.
Ma questa epoca d'oro dura poco. Il marketing torna presto al suo originario orientamento al push. Le piattaforme digitali cessano di essere luogo di libera scelta, e passano al contrario ad essere il luogo del più feroce e invasivo push. L'ambiente nel quale il cittadino si trova a vivere, ambiente che è una interamente costruita macchina digitale, orientata al push.
Ciò che è più grave è che si tratta di piattaforme universali, che ogni cittadino sembra obbligato ad usare in ogni momento della propria vita. La pressione prima esercitata per spingere all'acquisto di beni di consumo è, nell'era della digitalizzazione del tutto, esercitata per imporre idee, modi pensare, scelte politiche. Il cittadino è ridotto a utente di servizi imposti. Le piattaforme digitali, per via push, dettano legge.

Già negli Anni Ottanta, quando inizia a crescere la massa di documenti accessibili tramite Internet, Rete che connette tra di loro diversi archivi e documenti conservati in luoghi ed in modi diversi, si fa viva la necessità di indici e sommari e schedature. L'avvento del World Wide Web rende via via più necessario uno strumento che permetta di orientarsi e di scegliere.
Appaiono così, negli Anni Novanta, i search engine, motori di ricerca. Il motore di ricerca è lo strumento principe del pull , la risorsa digitale attraverso la quale l'individuo, il singolo libero cittadino afferma il proprio desiderio di conoscere e di sperimentare.

Ma nel nuovo millennio, nel primo quarto di secolo, il push torna a prevalere sul pull. Lo stesso motore di ricerca è divenuto strumento di push. Nonostante ciò che scriviamo nella finestra di ricerca, le fonti proposte in risposta sono filtrate da una macchina che penalizza l'orientamento alla scoperta, anteponendo alle nostre scelte, scelte sue proprie. La macchina ci riproponendoci qui ed ora ciò che abbiamo cercato in passato, quando eravamo mossi da uno stato d'animo certo diverso da quello che ci muove oggi, quando vivevamo in un momento storico diverso. La macchina, a fronte della nostra domanda, ci propone in risposta ciò che qualcuno -impresa commerciale, lobby, partito politico- intende imporci. La macchina esegue gli interessi di un qualche ente orientato al dominio. La libertà di scelta è conculcata.

Anche le reti sociali sono nate come strumenti pull. Strumenti tesi a potenziare l’umana capacità di entrare in relazione con altri esseri umani. Spazi dove ogni essere umano può esprimere il proprio pensiero. Possiamo osservare come però hanno finito per divenire i più efficaci strumenti push: luoghi dove la manipolazione e la propaganda impongono pensiero unico al popolo inerme.

La facilità d'uso, la riduzione della fatica e dell'impegno personale sono la chiave per trasformare il pull in push. L'essere umano insicuro, in soggezione di fronte ad ogni autorità, ed ogni macchina, accetta di buon grado strumenti che semplificano la vita. L'inevitabile complessità è rimossa. Appare all'essere umano solo ciò che enti interessati al push ritengono opportuno far vedere.
L'esempio più evidente sono gli strumenti digitali che passano sotto il nome di App. Con i loro automatismi ignoti all’utente, con le notifiche che annunciano alla persona ciò che nel progetto dell'app si è previsto che la persona debba vedere e fare, sono lo strumento principe del push.

Dalla parte del pull sta il comportamento dell’essere umano che è cittadino adulto e responsabile e consapevole di sé, fiducioso in sé stesso. La scelta della fonte, e la sua interpretazione, sono azioni personali, così come la scelta del rappresentante in una elezione democratica. Dalla parte del push sta invece l’essere umano ridotto ad indistinto elemento del popolo. Umanità ridotta a massa. Un norma che si vuole ineludibile è spinta nella mente e nel corpo di ogni anonimo componente del popolo. Quel comando, quel senso di rassicurante dipendenza che prima passava attraverso i raduni nazisti o stalinisti, passa ora attraverso le risposte manipolate dei motori di ricerca, attraverso le notizie truccate pubblicate sulle reti sociali da agenti della propaganda nascosti dietro una maschera, attraverso le notifiche emanate dalle App.

Il push è l’arma nelle mani di una classe politica, una élite variegata nelle più diverse posizioni ideologiche, ma unita e solidale nell'esercizio del potere. Il push è arma usata contro i cittadini, e contro il concetto stesso di cittadinanza. Non c’è cittadinanza digitale, non c’è cittadinanza in senso lato se non è rispettata la sfera di autonomia e di privatezza. Se l’essere umano è continuamente osservato e controllato. Il push è, in fondo, la possibilità, garantita dalla tecnica, di penetrare nella sfera privata. Qui il dominio si sposa al controllo: gli stessi strumenti tesi ad imporre comportamenti agli esseri umani, dovranno sorvegliare i comportamenti degli esseri umani.
Un disegno certo non nuovo, agli occhi degli storici, dei cultori delle scienze umane, e sopratutto agli occhi dei letterati, degli artisti, sommi indagatori dell'animo umano. Possiamo ben rileggere la storia come contrasto tra esseri umani: la prevaricazioni di pochi si impone alle moltitudini.
Questo ben noto disegno trae nuova forza dall'inusitata potenza degli strumenti digitali.

domenica 3 marzo 2019

Bitcoin-Blockchain: un avvicinamento storico, politico e culturale. O tracce per un seminario

Molti si occupano oggi di Blockchain. Per quanto mi riguarda, anche in questo caso il mio approccio è storico, politico, culturale.  Satoshi Nakamoto, chiunque egli sia, è l'erede di una duplice ricchezza: un consapevole profondo pensiero politico-economico-sociale e una grande competenza tecnica. La competenza tecnica, da sola, mai avrebbe potuto portare a scelte progettuali così originali.
Questo è il pensiero che mi guida nei seminari che dedico a questo argomento.  Per i tecnici, è molto importante inquadrare la novità nella storia. Per manager e in genere cittadini è importante capire, affinché la novità politica e culturale non sia azzerata da sguardi miopi, esclusivamente tecnici o speculativi.
Di seguito la traccia usata in un seminario. Non tutto risulterà chiaro. Ma credo si coglierà il senso di un percorso. Del resto, è lo stesso percorso di senso che seguo nella Prefazione a Nicola Attico, Blockchain. Guida all’Ecosistema. Tecnologia, Business, Società, Guerini Next, 2018, a cui ho dedicato l'articolo precedente.

1889 Macchina di Hollerith: l'Informatica del Mainframe
Anni 30 IBM in Germania
1936 Turing: Macchina di Turing, Programma
1945 Computer digitale: percorso che porta alla cosiddetta Intelligenza Artificiale
Anni 60 Engelbart, Nelson, Licklider
1970 Nelson: Computer Lib/Dream Machine. Jobs, Gates.
Anni 80 Cyberpunk, Chypherpunk: Manifesti; Gibson, Stephenson; Crittografia- Anonimato contro Oligarchia.
Anni 2000-... Amazon, Google, Facebook, Cloud

Emerson, Nietzsche

2008-... Satoshi Nakamoto. Hal Finney. Nick Szabo: Shelling Out, Smart Contract, Bit Gold

Anonimato
Firma digitale: soluzione parziale
Democrazia dei computer accesi
Peer to Peer: no terze parti garanti; decentramento, non distribuzione
Crittografia asimmetrica: Hellman 1976;  chiave pubblica e chiave privata; firma digitale; no intermediari
Hash, Hashing: insieme di dati qualsiasi trasformato in stringa di lunghezza fissa: Digest o Hash Value
Mining: blocco chiuso da orologio, costo di transazione, numero di transazioni al secondo, Proof come sigillo
Proof of Work vs. Proof of Stake: una scelta politica

Transazioni
Catena e biforcazioni
Blockchain vs. Database
Database: scaffale gestito da terzo dove si mette e si toglie, sempre e solo in posizioni predefinite
Blockchain: archivio storico di transazioni andate a buon fine, immodificabile, disponibile a tutti gli attori, ogni transazione connessa ad ogni altra
Accessibilità e privatezza: si mostra ciò che serve, quando serve, a chi serve

Transazioni
Smart Contract
DAO, Decentralized Autonomous Organization
Nick Szabo vs. Vitalik Buterin

Casi esemplari: Pay Roll, Logistica, Banche

venerdì 11 gennaio 2019

Un avvicinamento alla Blockchain

Questo testo è la Prefazione al libro di Nicola Attico, Blockchain. Guida all'Ecosistema. Tecnologia, Business, Società, Guerini Next, 2018.


Nel momento più acuto della crisi finanziaria -scoppio della bolla immobiliare, crisi dei mutui subprime, fallimento della banca Lehman Brothers- il 31 ottobre 2008 appare sulla Cryptography Mailing List del sito metzdowd.com il paper firmato da Satoshi Nakamoto: Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System.
Per cogliere il senso dell'evento dobbiamo risalire a venti anni prima. Attorno alle metà del 1988 un gruppo di giovani programmatori dotati di una precisa coscienza politica diffonde The Crypto Anarchist Manifesto. "A specter is hauting the modern world, the specter of crypto anarchy". Nel marzo del 1993 le tesi sono ribadite in A Cyberpunk's Manifesto. Appariva già allora chiaro a questi giovani esperti una situazione oggi evidentissima: il Personal computer -e possiamo aggiungere, anche lo smartphone, il Personal Computer in miniatura che ognuno di noi ha in mano- mentre da un lato è strumenti per essere sé stessi, per essere liberi cittadini, dall'altro è strumenti tramite i quali ogni cittadino è osservato, sorvegliato, controllato. Ogni comportamento può essere tracciato; i dati prodotti da ognuno diventano ricchezza nelle mani di grandi player globali. La sfera personale del cittadino è costantemente soggetta alla minaccia di violazioni. Dunque: "Privacy is necessary for an open society in the electronic age". I Cyberpunk -ma è forse meglio usare la definizione più precisa: Cypherpunk- propongono una risposta: "Privacy in an open society requires cryptography".
Così la crittografia, arte della quale questi giovani programmatori sono appassionati cultori, non sarà più strumento delle mani dei governi ed enti pubblici, oligarchie e grandi imprese. La crittografia si trasformerà in strumento per proteggere la libertà individuale. In modo da permettere ad ogni cittadino di svelare di sé di volta in volta, quello che serve, quando serve, a chi serve. La crittografia può essere usata come maschera che garantisce l'anonimato. "We the Cypherpunks are dedicated to building anonymous systems. We are defending our privacy with cryptography, with anonymous mail forwarding systems, with digital signatures, and with electronic money".
Diverse voci si sono levate a criticare il fatto che coloro che vent'anni dopo hanno reso disponibile la criptomoneta bitcoin non abbiano rivelato la propria identità. Varie inchieste hanno tentato vanamente di svelare chi si nasconde dietro lo pseudonimo 'Satoshi Nakamoto'. Ma si tratta delle voci di giornalisti in cerca di scoop, o di programmatori poco avvezzi allo sguardo storico. O, peggio, di esponenti degli enti che non intendono rinunciare a controllare e sorvegliare. Eppure, varie tracce legano 'Satoshi Nakamoto' ai Cypherpunk. Che già vent'anni prima avevano sostenuto la virtù politica dell'anonimato. La scelta di restare anonimi va dunque intesa come scelta di serietà e di coerenza.
Il progetto è ambizioso, utopistico. Dato per scontato che ogni cittadino disponga di un proprio Personal Computer, si tratta di permettere ai cittadini di scambiarsi beni e servizi, e di essere giustamente ricompensati per questo, senza nessun intervento da parte di "financial institutions serving as trusted third parties".
Eccoci così alla Blockchain: è il ledger, libro mastro, registro permanente, immodificabile, di tutte le transazioni avvenute. Registro che non risiede su un unico server centrale, è invece distribuito: risiede sui computer di tutti coloro che utilizzano la moneta digitale.
Dall'ottobre 2008 sino passati solo dieci anni. Si può con molti motivi ritenere che il successo di bitcoin come moneta, e la reputazione guadagnata dalla blockchain come alternativa ai consueti database, abbiano sorpreso gli stessi membri del gruppo di progetto. Un esperimento tecnologico -fondato sulla crittografia- e politico -orientato in senso antioligarchico- si è trasformato in un fenomeno di enorme portata. Paragonabile, per le sue potenzialità, all'accoppiata Internet-World Wide Web.
Come è normale che accada, coloro che cavalcano la nuova onda -speculatori finanziari, sviluppatori, startupper- ignorano la storia, anzi, la ritengono trascurabile. Poco importa loro dei precursori. Eppure, solo risalendo alle origini, come si preoccupa sempre giustamente di fare l'autore del libro che vi accingete a leggere, si possono cogliere appieno le potenzialità di un sistema tecnologico. Le stesse trusted third parties -istituzioni finanziarie, enti pubblici- tutte impegnate ogni a sviluppare la propria blockchain, trarranno giovamento dal ricordare gli intenti dai quali l'originaria blockchain è nata.
Perciò questo libro costituisce un avvicinamento efficace. L'autore, come i Cyberpunk, è mosso dalla passione per l'informatica intesa come substrato di una nuova vita sociale. Ma la sua passione è mitigata dalla formazione scientifica.
Nicola Attico, formatosi come fisico, conserva lo sguardo del ricercatore: uno sguardo imperturbabile, capace di muoversi con grande capacità di lettura in una sovrabbondante massa di informazioni che quotidianamente si accumulano, e di descrivere quindi con equanime rispetto scelte tecniche radicalmente differenti, senza mai lascia influenzare dagli eccessi di certe opinioni di parte. Riesce così a descrivere con efficace sintesi questo nuovo ecosistema con il quale ogni manager, ed in genere oggi cittadino, dovrà imparare a fare i conti.
Ogni lettore, così, avrà modo di formarsi una propria personale opinione.


lunedì 8 ottobre 2018

Macchina, Engine. Artefatto, Utensile, Strumento, Device

Macchina, Engine. Artefatto, Utensile, Strumento, Device: parole necessarie per arrivare a intendere appieno il senso della parola Computer (che trovate raccontata su questo stesso blog, qui).
Le voci che seguono sono tratte dal libro: Francesco Varanini, Nuove parole del manager. 113 voci per capire l’azienda, Guerini e Associati, 2011.

Macchina
Dante nel Convivio (Trattato Quarto, IX) si interroga -nel quadro ordinatore di Aristotele e San Tommaso- a proposito di cosa è “naturale” e su cosa è “umano”.
Parla dunque delle “maniere d’operazione” per le quali la nostra ragione è predisposta. Ci sono le operazioni che la ragione può considerare, ma non fare direttamente: le cose naturali e soprannaturali e le matematiche. Ci sono le operazioni che la ragione contempla e che traduce in atto, “le quali si chiamano razionali”, come l’arte di parlare. Ci sono infine le operazioni che la ragione considera “e fa in materia di fuori di sé, sì come sono arti meccanice”.
In greco mekhanikós, e in latino mechanicus stanno per ‘inerente alla macchina’. Ecco così in greco la mekhaniké téchne, e in latino l’arte mechanica. In greco attico la parola per ‘macchina’ era mekané. Al latino machina si giunge attraverso il dialetto dorico makaná.
Si trattava di ingegni tecnici usati nelle costruzioni e nei trasporti, e tipicamente in guerra. Ma l’osservazione di questi artefatti che l’uomo stesso aveva costruito, porta a proporre una visione del cosmo come un sistema regolato da leggi e sottratto ai capricci degli dei: è questo il senso della Machina Mundi immaginata da Lucrezio (De Rerum Natura, Libro V, verso 96).
Possiamo dunque collocare la macchina -per come essa era concepita in epoca classica, e poi nel Medioevo- proprio sul confine, che resta sfumato, tra le cose naturali e soprannaturali, le matematiche, e ciò che la ragione umana “fa in materia fuori di sé”.
Non a caso Roberto l’Anglicano scrivendo nel 1271 il suo commento al Tractatus de Sphera Mundi di Giovanni Sacrobosco che “Non è ancora possibile per qualsivoglia orologio seguire il corso del firmamento con completa accuratezza”. Gli orologiai, nota, stanno cercando di realizzare una ruota che dovrebbe fare una rivoluzione per ogni circolo equinoziale, ma non sono riusciti ancora “a perfezionare abbastanza i meccanismi”.
Nel mentre si immaginava la Machina Mundi, comunque, si continuavano a costruire macchine utili per la vita quotidiana. Ne è testimone la macina. La parola, un derivato di machina, usato nel latino parlato, designa la mola del mugnaio.
Mola, così come molinum, derivano dal verbo molere, che discende da una radica indeuropea mele, che sta appunto per ‘macinare’. Da molinum l’inglese mill, che non a caso nel 1800 -ne troviamo traccia nei saggi di Babbage e nei romanzi di Dickens- designava ogni grande macchina.

Engine
A Londra, nel 1800, vive e pensa e inventa un eccentrico genio che vede oltre. Progetta con grande acume -e tenta vanamente di costruire- macchine che oggi chiamiamo computer. In un’epoca in cui le grandi macchine sono comunemente definite mill, alla lettera ‘mulini’, a Babbage viene naturale parlare di engine.

Quando, sul finire del 1837, Babbage descrive nei suoi appunti l'Analytical Engine, la regina Vittoria è salita al trono da pochi mesi. E' la Londra di Darwin e FitzRoy, di Thomas Henry Huxley. La Londra di Dickens, fango e sterco di cavallo nelle strade, fumo che cala dai camini formando una pioggia sottile, morbida e nera. Città in trasformazione: si aprono grandi strade, si scavano fognature e gallerie per la ferrovia metropolitana.
Dickens e Babbage errano legati da amicizia. Ritroviamo Babbage nel nel personaggio di Daniel Doyce, in Little Dorrit (1857) vittima di un Governo poco disposto a sostenere l'innovazione; sconfitto a causa della scarsa protezione legale delle invenzioni.
Ada Lovelace, figlia del poeta Byron, scrive nel 1843 a proposito dell’Analytical Engine.The engine, from its capability of performing by itself all those purely material operations, spares intellectual labour, which may be more profitably employed. Thus the engine may be considered as a real manufactory of figures”. L’engine, in virtù della sua capacità di svolgere da sé le operazioni puramente materiali, risparmia lavoro intellettuale; le capacità umane possono così essere più proficuamente impiegate.
Engine porta con se l’idea di ‘macchina’, certo, e anche di ‘motore’. Ma proprio le caratteristiche innovative del congegno di Babbage ci fanno appare appropriato il termine engine.
Manufactory of figures: potremmo tradurre ‘fabbrica di simboli’ o ‘macchina che produce codice’. Possiamo però anche seguire la suggestione proposta da figura: dal latino fingere ‘plasmare’, da cui anche finzione e fiction. Non c’è in origine in questa idea negazione del reale; l’accento è posto sul creare ciò che non c’è ancora.
Engine, non a caso, discende dalla radice gene, ‘generare’, da cui, genio, genitore, gente, generazione, germe, gene, genetica, indigeno, progenie, nascere, nazione.
Il latino ingenium -da cui anche ingegneria- stava in inglese nel 1200 per ‘espediente’, ma anche ‘macchina da guerra’. Dal 1300, ‘strumento meccanico’, dal 1600 ‘macchina complessa’, poi specialmente steam-engine, ‘macchina a vapore’.
Potremmo forse tradurre congegno, incrocio di ingegnare e combinare. O meglio apparato, apparecchio. Perché il verbo latino parare, ‘produrre’, rimanda ad una radice che -con senso affine all’idea di gene- ci parla di ‘mettere al mondo’.

Artifact
La tékhne della Grecia classica, da cui la moderna tecnica e la modernissima tecnologia, si traduce in latino ars: 'arte', 'mestiere'. Si trova qui un senso che ritroviamo negli arti umani, e anche all'inglese arm, 'braccio', e all'arma -utensile, prolungamento del braccio alle mani. Un riferimento all'agire congiunto della mente e del corpo dell'essere umano. Alla base sta la radice indeuropea are, che -si veda anche anche il greco artys, 'unione'- ci parla di 'articolare', 'ordinare', 'unione', 'adattamento': di qui anche armento: 'insieme di animali'.
L'artefatto è arte factus, ‘fatto con arte’.  L’artifex è dotato di perizia tecnica, conosce il mestiere,
In latino troviamo anche artificium, artificialis, artificiosum. Le espressioni passano alle lingue romanze. In italiano, già ai tempi di Dante il senso è consolidato. Arte: 'attività umana regolata da accorgimenti tecnici e fondata sullo studio e sull'esperienza'. Artificio: 'espediente ingegnoso diretto a supplire alle deficienze della natura'.
In latino artificialis e artificiosum sono sostanzialmente sinonimi. Ma prendono poi nelle lingue romanze un senso divergente, che è utile qui ricordare. In artificiale è implicita l'opposizione al naturale: 'frutto del lavoro umano' – un esempio è la memoria artificiale: artificio, tecnologia, abilità, attraverso la quale greci e latini espandevano la capacità della mente umana di conservare conoscenza, utilizzando come supporto fisico il proprio cervello. In artificioso appare invece l'idea di 'affettazione', 'malizia', 'inutile ricercatezza', cammino lungo una strada che ci porta all'inganno e alla falsità. Chiara la differenza, l'ambiguità resta: la moderna tecnologia è al contempo artificiale -utile prodotto dell’homo faber- e artificiosa -qualcosa che minacciosamente si oppone all’uomo-.
Arriviamo così all'inglese artifact, parola nuova, coeva e connessa a technology. Entrambe si affermano negli Stati Uniti in conseguenza della saldatura tra scienza e industria. Entrambe ci parlano di 'volontaria estensione di un processo naturale'.
Per l'Oxford Dictionary (edizione 1928) l'artifact -o artefact- è ancora, genericamente, “a thing made by art, an artificial product”. Nel Supplement del 1933 la definizione è più precisa: “Anything made by human art and workmanship, an artificial product”. Workmanship: 'lavorazione', 'abilità professionale', 'rifinitura'.
Nel Supplement nel 1987, infine, appare una significativa aggiunta: “in technical and medical use, a product or effect that is not present in in the natural state (of an organism, etc.) but occurs during or as a result of investigation or is brought about by some extraneous agency”.
E dunque, se prima della rivoluzione scientifica e tecnologica del Ventesimo Secolo vedevamo l’artifact come prodotto dell’homo faber, ora lo osserviamo come mera conseguenza di un un processo di continua modifica dell’ambiente – al quale sia l’uomo, sia gli aritfacts già esistenti contribuiscono. 

Utensile
Organo: il latino organum; e, prima, il greco organon, significavano genericamente 'strumento', 'utensile', dalla radice indoeuropea werg-, che esprime l'idea di lavoro (da cui il greco 
érgon, 'lavoro', 'opera' e ergazomai, 'lavorare'; così come en-ergeia, 'forza in azione', 'energia').

L'idea di organo naturale, biologico, è dovuta al fatto che nessuna macchina appariva all'uomo complessa ed articolata come il suo stesso corpo. Forse la macchina più sofisticata costruita nell'antichità classica era lo strumento musicale a canne -macchina, organo per eccellenza.

Protesi, dal francese prothèse, alla fine del 1600 'apparecchio sostitutivo'. Il francese è dal latino tardo e dotto prothesis, 'aggiunta di una lettera all'inizio di una parola', dal greco próthesis, 'esposizione' , 'anticipazione', dal verbo prothítenai, 'porre innanzi', da pro, 'davanti', thítenai 'porre'.

Strumento: dal latino instrumentum, verbo struere 'costruire' (da cui anche structura) a sua volta dalla radice ster 'stendere'.
Dispositivo, dal francese dispositif: 'che prepara', dal latino dispositus, nel senso di ‘preparare al lavoro’, ‘preparare gli strumenti per il lavoro’.
Tool: protogermanico tolan, antico inglese tawian, ancora nel senso di 'preparare'. Strumento per eseguire o facilitare operazioni manuali, attrezzo, arnese.
Attrezzo: nel 1100 in antico francese atrait, alla lettera: 'attratto'. In italiano dalla seconda metà del 1600 'arnese necessario allo svolgimento di una attività'. Attrezzatura: nel 1800 'insieme di strumenti e pezzi di cui è corredata una nave', e poi nel 1900 complesso di arnesi, macchine, impianti destinati uno scopo.Equipaggiamento: dal france équiper, forse risalente allo scandinavo skipa, 'allestire una nave'.
Arnese: provenzale arnes, francese antico herneis, 'armatura del cavallo'.
Herramienta, in spagnolo ‘strumento’, utensile’. Dal latino ferramenta, plurale neutro di ferramentum, ‘arnese di ferro’.
Possiamo forse sintetizzare guardando all’utensile. Nel senso di strumento, arnese da casa o da officina, arriva in italiano nel 1600 attraverso il francese dotto ustensile, che si affianca al popolare outil. In origine, il latino utensilis, aggettivo per ‘utile’, ‘necessario’. E utensilia, ‘cose utili’; dal verbo uti, 'usare' – ma con un senso che resta ampio, ben oltre i confini del lavoro, come si legge in Tito Livio: “divina humanaque utensilia”, ‘oggetti relativi al culto e alla vita’.


Device
Un antichissimo concetto indeuropeo: widhewa significa ‘colei che è priva’, ovvero la ‘vedova’ (ne troviamo traccia precisa nel tedesco Witwe). La radice è weidh, ‘separare’, ‘dividere’, da cui il verbo latino dividere - dove il di rafforza l’idea di sottrazione.
Dividere sta dunque in latino per per ‘separare’, ‘distaccare’, ‘fendere’, ‘spaccare’. Anche per ‘distribuire’, ‘ripartire’, ‘dispensare’. E, in senso lato, ‘abbellire’, ‘far risaltare’, ‘ornare’ - ma anche qui resta sullo sfondo l’antica idea di vedovanza: irrimediabile mancanza, allontanamento dolorosamente subito.
Continuando ad esplorare questo campo semantico segnato dalla privazione, troviamo subito un
altro verbo, derivato da dividere, già usato nel latino volgare: divisare. Di qui l’antico francese, da cui l’italiano. Diviser, poi deviser, dal 1100 ci parla ancora di separazione, ma introduce l’idea di un proposito, una determinazione ad andare oltre: ‘mettere in ordine’, ‘fare la parte di’, ‘condividere’, ‘raccontare’. Quindi: ‘esaminare punto per punto’, ‘esporre minutamente’. E poi: ‘ideare’, ‘immaginare’, ‘inventare’.
Da deviser, nel 1400 devise, ‘azione di dividere’, e dunque segno distintivo, da cui da noi divisa, la veste che serve a distinguere un casato, uniforme che serve a distinguere un esercito. E la divisa nel senso di ‘titolo di credito’, ‘moneta cartacea’.
Prima però, già nel 1200, devis. ‘Separazione’, ma anche ‘disposizione’, ‘desiderio’, ‘proposito’. E quindi: ‘schema’, ‘piano’. Ancora oggi in francese devis è ‘stato dettagliato dei lavori da eseguire con la stima dei prezzi’, ‘preventivo’.
Da qui, nello stesso 1200, l’inglese devise (la grafia devise o device rimane incerta fino alla fine del 1800): maniera in cui qualcosa è divised o framed, con riferimento al progetto. C’è anche un rimando al subdolo, al malvagio. Ma poi anche qui entrano in gioco will, piacere, inclinazione. E quindi device è ‘ingenious or clever expedient’, ‘innovazione’.
Ecco così il ‘congegno destinato ad uno specifico scopo’. Prima meccanico e poi elettronico.
Alla tremenda solitudine della vedova, così come alle divisioni tra persone si risponde divisando: immaginando e realizzando strumenti capaci di aiutare a vivere con agio anche in stato di isolamento; strumenti utili a creare relazioni, oltre la divisione sociale.
Se il digital divide -la divisione, il divario che separa chi dispone di strumenti informatici e chi ne è escluso- si pone oggi come problema, electronic devices alla portata di tutti -calcolatrici tascabili, telefoni cellulari, computer palmari- semplici da usare ed efficaci, si presentano come soluzione.